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Autore: afep    14/03/2013    14 recensioni
"Liz Stone sollevò una mano per accarezzarsi la spalla in corrispondenza di quell’ultima cicatrice. Erano ormai passati tre anni da quando l’aveva visto l’ultima volta. Tre anni dall’ultima volta che erano stati insieme.
Tre anni da quando aveva cercato di ucciderla."
Dimenticare non è facile, nemmeno nella bella e assolata Los Angeles. Liz Stone, detective, lo sa bene.
Dimenticare non è facile.
Soprattutto se il destino ha ancora qualcosa in serbo per te.
---- Cancellata----
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
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Le undici di sera erano passate da un pezzo quando il detective Liz Stone rientrò nel suo bell’appartamento in un grattacielo poco fuori il centro di Los Angeles.
Con un gesto stanco scalciò le scarpe da ginnastica, lasciò cadere la giacca di tweed sul divano immacolato e si diresse verso l’ampia finestra del soggiorno, tirando le tende.
La splendida veduta della città illuminata comparve davanti ai suoi occhi, permettendole di spaziare dalle colline di Beverly Hills fino in fondo alla baia. Le luci della città degli angeli si riflettevano all’interno dell’appartamento buio, rimbalzando sulle pareti come fuochi fatui. Era uno spettacolo meraviglioso, ma il detective lo fissava senza vederlo.
Come in sogno sentì un piccolo colpo all’altezza delle caviglie, accompagnato a breve da un miagolio.
“Ehi, dolcezza. Hai fame?”
Liz Stone si chinò per prendere il gatto in braccio e si diresse in cucina, camminando con sicurezza nel buio.
Aprì il frigorifero, tirando fuori una scatoletta di tonno per il gatto ed una birra per sé, e per un istante la stanza venne illuminata da una lama di luce. Versò il tonno nella ciotola e si sedette per terra, sorseggiando la birra con la schiena appoggiata al mobile della cucina.
“Questa giornata ha fatto schifo.” Sentenziò. Il gatto sollevò gli occhi gialli e la fissò, continuando a lappare il pesce. “Dovremmo fare uno scambio, io e te. Tu vai là fuori a farti spaccare il culo e io sto qui a fare le tue cose da gatto.”
Liz Stone svuotò d’un fiato la birra e si posò la bottiglia fredda sullo zigomo gonfio e livido. “Perdi colpi, ragazza” si disse. Rimase seduta in terra per oltre dieci minuti, troppo stanca per alzarsi.
Il trillo del telefono squarciò il silenzio della casa. Emise tre squilli prima che subentrasse la segreteria telefonica.
“Elizabeth Stone. Lasciate un messaggio.”  D’accordo, anche il suo messaggio faceva pena. E allora?
“Liz, sono Connie. E’ tutto il giorno che ti cerco in ufficio, ma non risponde nessuno. Ho fatto un controllo su Bill Chandler, chiamami appena puoi. Oh, e ricordati di telefonare alla mamma. Lizzy, ci sei?” Bip.
Liz Stone si alzò sospirando e raggiunse il telefono per controllare la segreteria. Sei messaggi: sua madre –“Non ti vediamo mai !”– ; un tizio che cercava Robbie – sbagliato
numero –; qualcuno che dopo un lungo silenzio aveva riattaccato; ancora sua madre –“Lizzy May? Sei in casa?”– ; un altro messaggio vuoto ed infine Connie.
Alle telefonate a vuoto era abituata, perché le capitava di riceverne da quando si era lasciata il dipartimento alle spalle, qualche anno prima. Le chiamate di sua madre la inquietavano molto di più, perché erano sentore di un pranzo in famiglia.
Pranzo in famiglia voleva dire gonna al ginocchio e cardigan al posto dei jeans. Voleva dire niente pistola ed un biglietto aereo per Atlanta, Georgia. Voleva anche dire passare il weekend nella casa dove era cresciuta e tornare a Los Angeles più nervosa di quando era partita.
Perché un pranzo di famiglia voleva presente l’intera cerchia familiare, che nel loro caso era piuttosto numerosa. Liz Stone aveva tre sorelle, cinque fratelli, sette tra cognati e cognate ed almeno una dozzina di nipotini. Anzi, una dozzina più uno: a Mike era nato un altro maschietto.
“Miao?” disse il gatto che l’aveva seguita dalla cucina. Liz Stone si chinò per grattargli la testa.
“No amico, non era lui. Grazie a Dio.”
In bagno si spogliò rapidamente gettando i vestiti nel lavandino, e si dette da fare per lavare via le macchie di sangue dalla maglia e dai jeans. Quando ebbe raggiunto un risultato mediamente soddisfacente, accese la luce sopra la specchiera per constatare i danni
A parte lo zigomo, che aspirava a diventare la più grande prugna della California al mondo, non vide molto di interessante.
Qualche graffio ed un paio di lividi completavano la sua discreta collezione di cicatrici: due fori di entrata calibro nove rispettivamente sulla coscia e sotto il seno destro, il taglio netto di un coltello sull’avambraccio ed il segno frastagliato di un morso nell’incavo del collo.
Liz Stone sollevò una mano per accarezzarsi la spalla in corrispondenza di quell’ultima cicatrice. Erano ormai passati tre anni da quando l’aveva visto l’ultima volta. Tre anni dall’ultima volta che erano stati insieme.
Tre anni da quando aveva cercato di ucciderla.
“Non ti ha mai amata, stupida. Non lo capisci?” Disse severamente al suo riflesso. Una Liz Stone perfettamente speculare la fissò torva attraverso lo specchio. “E non guardarmi così. Sai che ho ragione.”
Gli occhi color muschio del suo doppio lampeggiarono per la frustrazione.  Spense la lampada ed entrò nella doccia.
Non poteva credere che proprio lei, Liz Stone, la detective tutta d’un pezzo, potesse perdere la testa per un uomo. Eppure, dannazione, lui sembrava davvero valerne la pena!
Si ricordava ancora perfettamente della sera in cui le era suonato nella mente il primo campanello di allarme.
Era cominciato tutto con un morso leggero, sul braccio, durante un rapporto particolarmente appassionato.
Dopo averla morsa, lui era sembrato terribilmente preoccupato.
“Ti ho fatto male, Liz?” le aveva chiesto.
Allora Liz Stone gli aveva preso la mano, posandosela sotto il seno destro perché sentisse il piccolo cratere procurato da una vecchia pallottola.
“Senti questo?” aveva detto. “Ecco, questo ha fatto male.” Ed era scoppiata a ridere, mentre lui le baciava delicatamente la ferita . Poi si era sollevato sui gomiti e le aveva sussurrato una lunga frase in una lingua sconosciuta. A lui piacevano le lingue morte.
Quando aveva chiesto spiegazioni, aveva dovuto accontentarsi  di un ghigno.
“Te lo spiegherò più avanti.” Le aveva sussurrato. “Quando sarò sicuro.”
“Sicuro di cosa?” Aveva chiesto Liz, ma lui non le aveva risposto.
Liz Stone spostò il viso dal getto della doccia. Acqua calda e zigomo ammaccato non andavano d’accordo.
Si spremette con decisione il flacone di shampoo sul palmo della mano, e quello emise un convinto pfffft!
Fantastico. Doveva ricordarsi di prenderne altro al prossimo giro al supermercato.
La sera in cui lui l’aveva morsa era stata anche quella in cui gli aveva confidato la sua intenzione di abbandonare una brillante carriera da detective al Dipartimento Rapine e Omicidi per conseguire la licenza da investigatrice privata.
“Mia sorella maggiore, Mary Constance, è Vice Capo. Non voglio ripercorrere la sua strada.” Aveva detto, fissando il soffitto. “Darò le dimissioni appena torno. Non manca molto. Il caso è risolto, mi rimanderanno indietro con il prossimo volo.”
A questa notizia lui era diventato improvvisamente cupo e taciturno.
“Quindi, torni a casa.” Era stato il suo unico commento.
Ma Liz Stone era decisa. Non riusciva ad immaginarsi a vivere a New York.
Lei aveva bisogno dei venditori di churros agli angoli delle strade, dei palazzi illuminati a giorno anche in piena notte, dei ragazzini sul Sunset Boulevard che occhieggiavano le bellezze in bikini, delle tavole calde piene di poliziotti in pausa e dei vip dimenticati che vivevano sulle colline. Inoltre, le mancavano terribilmente il suo gatto, la sua Chevy del ’63 azzurro cielo e la sua amatissima Colt Phyton.
Quando si erano separati, le aveva promesso di chiamarla appena possibile. Ma appena Liz Stone era tornata nella calda L.A., aveva ricevuto solo un messaggio, secondo il quale sarebbe stato irreperibile per qualche tempo.
Impegnato in una missione, diceva.
Informazioni riservate. Certo, come no?
Poi un giorno era rientrata a casa, e lui…
No! Non poteva, non voleva pensarci.
Liz Stone uscì dalla doccia, si avvolse un asciugamano sui capelli e si asciugò velocemente. Era in camera da letto ed aveva appena finito di rivestirsi quando il telefono squillò di nuovo.
Era appena passata la mezzanotte.
Raggiunse a gran passi l’apparecchio, decisa a dire il fatto suo a chiunque osasse chiamarla a quell’ora.
“Elizabeth Stone. Lasciate un messaggio.” Bip.
Silenzio. Era di nuovo lo sconosciuto che non parlava. Dall’altro capo dell’apparecchio giunse un breve sospiro affranto. Liz Stone sollevò la cornetta come una furia.
“Stammi bene a sentire, pezzo di merda.” Esordì con rabbia. “Chiunque tu sia, ti conviene piantarla con queste stronzate, o comincerò a darti la caccia, e appena ti avrò trovato te ne farò pentire, chiaro?”
Detto questo sbatté con violenza la cornetta sul suo supporto e si voltò, furente.
“Miao!”
“No, non una parola.” Esclamò Liz Stone, agitando il dito in direzione del gatto. “Sono stanca e dico tutte le parolacce che voglio.”
Il gatto inclinò la testa con disapprovazione.
“Ehi, tesoro.” Liz Stone sorrise e lo prese in braccio, accarezzando il suo pelo morbido. Il gatto le spinse il musetto sotto il mento e cominciò a ronfare soddisfatto. “E’ ora di andare a nanna, dolcezza. Lizzy è stanca. Ed è anche un po’ triste.”




  
“…e appena ti avrò trovato te ne farò pentire, chiaro?”
“Liz…”
Tropo tardi, aveva riattaccato.
Sospirando, fissò la cornetta nera del telefono pubblico come se potesse contenere la risposta che stava cercando. Non trovandola, la riappese alla forcella, spinse la porta sudicia della cabina telefonica e si allontanò nella notte.
Come si era permessa Liz, la sua Liz, di parlargli in quel modo?
A lui, che era sempre stato il vanto dei suoi genitori. A lui, così intelligente, così colto. A lui, sempre il primo del suo corso, ai tempi di West Point.
A lui, capace di mantenere il sangue freddo sotto il fuoco nemico.
A lui, che aveva resistito nella cella di isolamento per tre anni interi, senza mai vedere la luce.
Ma no, non poteva arrabbiarsi con lei. Non con la sua bella, coraggiosa Liz.
                            “Coccinella, coccinella, vola via.
                    La tua casa è in fiamme, ed i tuoi bimbi perduti…”

La sua voce aveva un tono pulito e chiaro, da uomo istruito, in netto contrasto con i vestiti cenciosi che indossava, rubati da uno scatolone dell’Esercito della Salvezza.
Con passo agile ed elastico attraversò il cadente quartiere del Bronx in cui si era fermato. Non telefonava mai dalla stessa cabina.
Liz Stone era furba. Poteva aver fatto mettere sotto controllo il telefono di casa, ed anche quello dell’ufficio.
Con un grugnito affondò il viso nella sciarpa pulciosa che portava attorno al collo. Avrebbe dovuto dimenticarla.
Colin Mallory glielo aveva raccomandato, giusto la settimana prima. Gli aveva fatto capire, in maniera chiara e diretta, che se si fosse avvicinato ancora una volta a Mary Elizabeth Stone, nemmeno lui avrebbe potuto tenerlo fuori dal carcere.
Brav’uomo, quel Mallory. Tra tutti gli avvocati che si erano susseguiti nel corso degli anni, era il meno figlio di puttana.
Il caro Colin aveva un bello studio nell’Upper East Side, tutto mogano lucido e acciaio, con piccole, scomode sedie di design.
Buffo come lui, invece, preferisse il suo piccolo appartamento ad Harlem, in una catapecchia che si affacciava direttamente sulla Trentatreesima.
Ma Colin Mallory non poteva capire.
Lui non poteva dimenticare la sua Liz.
Liz dai grandi occhi spaventati, che si premeva una mano sul collo lacerato.
Liz, che correva su un pavimento viscido di sangue, mentre lui la inseguiva.
Liz, che non era mai andata a trovarlo in carcere.
Strinse i pugni con rabbia, finché non sentì le unghie attraverso gli spessi guanti di cuoio.
Lo avevano creduto pazzo.
Disturbo post-traumatico da stress, aveva detto il medico militare.
I Media gli avevano dato persino un nome. Il Divoratore di Brooklyn.
Ma loro non capivano.
Nessuno poteva capire.
Lui amava la sua Liz.
L’avrebbe amata sempre.
Fino alla morte.
 
 
 
 

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Bene, direi che la mia prima storia originale sia uscita piuttosto decentemente, che ne dite?
L’idea mi è venuta leggendo una filastrocca inglese, “Ladybug, ladybug”, che nella versione inglese mi è sembrata davvero inquietante.
Fatemi sapere cosa ne pensate; il personaggio di Liz Stone mi piace, e vorrei ricavarne una breve storia a capitoli.
Grazie per l’attenzione :)
Afep

 

EDIT: la storia è cancellata. Tutte le recensioni dei successivi capitoli (Papercut, details, Memories, Practice, Just a man in love) sono state raggruppate su quello attuale.
  
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