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Autore: Medea00    15/03/2013    23 recensioni
Era mai possibile svegliarsi di colpo tre anni nel futuro, con la sola eccezione di trovarsi nel presente?
Tratto dal capitolo 4:
Tre anni. Tre anni... equivalevano a millenovantacinque giorni.
Millenovantacinque giorni completamente cancellati dalla memoria. Vista da quella prospettiva, però, sembrava meno spaventoso: non erano dieci milioni, e nemmeno cento mila. Erano soltanto millenovantacinque. Un migliaio di giorni persi. Contando quanto il tempo passasse in fretta, e quanto i giorni si susseguissero senza nessun avvenimento rilevante, alla fine quanto potevo essermi perso? Duecento, trecento avvenimenti importanti?
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lime, Otherverse | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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    Il tempo va diversamente a seconda della persona. Io potrei dirvi con chi va al passo, con ci va al trotto, con chi va al galoppo, e con chi sta fermo.
W. Shakespeare





Pensate a quante volte al giorno fate appello alla vostra memoria.
Pensate a tutte le cose che vi sembrano una vera e propria routine: il caffè al mattino, il percorso da casa al lavoro o all’università, il tipo di profumo che comprate quando è terminato. I vostri vestiti preferiti, quelli che sapete che non indosserete mai e quelli che avete comprato solo per sfizio, che usate per le grandi occasioni.
E poi, ancora, pensate al vostro pin del bancomat. Alla vostra password di facebook, o al numero di telefono di vostro padre, l’indirizzo del vostro veterinario.
E adesso cancellate tutto.
Immaginate di non sapere più niente; di non riconoscere il ragazzo che vedete allo specchio. Di non sapere che tipo di caffè preferite. Sappiate che è quello che è successo a me.
Io mi chiamo Kurt Hummel. O almeno, così credevo: avevo dimenticato del tutto gli ultimi tre anni della mia vita.
 
 
“Come sarebbe a dire 2015?”
Duemilaquindici? Non era possibile. Che numero era? Mai sentito. Esisteva veramente?
“Non è divertente. Dove sono le telecamere?”
Ma nonostante tutti i miei sforzi di trovare quel maledetto scherzo minimamente buffo o falso, più quelle due persone mi fissavano malinconiche, quasi pateticamente, e più il mio cuore cominciava a mandare chiari segnali al mio cervello, da interpretare in una sola, unica, inevitabile maniera. Io avevo avuto un incidente, qualche ora prima; tale incidente, a quanto pareva, non era affatto quello che ricordavo io: il dottore aveva parlato di una festa a casa mia, con tanto di genitori e amici assortiti, e di queste fantomatiche scale a chiocciola che ero sicuro di non aver mai avuto in vita mia. E poi quelle domande sempre più strane, la borsa, papà e Carole presenti al mio risveglio, una cosa quasi impossibile contando che solo per prendere un aereo ci volevano dalle cinque alle sei ore. E poi l’infermiera che mi guardava come se fossi un semidio, e poi ancora...
Duemilaquindici.
Avevo avuto un incidente: avevo sbattuto la testa e mi ero scordato tutto, fino al momento dell’altro incidente, quello del taxi. Quello di tre anni prima.
Come istinto quasi naturale, frugai dentro quella borsa che continuavano a ritenere di mia proprietà alla ricerca di un calendario tascabile, o un’agenda.
“Che cos’è questo?” Sbottai indicando all’infermiera e al dottore, che inclinarono la testa da un lato, una sottospecie di spada laser.
“E’... è il suo cellulare”, rispose la signorina, “E’... l’ultimo modello. L’Iphone 10.”
Dieci?
Dio mio.
Prima che potessi scaraventarlo a terra il mio sguardò captò un altro oggetto, stavolta, piuttosto familiare: era una moleskine. Aveva la copertina rigida, i tratti leggermente consumati dall’usura e dei foglietti scritti a mano che penzolavano dai lati, fuoriuscendo dall’elastico. Sembrava così... piena.
Non poteva essere la mia, non facevo mai niente, io.
Ma poi, appena aprii la prima pagina, quasi senza nemmeno farci caso, lessi a chiare lettere la tipica introduzione che recitava esattamente queste parole:
In caso di smarrimento, prego restituire a:
Kurt Hummel
129 Greenwich Village


Di nuovo quell’indirizzo.
“Signor Hummel.” La voce profonda e pacata del dottore, paradossalmente mi fece trasalire tanto da sobbalzare sul lettino, con il braccio sinistro che lanciò una fitta lancinante e l’altra mano ancora intenta a stringere quell’agenda sconosciuta.
“Deve mantenere la calma. Andrà tutto bene.”
“... Ah sì?” Chissà come mai, in quel momento, non ci credevo per niente.
“La perdita temporanea della memoria è chiaramente un effetto collaterale della caduta”, spiegò l’uomo scandendo bene tutte le parole, come se volesse darmi il tempo di metabolizzarle prima di svenire, o piangere, o avere una qualsiasi altra reazione da psicopatico. Invece restai molto calmo. Respirai a pieni polmoni, mentre un mal di testa sempre più acuto si accompagnava velocemente al dolore provocato dal braccio, fasciato da una sottospecie di cera blu. Dall’aspetto sembrava avere una consistenza rigida e resistente ma, allo stesso tempo leggera, piuttosto comoda.
“Che cos’è questo?”
“E’ il suo gesso”, intervenne dolcemente l’infermiera. “Le abbiamo fatto l’operazione per sistemare il braccio. Aveva numerose fratture. E’ andato tutto perfettamente, ma dovrà tenerlo per un paio di settimane.”
Non aveva per niente l’aria di un gesso; sembrava più che altro che qualche bambino si fosse divertito a fasciarmi con del pongo. Ma poi il dottore e l’infermiera si scambiarono un’altra occhiata preoccupata e allora capii: doveva essere una nuova tecnologia. Un nuovo modo per effettuare le medicazioni per fratture, perché ah giusto, eravamo nel futuro, e nel futuro la medicina aveva fatto progressi.
Eravamo nel duemilaquindici.
L’infermiera mi prese delicatamente le mani, stringendole forte, come se volesse dirmi qualcosa, chi, come, perchè. L’agenda che tenevo tra le dita scivolò sulle lenzuola e nella caduta si aprì maldestramente su una pagina a caso. Era piena di numeri di telefono, frasi evidenziate e scarabocchi; a parte quello lessi la data riportata in alto: 5 Marzo 2015.
Stavo per vomitare.
“Signor Hummel, la sua famiglia sta arrivando, non si faccia prendere dal panico” intervenne l’infermiera: “Andrà tutto bene.”
Come poteva andar bene? Come potevo credere a tutto quello che mi stava succedendo? Io non ricordavo. Era quello il problema: per me ero ancora il Kurt Hummel al primo anno di NYADA stracotto di Finn Hudson e che aveva passato una brutta serata con gli amici.
Tutto il resto, tutto quell’insieme di oggetti sconosciuti, rappresentava una vita che non mi apparteneva.
Era mai possibile svegliarsi di colpo tre anni nel futuro, con la sola eccezione di trovarsi nel presente?
 
“Kurt.”
Mi resi conto soltanto diverse ore dopo della presenza di mio padre, così come di quella di Carole intenta a sistemare dolcemente un lembo delle lenzuola. Quando erano arrivati? Ero stato talmente immerso nei miei pensieri da perdere la cognizione del tempo.
... Va bene, quella era stata una pessima scelta di parole.
Non dovevo comportarmi in quel modo: stare a fissare il vuoto piangendo o urlando non serviva a nulla, dovevo reagire. Bene, avevo perso la memoria, ma dopotutto erano passati solo tre anni dal mio ultimo ricordo. E poi tra qualche giorno sarebbe tornata, e tutto sarebbe tornato alla normalità, no? Sì, dovevo reagire.
“Kurt, il dottore ci ha spiegato tutto. Come stai?”
“Come se avessi fatto un viaggio nel tempo.”
“Oh, Kurt...” Mormorò Carole sull’orlo del pianto, abbracciandomi e tenendomi stretto a lei. Tutte quelle attenzioni e quelle moine rendevano il tutto ancora più triste di quanto fosse: insomma, non ero in fin di vita! Forse.
“Oh Kurt, che disastro, ma davvero non ti ricordi assolutamente nulla degli ultimi tre anni?”
Carole e Burt mi fissarono in apprensione per qualche secondo, come sperando che improvvisamente la memoria tornasse al suo posto e io tornassi a essere il ragazzo che conoscevano. Con loro grande dispiacere, l’unica risposta che mi sentii in grado di dare fu chiedere loro, esattamente, cosa dovessi ricordare.
“Non ti ricordi niente”, dedusse allora mio padre, sempre più incredulo. “Niente di niente?”
Oh Dio. Quante cose mi ero perso in quegli ultimi tre anni?
“Non ti ricordi nemmeno del Natale dell’anno scorso? Quello con gli zii!”
“O dello spettacolo dei Jersey Boys”, intervenne Carole, “Non ti ricordi del tuo debutto a Broadway?”
Mi paralizzai tutto d’un tratto.
“Che hai detto scusa?”
“Non è il caso di farci prendere dal panico”, suggerì con una professionalità e una calma che, sicuramente, non erano proprie nè a me nè a mio padre. Infatti, mentre lei iniziava una lunga lista di motivi per cui mi sarebbe molto probabilmente tornata la memoria, io e lui ci stavamo fissando quasi in apnea, leggendoci nel pensiero come avevamo sempre fatto; ci stavamo chiedendo come fosse successo, quanto grave fosse la situazione. Mi fissava con i suoi grandi occhi chiari e mi stava dicendo: “Kurt, ragazzo. Cosa possiamo fare?”
Giusto. Cosa fare? Dal momento che avevo perso la memoria, la cosa migliore sarebbe stata ricevere un aggiornamento lampo sul mio recente stile di vita. Insomma, non poteva essere cambiato così tanto in soli tre anni, no?
“Sei diventato più maturo”, constatò Carole. E quello potevo accettarlo: erano passati tre anni, ero maggiorenne, sicuramente ero maturato, potevo capirlo.
“E sei una delle più grandi promesse di Broadway.”
Ecco, quello invece proprio no.
 “... Non state scherzando, vero?”
Il sorriso che illuminò lo sguardo e il volto di mio padre bastò a farmi tacere. Non stava scherzando. Io a Broadway!
“Ma che fine ha fatto il Kurt Hummel ignorato da tutti che riceve una battuta a spettacolo, se fortunato? Ci ho messo giorni per imparare la difficilissima frase: questo è a dir poco inconsueto, ah ah ah.”
E dicevo sul serio: non era affatto semplice riuscire a ridere senza risultare falsi o esagerati.
“Com’è successo? Voglio dire, quando...?”
“Hai iniziato sostituendo un attore che interpretava uno dei ragazzi nel musical Jersey Boys.” Vidi mio padre nascondere a stento gli occhi lucidi, ripensando a quei momenti. Provai anche io, spremetti le meningi cercando di ricordare qualcosa, ma in cambio ricevetti soltanto un leggero mal di testa.
“Sei stato bravissimo.” Commentò Carole, “E’ successo un anno fa, poco dopo il diploma alla Nyada.”
“Diploma? I-io sono diplomato?”
“E con lode. La preside in persona ha presenziato il tuo saggio finale.”
Più parlavano del mio debutto, delle foto che mi avrebbero fatto vedere una volta tornati a casa, della cerimonia del diploma, più mi sentivo incredibilmente euforico e senza parole. Non capitava tutti i giorni di svegliarsi e scoprire che tutti i propri sogni si erano avverati: sorretto da una piacevole sensazione di completezza e felicità, pensai che se il futuro era così, potevo decisamente abituarmici.
“In pratica...” Fui costretto a prendere dei lunghi, profondi respiri, prima di continuare: “Mi state dicendo che ho ventitré anni, che sono diplomato a pieni voti e che sono un attore di Broadway?”
“Non solo”, ghignò compiaciuto mio padre, “Hai anche aperto una linea di vestiti tutta tua grazie all’aiuto della direttrice di Vogue.”
Oh beh, certamente. Chi non è amico della direttrice di Vogue? Stavo per avere un infarto.
“Kurt, rilassati, è tutto vero.” Papà era quasi divertito dalle mie reazioni esagerate, mentre Carole restava più all’erta monitorando ogni mia singola espressione; come potevo, d’altronde, fingermi calmo e composto di fronte a rivelazioni di quella portata? Come facevo a crederci? Dio solo sapeva cosa mi stava tentando dal pizzicarmi un braccio, solo per verificare che fossi sveglio.
“Immagino che sia una grande botta per te, detto così a freddo. Ma è tutto vero”, Ripetè mio padre, “E te lo sei guadagnato da solo. In questi tre anni ti sei dato da fare come un pazzo.”
“Anche troppo”, la voce di Carole assunse un tono vagamente materno, “Non facevamo altro che ripeterti che lavori troppo. Quando non sei alle prove sei da Vogue, e viceversa. Stavi quasi per darci buca nel giorno del tuo compleanno, se non fosse stato per Finn che si è preso la licenza solo per trascinarti a casa con la forza!”
Oh, giusto: Finn.
“E... Finn dov’è ora?” Mi sentii un vero idiota ad arrossire senza ritegno di fronte all’idea del mio quasi-fratello-etero-per-cui-avevo-una-cotta-pazzesca, ma fu ancora peggio quando mi accorsi di essere stato scoperto da Carole e papà. In realtà, invece di un tesissimo momento serio e imbarazzante, assistetti a una serie di risate che sembravano non finire.
“Oh Kurt, sei sempre uno spasso quando lo fai.”
“... Fare cosa?”
Possibile che, oltre alla memoria, avessi perso anche qualche parte di intelletto?
“Ma sì dai, quando reciti la parte del fratellastro innamorato di Finn.”
Ma veramente non era una parte.
“Quindi.. Finn è nell’esercito?”
“Da più di due anni ormai. Ci è andato poco dopo che tu ti sei iscritto alla Nyada.”
Quindi, tecnicamente parlando, ci sarebbe andato tra qualche mese; ma no, non potevo ragionare al passato, era il 2015 ormai. Quelle erano cose successe tempo addietro. Io ero cresciuto, cambiato, lo potevo capire benissimo anche da solo. Avrei voluto tanto sapere quando mi fosse passata la cotta per Finn. Com’era successo; le parole che ci eravamo detti. Oppure, forse, non avevamo detto proprio niente: quel sentimento era scemato lentamente, lasciando spazio a un sincero legame fraterno. Riuscivo benissimo a immaginarmi una situazione del genere, ma sembrava tutto ancora molto lontano dalla mia portata Chissà se avevo avuto qualche ragazzo, durante quei tre anni; certamente non era una cosa che potevo chiedere a mio padre. Quindi, semplicemente, cercai di cambiare argomento. E sbagliai.
“Per caso ho subito qualche intervento di chirurgia plastica?”
“Perchè lo chiedi?” Domandò Carole, confusa almeno quanto suo marito.
“Ma mi avete visto? Questo corpo non può essere mio. Mi sembra di essere finito in Quel pazzo Venerdì.”
Avessi avuto una telecamera, avrei potuto riprendere esattamente il momento in cui le loro facce serie si trasformarono in qualcosa di semplicemente esilarante. Stavano letteralmente piangendo dal ridere. E a quel punto pensai non solo a quanto fossi idiota, ma anche a quanto loro fossero insensibili.
“Scusate se non ricordo niente dei miei ultimi tre anni.” Sbottai, gelido, incrociando il braccio libero sull’altro. “Non è così semplice capire una vita che non è mia.”
Quanto meno, quella sfuriata ottenne l’effetto desiderato; mi chiesero scusa, certo, ma c’era ancora una parte di loro che nascondeva un sorriso divertito. Ma si poteva sapere cosa avessero da ridere tanto?
 “Se ti sentisse tuo marito in questo momento, probabilmente morirebbe sul colp-”
Ed eccolo. Il momento in cui sentii nettamente la mia anima lasciare il suo piccolo e inutile involucro mortale. Perchè, perchè no. E papà aveva provato a fermarsi in tempo, ma ormai la frase era bella che uscita fuori. E io, povero, piccolo ragazzo ingenuo che si era ritrovato con un mondo sconosciuto e spaventoso davanti, non potei fare altro che fissare mio padre ancora e ancora, come sperando che ridesse, che mi desse una pacca sulla schiena, che mi raccontasse per l’ennesima volta quanto fossi credulone a quegli scherzi.
Carole aveva trattenuto il fiato per più di un minuto ormai, continuando a guardare suo marito con uno sguardo pietrificato, le sue mani abbellite da un sottile strato di smalto rosa adesso stringevano la ringhiera del letto come se rischiasse di cadere.
Il tempo passò. E ancora nessuno diceva nulla. Provai a dire qualcosa io: iniziai piano, esitante, con un tono a metà tra il leggiadro e lo spettrale; chiesi a mio padre se potesse gentilmente ripetere quanto detto prima. Chiesi se potesse parlare piano; avevo bisogno di molta concentrazione, non poteva sfuggirmi nessuna parola.
“Kurt, mi dispiace, non l’ho fatto apposta, non ho pensato che-“
“Che non ricordo assolutamente niente?” Lo interruppi, “Che ai miei occhi sono ancora un ragazzo di venti anni al primo anno di accademia, che giusto ieri festeggiava il peggior compleanno della sua vita e decideva i nomi da dare ai suoi futuri gatti per vivere una perfetta vita in solitudine?”
“Kurt, stammi a sentire.”
“Uno si chiamerà Platone. Un altro Cheope. Un altro Gatto, così non mi sbaglio.”
“Devi calmarti.”
“Sono calmo. Sono calmissimo.”
A giudicare da come lui e Carole si scambiarono un’occhiata tesa, dedussi di non averli convinti del tutto.
“Kurt.” Mio padre mi guardò dritto negli occhi. “Non so bene come dirtelo, quindi te lo dirò velocemente così hai tutto il tempo per... beh, incassare il colpo.”
Magari avrebbe dovuto pensarci prima di gettare la bomba. Adesso era più un raccogliere i pezzi dopo l’esplosione.
“Va bene.”
Forse era così che si sentivano quegli equilibristi, giusto un attimo prima di saltare: ero conscio del fatto di camminare in bilico su un filo di nylon, sottile e invisibile. Un solo passo falso, e sarei piombato nel vuoto. Ma la mia mente era già un baratro oscuro dal quale volevo fuggire, cercando di aggrapparmi a quelle piccole consapevolezze che, lo sapevo, non sarebbero potute cambiare in soli tre miseri anni. Come il fatto di essere single; o di non essere particolarmente carismatico; o di avere la sensualità di un pinguino. Tutte cose che mi avrebbero garantito la castità fino ai trentacinque, trentasei anni.
 “Sei sposato da un anno e tre mesi.” Papà parlò come se dovesse porgermi delle scuse. E poi, un attimo dopo, aggiunse: “Kurt, non serve a niente nasconderti sotto al cuscino, Kurt!”
Niente da fare. Restai sotto a quel cuscino per le seguenti due ore e durante quel tempo non parlai più.
 
 
Non potevo essere sposato. Non io.
Ci doveva essere stato qualche errore a livello biologico, tipo uno scambio di persona. Era successo a Lindsay Lohan, perchè non a me? E lei era molto più fuori di testa. Magari la botta in testa aveva azionato un meccanismo spazio-temporale che mi aveva trasferito nel corpo di un seducente modello di ventitrè anni, ricco e con una carriera di broadway alle porte.
Ero quasi riuscito a convinvermi di quella teoria; così tanto, da scendere giù dal letto quando nessuno era nei paraggi, e dirigermi il più velocemente possibile nel piccolo bagno della camera. Papà e Carole erano andati a prendersi un caffè dopo avermi parlato ininterrottamente per due ore, stremati dal mio piccolo sciopero con il mondo; mi avevano riempito la testa di nozioni, nomi, cose che non riuscivo minimamente a ricollegare.
Chiusi la porta del bagno a chiave; volevo stare un po’ da solo, lontano da infermiere, medici e parenti che lasciavano notizie come se fossero granate a grappolo. Mi concessi diversi secondi di quiete, fatti solo di respiri e pensieri profondi, per poi fare un passo in avanti ed entrare nel campo visivo dello specchio.
Davanti a me si presentò un ragazzo; aveva delle somiglianze, con il Kurt che credevo di essere, ma altre cose, molte cose, sembravano diverse e molto sconvolgenti.
I capelli erano più corti alla base, il mio immancabile ciuffo era tirato all’insù con un sottile filo di meche bionda che sfuggeva dall’acconciatura. Il volto, poi, era più longilineo e, allo stesso tempo, marcato. Intorno alle labbra si intravedeva uno strato di barba incolta, cosa del tutto inaudita; passando al resto del corpo, le spalle erano più toniche, il fisico molto più snello, sembravo dimagrito di venti chili. I fianchi, che nella mia memoria erano sempre stati tondeggianti e piuttosto sporgenti, adesso erano perfettamente proporzionati a delle gambe lunghe e allenate.
Ma nonostante quei grossi, enormi cambiamenti, qualcosa era rimasto: i miei occhi cangianti, che adesso erano color azzurro chiaro, leggermente arrossati; le mie labbra rosee, incurvate in una smorfia di stupore e incredulità. Per un attimo, mi illusi che anche la mia voce fosse cambiata, magari, abbassandosi e raggiungendo tonalità più comuni, ma sapevo bene che fosse impossibile.
Quindi, dovevo affrontare la realtà e trarre le apposite considerazioni: io mi chiamavo Kurt Hummel. Avevo perso la memoria; non ricordavo niente dei miei ultimi tre anni di vita. Ero, apparentemente, un attore di Broadway. Uno stilista. E a quanto pareva ero anche sposato con un ragazzo.
Non è che mi avevano infilato qualche roba strana nel bicchiere, la sera prima?
Oppure un giorno avevo incontrato la fata turchina e mi aveva regalato qualche strano incantesimo. E dal momento che sembrava tutto davvero troppo bello per essere vero, dedussi che almeno un elemento della mia vita dovesse andare storto: era chiaro, si trattava del mio matrimonio. Come potevo essere sposato? E con chi? Un primo pensiero andò a Finn, ma lo scacciai subito e anche con un certo imbarazzo. Non ero più cotto di Finn. Anche se continuavo a provare una sorta di ansia ogni volta che pensavo a lui, adesso era più per l’idea di “Oh mio Dio ero cotto del mio fratellastro e forse un poco lo sono ancora ma ehi, sono sposato.”
Assurdo. Ero sposato.
Cercai di immaginarmi qualcuno: immaginai le caratteristiche che cercherei in un mio eventuale marito, ma in realtà non avevo la più pallida idea di cosa, anzi, chi dovessi aspettarmi. E se fosse basso? E se fosse brutto? Oh, era sicuramente brutto. Non ero mai stato il tipo da alfa gay, io, quindi quanto meno avevo attirato un ragazzino smilzo e impacciato con cui condividevo la stessa passione per i runner da tavola fatti all’uncinetto. Magari mi ero sposato sotto ricatto: magari facevo parte di un’associazione segreta che mi aveva minacciato: o ti sposi o vai in Canada. Non sapevo nemmeno perchè il Canada, mi aveva sempre dato l’idea di un posto freddo e pericoloso.
La voce di Carole interruppe il mio piccolo monologo interiore; bussò delicatamente alla porta, chiedendomi se andasse tutto bene e se avessi bisogno di qualcosa. Era il suo modo gentile per dirmi di smetterla di fare il bambino e uscire da quel maledetto bagno.
Con un po’ di coraggio e pazienza, feci quanto richiesto. Adesso che ero venuto a patti con il mio aspetto esteriore, dovevo soltanto cercare di assimilare quello interiore; quanto potevo essere cambiato, durante tutto quel tempo? Ma andava tutto bene: dovevo solo fare le cose con calma. Con calma, e senza mosse azzardate che mi avrebbero mandato nel panico.
“Kurt, non voglio allarmarti, ma lui... tuo marito, è qui.”
“Cosa?”
No. Mei-dei. Mei-dei. Autocombustione in corso!
“Non sono riuscita a fermarlo, ho cercato di spiegargli la situazione, ma lui è...”
“In che senso è qui?”
Attivazione dei processi di distruzione di massa. A partire dal mio cuore.
“Kurt.” Mio padre aprì la porta con fare affrettato: “Kurt, ecco, dunque...”
“Kurt!”
La persona che entrò nella stanza, anticipando l’entrata di mio padre, mi lasciò completamente e inavvertitamente senza fiato. Anche lui, comunque, sembrò assumere un’espressione piuttosto simile; esitò, come se fosse più sotto shock di me, e in quel breve lasso di tempo ebbi modo di osservarlo in modo marginale, rimandendo sempre più perplesso e allibito. Dai suoi occhi trapelava un bagliore di gioventù che adesso sembrava illuminarlo del tutto, attraverso un radioso sorriso.
Mi raggiunse con pochi passi avvolgendomi in un abbraccio che, differentemente dal comportamento di prima, non aveva nessuna esitazione.
“Kurt, oh Dio, stai bene.”
Aveva una voce bassa, calda, decisamente particolare.
“Sono dovuto scappare a teatro per un’emergenza dell’ultimo minuto, appena mi ha chiamato tuo padre sono corso il prima possibile... oh Kurt, ero così spaventato.”
Senza nemmeno darmi il tempo di replicare, allentò quell’abbraccio, ma solo per chinarsi verso di me e darmi un dolce e languido bacio.
Bacio al quale non ero affatto preparato.
Le sue labbra premettero contro le mie con una sicurezza disarmante, come se lo facessero da una vita; come se conoscessero la mia bocca come se l’avessero baciata da anni e anni e sì, forse era così, forse lui era davvero mio marito e stavamo insieme da un anno-e-non-ricordavo-quanti-mesi, ma per me era tutto nuovo. Per me quello era stato il mio primo bacio.
“... Kurt? Tutto bene?”
Ed era stato molto strano.
“Io... ti ringrazio per... per l’affetto”, balbettai, conscio di stare implodendo dall’imbarazzo, “Ma io... io non so chi sei.”
“Come sarebbe a dire? Kurt, guarda che se è uno scherzo non fa ridere. Lo sai che hai un senso dell’umorismo molto strano.”
Ma non era vero!
Mio padre intervenne repentino, appoggiando una mano sulla spalla del suo... genero? Oh Dio, quello era il suo genero.
“Adam, dice la verità.”
Adam.
“Posso parlarti un secondo? Dovresti vedere il dottor Henricsen.”
E così il suo nome era Adam. Un ragazzo biondo, all’apparenza più grande di me, con l’accento inglese: molto logicamente, vista la mia fissa per la regina e per Dowton Abbey, mi ero sposato un inglese.
Molto logicamente riuscii a raggiungere il lettino, prima di subire un mancamento.
 








Angolo di Fra


Ops. Kadam.
Ma tranquilli, la ff è principalmente Klaine-centrica.
... Non vi ho tranquillizzati?

Vi ricordo che mi volete bene.
PS: un granze GRAZIE a Carly per l'immagine e a Rachele per essere stata una beta impeccabile :) e un immenso grazie a voi!

   
 
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