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Autore: sleepingwithghosts    17/03/2013    1 recensioni
"Cominciavano sempre così i suoi momenti di crisi: lei che cercava invano di mantenersi intera, lei che cominciava a dondolare, lei che aspettava il mal di testa, i pensieri cattivi affollarsi, lei che sentiva il freddo diffondersi, che cominciava a grattarsi la testa nervosamente, avanti e indietro, il respiro cominciava ad affannarsi, la saliva a scarseggiare, il dolore al braccio sinistro si infittiva, cominciava a bruciare tutto, le orecchie fischiavano come se tutte le persone parlassero di lei nello stesso momento. Poi c’era il buio. E la voglia di morire. E poi c’era il buio e la voglia di morire, insieme. C’era la voglia di morire."
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piccole cose (che sapevano ignorare)

Capitolo uno.

 

 

"Non gli veniva nessuna risposta, tranne quella generica che la vita dà a tutte le questioni più complicate e insolubili: vivere giorno per giorno, cioè dimenticare."

 – Anna Karenina, Leo Tolstoj

 

 

Guardava la neve scendere copiosa fuori dalla finestra e posarsi leggera su qualsiasi superficie incontrasse. Aveva già ricoperto le foglie delle palme in giardino, il barbecue arrugginito del nonno, il vialetto di sassi che portava ai garage. Osservando bene nel buio si potevano notare i fiocchi grossi scendere, cambiare direzione all’improvviso, posarsi, confondersi con gli altri.

Sentiva freddo nello stomaco, quel freddo tipico dell’abbandono. Per il resto non sentiva proprio nulla. Si era svuotata, era solo un involucro di carne, non una vera esistenza. Un appartamento vuoto che nessuno aveva voglia di abitare perché necessitava di un restauro. Pensò, ironicamente, che ciò di cui aveva bisogno era di essere abbattuta e ricostruita in un modo più consono, in un modo che andasse bene. Si stinse le braccia intorno al busto e cominciò a dondolare, avanti e indietro, avanti e indietro, aspettando che lo stomaco si scaldasse – o decidesse per lo meno di svuotarsi, facendola vomitare.

Cominciavano sempre così i suoi momenti di crisi: lei che cercava invano di mantenersi intera, lei che cominciava a dondolare, lei che aspettava il mal di testa, i pensieri cattivi affollarsi, lei che sentiva il freddo diffondersi, che cominciava a grattarsi la testa nervosamente, avanti e indietro, il respiro cominciava ad affannarsi, la saliva a scarseggiare, il dolore al braccio sinistro si infittiva, cominciava a bruciare tutto, le orecchie fischiavano come se tutte le persone parlassero di lei nello stesso momento. Poi c’era il buio. E la voglia di morire. E poi c’era  il buio e la voglia di morire, insieme. C’era la voglia di morire.

Si voltò, il letto sfatto e vuoto. Non sarebbe riuscita a dormire bene quella notte, l’ansia l’aveva fatta schiava. Lo sapeva bene che il mattino dopo si sarebbe svegliata con la stessa sensazione di spossatezza nelle ossa, i segni degli incubi nelle occhiaie, nei palmi delle mani arrossati e nelle unghie stanche. Sapeva bene che avrebbe cercato di dimenticare, che avrebbe mangiato per riempire lo stomaco e scacciare quella sensazione perenne di vuoto che alleggiava attorno alla sua esistenza. La cosa che sapeva meglio, comunque, era che doveva impedirsi di scomparire, come tutte le mattine:

mi chiamo Mia – ero sua e adesso sono mia di nuovo –, mi chiamo Mia e sono forte – ero burro, fra le sue mani, quando mi accarezzava i capelli –, mi chiamo Mia e il dolore non mi spezzerà perché sono forte adesso – la corda stretta attorno al suo collo che non si era spezzata perché il nodo l’aveva fatto bene –, mi chiamo Mia e devo continuare a soffrire, perché lui è morto, perché io voglio morire ma non posso.

Ogni mattina le stesse frasi, ripetute in modo autonomo, come l’inno prima di una partita di calcio. Mentre si lavava i denti, o inzuppava i biscotti nel latte, o infilava i piedi nelle ciabatte. Ogni mattina le stesse frasi composte dalle stesse parole consumate che la lingua del pensiero scandiva lentamente, come una cantilena.

Distese il corpo esile sulle lenzuola, gli occhi che rimanevano spalancati nonostante la stanchezza causata dai pensieri che avevano ripreso a sbatterle impetuosamente nella testa. Credeva volessero essere ascoltati, ma lei non ce la faceva: lo scopo di ognuno di essi era ferirla, portarle via un altro brandello della sua vita già triste stanca stressata buia frenetica. Aveva una vita stanca e buia di chi aveva perso tutto, e con tutto bisogna precisare che non si intende proprio tutto, ma quello che a lei importava, quello che per lei era tutto, era casa, era la parte serena e felice della sua vita. Quella sua  vita che non esisteva più, che era vita solo per modo di dire, solo perché lei respirava. La sua cassa toracica si alzava e abbassava, gli alveoli dei suoi polmoni funzionavano bene, il suo setto nasale non era mai stato rotto. Solo perché lei camminava, cucinava, vedeva opere d’arte e gomme da masticare appiccicate sui cartelli stradali, sentiva i clacson delle macchine, il canto degli uccelli la mattina, il rumore di ciabatte trascinate sul marmo. Solo per quello, solo perché i medici le avevano detto che adesso stava bene, che non servivano più le medicine, che sarebbero bastati gli amici e la famiglia, che sarebbe bastato dimenticare e tutto sarebbe andato bene.

Aveva ripreso ad andare a scuola, e tutti erano stati apprensivi con lei, i primi giorni. Le chiedevano come stava, e lei si stringeva nelle spalle e diceva che stava bene. Le raccontavano battute squallide per farla sorridere, e lei sorrideva. La abbracciavano, le sfioravano le scapole, le toccavano i capelli. Con il passare del tempo, si convinsero che era vero che stava bene, che i suoi sorrisi non erano sorrisi di circostanza, e la abbandonarono. La abbandonarono con i suoi pensieri, le sue paure, la sua mania del cibo, la sua famiglia incostante, i suoi cuscini sporchi. La abbandonarono come si fa con tutte le cose che non sono importanti, non sono rilevanti, come si fa con tutte le cose che non hanno importanza.

Un giorno Mia decise che non avrebbe più parlato, se le persone non avevano più voglia di ascoltarla. Era costretta a farlo in alcune occasioni, ovviamente, ma se nessuno voleva stare con lei, se nessuno le dava più importanza, allora lei si sarebbe semplicemente fatta da parte. Un giorno Mia decise che sarebbe sparita dalla vita delle persone che la circondavano, e non perché non si sentiva amata, ma solo perché l’unico essere vivente che lei amava non c’era più. Ed era finita in quella clinica psichiatrica per quel motivo, perché lui non c’era più, e non ci sarebbe più stato nelle notti in cui era triste, nelle notti a ripassare chimica, nelle notti a fare l’amore. Lui non ci sarebbe più stato, lui l’aveva abbandonata come si fa con tutte le cose che non sono importanti, lui non c’era più e lei era costretta a vivere. Non era un’ingiustizia? Qualcuno le aveva detto che quell’ingiustizia si chiamava Vita e che lei doveva solo dimenticare tutto. Ma le piccole cose, quelle piccole cose che riguardavano lui le si erano incastrate sotto pelle, non poteva semplicemente lasciarle andare via, perché la tenevano in vita, perché erano l’unica cosa che la tenevano in vita. Ma le piccole cose di Mia, quei segnali muti che lanciava e nessuno coglieva, quelli sarebbero stati la sua rovina. Le piccole cose di Mia sarebbero state capaci di ucciderla, erano capaci, ma a nessuno importava (tanto meno a lei)

 

 

 

Note.
Sapete bene che di domenica mi annoio a morte e preferisco scrivere baggianate al posto di studiare.
Come al solito non ho le idee chiare su che cosa uscirà da questa storia, si vedrà scrivendola. Ma in fine tutto ciò che scrivo è abbastanza simile, quindi potete già immaginarvi il continuo di questa storia. O forse no?
Fatemi sapere che cosa ne pensate e se vale la pena continuarla, oppure no. Love always, Deborah.

 Ps: Piccole cose (che sai ignorare) è il titolo di una bellissima canzone di una band abbastanza sconosciuta chiamata La Fame di Camilla.

  
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