Piccole
cose (che sapevano ignorare)
Capitolo
uno.
"Non
gli veniva nessuna risposta, tranne quella generica che la vita
dà a tutte le
questioni più complicate e insolubili: vivere giorno per
giorno, cioè
dimenticare."
–
Anna Karenina, Leo Tolstoj
Guardava
la neve scendere copiosa fuori dalla finestra e posarsi leggera su
qualsiasi
superficie incontrasse. Aveva già ricoperto le foglie delle
palme in giardino,
il barbecue arrugginito del nonno, il vialetto di sassi che portava ai
garage.
Osservando bene nel buio si potevano notare i fiocchi grossi scendere,
cambiare
direzione all’improvviso, posarsi, confondersi con gli altri.
Sentiva
freddo nello stomaco, quel freddo tipico dell’abbandono. Per
il resto non sentiva proprio
nulla. Si era svuotata,
era solo un involucro di carne, non una vera esistenza. Un appartamento
vuoto
che nessuno aveva voglia di abitare perché necessitava di un
restauro. Pensò,
ironicamente, che ciò di cui aveva bisogno era di essere
abbattuta e
ricostruita in un modo più consono, in un modo che andasse
bene. Si stinse le
braccia intorno al busto e cominciò a dondolare, avanti e
indietro, avanti e
indietro, aspettando che lo stomaco si scaldasse – o
decidesse per lo meno di
svuotarsi, facendola vomitare.
Cominciavano
sempre così i suoi momenti di crisi: lei che cercava invano
di mantenersi
intera, lei che cominciava a dondolare, lei che aspettava il mal di
testa, i
pensieri cattivi affollarsi, lei che sentiva il freddo diffondersi, che
cominciava a grattarsi la testa nervosamente, avanti
e indietro, il respiro cominciava ad affannarsi, la saliva a
scarseggiare, il dolore al braccio sinistro si infittiva, cominciava a
bruciare
tutto, le orecchie fischiavano come se tutte le persone parlassero di
lei nello
stesso momento. Poi c’era il buio. E la voglia di morire. E
poi c’era il
buio e la voglia di morire, insieme. C’era
la voglia di morire.
Si
voltò, il letto sfatto e vuoto. Non sarebbe riuscita a
dormire bene quella
notte, l’ansia l’aveva fatta schiava. Lo sapeva
bene che il mattino dopo si
sarebbe svegliata con la stessa sensazione di spossatezza nelle ossa, i
segni
degli incubi nelle occhiaie, nei palmi delle mani arrossati e nelle
unghie
stanche. Sapeva bene che avrebbe cercato di dimenticare, che avrebbe
mangiato
per riempire lo stomaco e scacciare quella sensazione perenne di vuoto
che
alleggiava attorno alla sua esistenza. La cosa che sapeva meglio,
comunque, era
che doveva impedirsi di scomparire, come tutte le mattine:
mi
chiamo Mia –
ero sua e adesso sono mia di nuovo –, mi
chiamo Mia e sono forte – ero burro, fra le sue
mani, quando mi accarezzava
i capelli –, mi chiamo Mia e il
dolore
non mi spezzerà perché sono forte adesso
– la corda stretta attorno al suo
collo che non si era spezzata perché il nodo
l’aveva fatto bene –, mi
chiamo Mia e devo continuare a soffrire,
perché lui è morto, perché io voglio
morire ma non posso.
Ogni
mattina le stesse frasi, ripetute in modo autonomo, come
l’inno prima di una
partita di calcio. Mentre si lavava i denti, o inzuppava i biscotti nel
latte,
o infilava i piedi nelle ciabatte. Ogni mattina le stesse frasi
composte dalle
stesse parole consumate che la lingua del pensiero scandiva lentamente,
come
una cantilena.
Distese
il corpo esile sulle lenzuola, gli occhi che rimanevano spalancati
nonostante
la stanchezza causata dai pensieri che avevano ripreso a sbatterle
impetuosamente nella testa. Credeva volessero essere ascoltati, ma lei
non ce
la faceva: lo scopo di ognuno di essi era ferirla, portarle via un
altro
brandello della sua vita già triste stanca stressata buia
frenetica. Aveva una
vita stanca e buia di chi aveva perso tutto,
e con tutto bisogna precisare che non si intende proprio tutto, ma
quello che a
lei importava, quello che per lei era tutto,
era casa, era la parte serena e felice della sua vita. Quella sua vita che non esisteva
più, che era vita solo
per modo di dire, solo perché lei respirava. La sua cassa
toracica si alzava e
abbassava, gli alveoli dei suoi polmoni funzionavano bene, il suo setto
nasale
non era mai stato rotto. Solo perché lei camminava,
cucinava, vedeva opere
d’arte e gomme da masticare appiccicate sui cartelli
stradali, sentiva i
clacson delle macchine, il canto degli uccelli la mattina, il rumore di
ciabatte trascinate sul marmo. Solo per quello, solo perché
i medici le avevano
detto che adesso stava bene, che non servivano più le
medicine, che sarebbero
bastati gli amici e la famiglia, che sarebbe bastato dimenticare e
tutto
sarebbe andato bene.
Aveva
ripreso ad andare a scuola, e tutti erano stati apprensivi con lei, i
primi
giorni. Le chiedevano come stava, e lei si stringeva nelle spalle e
diceva che
stava bene. Le raccontavano battute squallide per farla sorridere, e
lei
sorrideva. La abbracciavano, le sfioravano le scapole, le toccavano i
capelli. Con
il passare del tempo, si convinsero che era vero che stava bene, che i
suoi
sorrisi non erano sorrisi di circostanza, e la abbandonarono. La
abbandonarono
con i suoi pensieri, le sue paure, la sua mania del cibo, la sua
famiglia
incostante, i suoi cuscini sporchi. La abbandonarono come si fa con
tutte le
cose che non sono importanti, non sono rilevanti, come si fa con tutte
le cose
che non hanno importanza.
Un
giorno Mia decise che non avrebbe più parlato, se le persone
non avevano più
voglia di ascoltarla. Era costretta a farlo in alcune occasioni,
ovviamente, ma
se nessuno voleva stare con lei, se nessuno le dava più
importanza, allora lei
si sarebbe semplicemente fatta da parte. Un giorno Mia decise che
sarebbe
sparita dalla vita delle persone che la circondavano, e non
perché non si
sentiva amata, ma solo perché l’unico essere
vivente che lei amava non c’era
più. Ed era finita in quella clinica psichiatrica per quel
motivo, perché lui
non c’era più, e non ci sarebbe più
stato nelle notti in cui era triste, nelle
notti a ripassare chimica, nelle notti a fare l’amore. Lui
non ci sarebbe più
stato, lui l’aveva abbandonata come si fa con tutte le cose
che non sono
importanti, lui non c’era più e lei era costretta
a vivere. Non era un’ingiustizia?
Qualcuno le aveva detto che quell’ingiustizia si chiamava
Vita e che lei doveva
solo dimenticare tutto. Ma le piccole cose, quelle piccole cose che
riguardavano lui le si erano incastrate sotto pelle, non poteva
semplicemente
lasciarle andare via, perché la tenevano in vita,
perché erano l’unica cosa che
la tenevano in vita. Ma le piccole cose di Mia, quei segnali muti che
lanciava
e nessuno coglieva, quelli sarebbero stati la sua rovina. Le piccole
cose di
Mia sarebbero state capaci di ucciderla, erano capaci, ma a nessuno
importava (tanto meno a lei)
Note.
Sapete
bene che di domenica mi annoio a morte e preferisco scrivere baggianate
al
posto di studiare.
Come
al solito non ho le idee chiare su che cosa uscirà da questa
storia, si vedrà
scrivendola. Ma in fine tutto ciò che scrivo è
abbastanza simile, quindi potete
già immaginarvi il continuo di questa storia. O forse no?
Fatemi
sapere che cosa ne pensate e se vale la pena continuarla, oppure no.
Love
always, Deborah.