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Autore: viktoria    18/03/2013    4 recensioni
[Jonathan Rhys-Meyers]Quanto avevo sognato di incontrarlo, di fare una foto con lui e di parlargli. Come quelle ragazzine idiote che vanno dietro i propri idoli per anni. Potevo dire, con un certo orgoglio, che io i miei pensieri idioti su di lui me li ero tenuti per me benché avessi sempre ammesso di far parte di quel 99% della popolazione che ha un suo idolo famoso con cui sogna quella storia romantica da fiaba.
Jonathan Rhys Meyers era il mio.
[STORIA IN REVISIONE]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Whatever works'
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Il giorno dopo lui non tornò, e nemmeno quello dopo ancora. Passai i due giorni prima del 31 luglio chiusa dentro quella lussuosa camera d’albergo a studiare. Mi sentivo sola in quel momento come mai in vita mia. non avevo mai passato due giorni completamente sola. Anche se fossi uscita non avrei saputo dove andare e soprattutto la solitudine che mi aspettava nelle strade di quella città sconosciuta non mi faceva venire nessuna voglia di avventurarmi chissà dove. Ero seduta al tavolo dell’ingresso, il telefono accanto e i libri davanti. Non riuscivo a non pensare a quello che mi aveva ripetuto Jonathan. Aveva ragione, era ovvio, ed ero fermamente convinta che non avesse bisogno della mia conferma per saperlo.

Quella mattina del 31 Luglio 2012 mi alzai presto. Avevo dormito da sola per l’ennesima volta, nessuno aveva chiamato e a quel punto sapevo cosa mi aspettava. Presi i libri che avevo lasciato sul tavolo dell’ingresso la sera prima, li infilai nello zainetto che avevo portato con me e strappai un foglio da un quaderno.

«Sono andata a fare i test, tornerò dopo l’una»

Scrissi velocemente con mano malsicura. Probabilmente lui non sarebbe tornato. Era stato via per due giorni senza tornare neanche a prendersi le sue cose, perché doveva farlo proprio oggi?

Perché sa che tu non ci sei. Mi ricordò la vocina nella mia testa facendomi sospirare, stanca.

Dopo aver recuperato il portafogli con i documenti e il telefono, uscì dalla stanza.

Avevo la sensazione da film di essere proiettata verso il mio futuro. Era una sensazione fondamentalmente stupida. Non aveva nulla a che vedere con la realtà. Probabilmente era solo la tensione che si trasformava in adrenalina. Mi sarebbe sicuramente stata utile durante l’esame.

Lasciai le chiavi alla reception e uscì nel grande viale Italia che costeggiava il mare. Non avrei neanche dovuto prendere l’autobus, avrei camminato su quel marciapiede affiancato dalla battigia, riflettendo su quello che avrei potuto guadagnare una volta superati i test di ammissione, e ciò che invece avrei sicuramente perso.

Avrei avuto un lavoro sicuro in un’Italia in cui ormai di sicuro c’era solo la morte. Avrei avuto uno stipendio che un giorno mi avrebbe permesso di condurre una vita tranquilla, di dare ai miei figli tutte le comodità di cui avevano bisogno. Avrei… presi un respiro profondo riempiendo i polmoni di quell’acre odore salmastro che adoravo.

Fine dei privilegi.

Non c’era altro di buono in quello che stavo per fare.

Avrei dovuto vivere secondo leggi ferree che mi avrebbero impedito di perseguire qualsiasi sogno che non avesse a che fare con i loro scopi. Sarei tornata a casa solo due volte l’anno. La mia vita sarebbe stata legata esclusivamente a loro senza nessun modo di riscattare la mia felicità. Non avrei più rivisto Jonathan.

Tutto quello era ciò che certamente avrei perso.

Non sarei mai stata un’attrice. Non sarei mai andata a studiare al DAMS. Non avrei avuto una relazione normale come qualsiasi altra mia coetanea. Non avrei potuto avere delle mie idee. Ed io ero una persona che di idee ne aveva davvero tante.

Forse l’idea di mia madre non era proprio da scartare. Giurisprudenza infondo, per quanto fosse male, mi avrebbe dato l’opportunità di avere una vita abbastanza normale.

Avevo camminato per oltre cento numeri civici. Dal 195 al 72 di Viale Italia. Adesso ero lì, davanti a me il grande palazzo che mi avrebbe ospitata per quelle tre ore.

Quando entrai dal portone in legno delle guardie mi si avvicinarono e mi chiesero i documenti. Aprì lo zaino e, estratto il portafogli, mostrai la carta d’identità ad uno dei due che la prese e si recò in una stanza vicina lasciandomi in compagnia dell’altro che era con lui di guardia. Mi guardava come se avesse voluto dirmi qualcosa. Forse se avesse potuto mi avrebbe consigliato di scappare via lontano e non tornare. Forse avrebbe detto ciò che mi aveva già detto Jonathan qualche giorno prima. L’uomo che si era allontanato tornò restituendomi il mio documento e dandomi un'etichetta da mettere alla giacca per poter essere facilmente riconoscibile. Sopra c’era il mio nome e la scritta grande, in rosso, STUDENTE. Misi il portafogli nello zaino mentre l’uomo, con calma, mi spiegava dove andare.

- Devi salire le prime scale che troverai sulla tua destra, poi segui il corridoio fino alla fine c’è una grande porta grigia aperta.- mi avvisò con fare professionale.

- Grazie.- mormorai terrorizzata avviandomi lungo il corridoio.

Le informazioni erano state davvero precise e tra l’altro non era neanche così difficile seguire gli altri ragazzi che erano arrivati qualche minuto prima di me.

Una ragazza dai lunghi capelli neri legati in una treccia mi si affiancò mentre salivo le scale lentamente. Lei sembrava avere fretta di arrivare. Io invece mi gustavo gli ultimi momenti di libertà.

Entrammo nella grande sala insieme. Mostrammo il cartellino identificativo e ci vennero consegnate delle buste gialle sigillate.

- Non apritele fin quando non vi verrà detto.- ci ordinarono. – adesso prendete posto.- concluse l’uomo più anziano tra i cinque presenti che ci indicò la grande sala piena già di molti ragazzi.

Ci sedemmo vicine, in silenzio. Lei sembrava piena di brio, felice, pronta e desiderosa di iniziare. Io stavo per scoppiare a piangere.

- Io sono Renata.- si presentò lei ad un tratto stanca di rimanere in silenzio.

Mi porse educatamente la mano e gliela strinsi. Aveva gli occhi azzurri e brillanti, la pelle chiara senza traccia di trucco ed era straordinariamente bella. Quando mi capitava di conoscere quel genere di ragazze mi veniva in mente l’ingiustizia del mondo.

- Laura.- mi presentai a mia volta rivolgendole un mezzo sorriso tirato.

- Allora sei pronta?- mi domandò mostrandomi tutta la sua felicità. Insensata.

- Sono preparata.- la corressi come se la differenza tra i due termini fosse di importanza vitale.

In effetti non erano la stessa cosa. Io non ero pronta, affatto.

- Io non vedo l’ora.- rispose lei stringendo le mani che sbatterono tra loro provocando un leggero rumore.

I cinque alla cattedra cercarono di smorzare i mormorii che erano nati all’interno della sala e tutti tacquero. Anche la mia vicina.

Io non mi sentivo così in vena di chiacchiere quel giorno. Avrei voluto un abbraccio piuttosto, una rassicurazione. Invece non avrei potuto aspettarmi nulla di tutto ciò.

- Allora, come mai sei qui?- mi domandò dopo un po’ dimentica dell’ordine di non parlare imposto dai cinque.

- Perché è il lavoro più sicuro.- risposi con un briciolo di cinismo.

- Cosa? No, l’accademia non si può affrontare in questo modo.- mi rispose come se avessi appena detto la più grande eresia del mondo.

- E come si affronta allora?- domandai io voltandomi appena verso di lei.

- Devi amarla.- rispose semplicemente con un mezzo sorriso. – devi sapere che per te non può esserci altro. Devi essere certa che nella vita non potresti aspirare a nulla di meglio perché davvero non c’è nulla di meglio.- aggiunse lei infervorata.

- Davvero tu credi non ci sia nulla di meglio?- le chiesi scettica alzando un sopracciglio. – voglio dire sei bellissima, lo saprai da te, e se sei qui sei anche intelligente e brava nello sport. Allora perché credi che per te non possa esserci altro?- rincarai aggrottando la fronte senza capire.

- Perché è così Laura.- rispose lei convinta. – questo è il mio destino e nulla può rendermi felice come stare qui.-

Rimasi in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto incapace di capire o forse non volendo nemmeno farlo davvero. Lei, la bellissima ragazza al mio fianco, sapeva che quello era il suo destino. Non credeva di esagerare? Il destino era una cosa enorme. Qualcosa che ti lega ad un'altra per sempre.

- E tu? Cosa credi che possa renderti felice più di qualsiasi altra?- mi domandò in un sussurro prima che l’uomo che ci aveva dato i plichi chiusi davanti a noi si schiarisse la gola per richiamare la nostra attenzione.

- Silenzio, per favore. Sono le ore 9:52, tra otto minuti le porte verranno chiuse e saranno riaperte al termine della prova.- ci avvisò con tono grave. – la prova durerà ottanta minuti, più un ora per gli accertamenti, alle ore 13 potrete andare via.- continuò serio mentre la stanza era piombata nel silenzio.

I quattro uomini che erano stati fino a quel momento accanto a lui cominciarono a camminare tra i banchi guardandoci, uno per uno.

- Adesso potete aprire i plichi davanti a voi.- ordinò l’oratore. – chi non si sente in grado di proseguire è pregato di allontanarsi dalla stanza.- finì perentorio andando a sedersi al suo posto indifferente.

Cosa mi avrebbe fatta felice? Stare con lui probabilmente.

Fare medicina.

Fare teatro.

Tornare a casa.

Tornare al liceo.

Stare con le mie amiche.

Chiusi gli occhi e aprì il plico davanti a me estraendone dieci fogli ben rilegati. L’intestazione sul dorso mi fece venire un brivido freddo sulla schiena.

“Accademia navale della Marina Militare Italiana”

Voltai pagina cercando di non pensarci. Le domande erano facili. Niente di impossibile per nessun campo, anzi. La maggior parte delle cose era ben al di sotto di quelle che mi aspettavo e la cultura generale si avvicinava moltissimo a notizie di gossip da rivista di terz’ordine. Non sembrava nulla di serio come volevano far credere con tutta quella disciplina che regnava. Sicuramente l’avrei superato quel test. Avrei reso mia madre orgogliosa di me e mio padre avrebbe accantonato l’atteggiamento che aveva nei miei confronti da quando Jonathan era arrivato a casa la prima volta. Eppure in un momento mi vidi in uniforme, una domenica mattina all’alba, con la pioggia che mi bagnava i capelli tenuti legati sotto il capello. Piegare il capo davanti ai generale, sfilare come una cretina il due giugno davanti a quei fantocci che erano i nostri capi politici.

Guardai un attimo Renata al mio fianco che aveva già cominciato a scrivere frenetica su un foglietto per i calcoli che avevamo ricevuto insieme al test. Probabilmente anche lei sarebbe passata. Saremmo state compagne in quella brutta avventura e forse saremmo state anche amiche.

Presi il foglietto con quella tremenda intestazione e lo rimisi nella busta gialla in cui mi era stato consegnato.

Mi alzai dal mio posto prendendo lo zaino e mettendomelo sulle spalle. Renata alzò lo sguardo su di me dubbiosa.

- In bocca al lupo.- le augurai sorridendole con tutto l’amore che si poteva dimostrare per una persona appena conosciuta e il suo futuro.

- In bocca al lupo.- rispose lei nello stesso modo con gli occhi che le brillarono.

Chissà se il suo era solo un piano per liberarsi di una rivale. Per me non era stato così, anzi. Era stata per un attimo Carolina, Betta, Ale, Bens e Josephine insieme. Era stata la mia migliore amica, la mia confidente, la mia coscienza. Probabilmente avrei dovuto a lei il mio futuro da disoccupata infelice e povera ma andava bene.

Avrei dovuto a lei il resto della mia vita.

Stavo riscrivendo quello che qualcun altro aveva deciso per me.

Comminai con passo sicuro verso la cattedra. Tutti si erano voltati verso di me e mi guardavano. Posai il plico sul mobile in legno e l’uomo lo guardò prima di tornare con lo sguardo su di me.

- Ne è sicura signorina?- mi domandò tranquillamente allungando una mano pronto a prenderlo definitivamente.

- Arrivederci.- lo salutai semplicemente voltandogli le spalle e uscendo da quella stanza un secondo prima che le porte venissero chiuse.

Ripercorsi il corridoio al contrario rispetto ad un’ora prima e, consegnato il cartellino che mi avevano ordinato di mettere sulla giacca, mi allontanai per sempre dal numero 72 di Viale Italia.

 

Quando rientrai nella mia camera d’albergo avrei voluto semplicemente buttarmi a letto e riflettere sul gesto che avevo appena fatto. Mia madre e mio padre mi avrebbero uccisa. Onestamente credevo davvero di meritare la morte a quel punto.

Buttai lo zaino per terra incurante del telefono e di tutto quello che c’era dentro e mi incamminai verso la mia stanza trascinando i piedi. La valigia di Jonathan era poggiata sul letto aperta e riordinata pronta per essere chiusa. Mi guardai intorno e solo allora mi resi conto del rumore dell’acqua che scorreva in bagno. La porta era aperta. Mi avvicinai lentamente e lo trovai con dei jeans e una camicia leggera davanti allo specchio che si rasava. Era una bella immagine davvero. Lui non si voltò per guardarmi continuò a fare quello che stava facendo senza dar prova di essersi accorto della mia presenza.

- Ciao.- lo salutai con un tono bassissimo di voce senza ricevere da lui nessun tipo di risposta.

Incrociai le braccia al petto e mi poggiai allo stipite della porta del bagno continuando a guardarlo.

- Non mi chiedi come è andata?- domandai gentilmente cercando di attirare la sua attenzione.

- Non mi interessa.- rispose semplicemente mentre ripuliva il rasoio che stava utilizzando.

- Io vorrei che tu me lo domandassi.- risposi parlando a bassa voce torturandomi le costole con le dita.

- Sono le dieci e un quarto. Mi avevi detto che saresti tornata all’una. Il che vuol dire che la prova è andata più che bene. Brava.- rispose atono lavandosi la faccia.

Prese la crema che aveva usato per rasarsi e il resto del materiale e posò tutto in valigia superandomi senza neanche dar mostra di essere interessato. La chiuse e bloccò le lampo con un piccolo lucchetto.

- Dove vai?- domandai aggrottando la fronte seguendolo mentre si tirava giù le maniche della camicia.

- A Londra. Devo lavorare.- rispose semplicemente. almeno non aveva risposto che non erano affari miei. Avrei dovuto essergli grata.

- Torni da Allie?- domandai vergognandomi per quella domanda. Alzai lo sguardo quando vidi che lui aveva puntato il suo su di me.

- Laura, non farmi diventare crudele.- sussurrò a denti stretti mettendo a terra la valigia avvicinandosi all’ingresso.

Prese il cappotto e se lo mise sistemandosi davanti allo specchio con calma. La parte coraggiosa di me si chiedeva che cosa stessi aspettando. Se fosse uscito da quella porta sarebbe stato praticamente inutile aver rinunciato a quel futuro certo solo perché volevo seguire i miei sogni. A prendersi in giro potevo affermare che parlavo solo della libertà che l’accademia mi avrebbe negato ma poi, a voler essere proprio sinceri, almeno con me stessa, dovevo ammettere che era anche per stare con lui che non volevo andare in accademia. Volevo che sapesse che lo sapevo che aveva ragione. Forse, se proprio quel giorno fosse uscito da quella porta, avrei dovuto fare in modo che lo sapesse che ero profondamente presa da lui. Che non ero una prostituta. Che quella domenica di pasqua io non mi ero trovata quasi a fare sesso con lui perché mi ero lasciata prendere dal caldo primaverile o dallo scirocco. Io l’avevo fatto perché provavo un sentimento forte per lui. Perché ero un’adolescente innamorata.

- Ho consegnato in bianco.- non avrei voluto dirlo ma, mentre questi pensieri mi intasavano la mente, lui aveva aperto la porta della stanza e stava andando via senza salutare.

Si voltò verso di me aggrottano la fronte pronto a studiare la mia espressione per capire se mentissi o meno. Richiuse la porta facendomi sospirare di sollievo. Mi stava dando la possibilità di parlare. Era più di quanto avessi potuto sperare.

- Sono tornata così presto perché non l’ho neanche cominciato il test.- precisai abbassando lo sguardo. Avevo ancora le braccia incrociate al petto, stretta al punto che facevo davvero fatica a respirare.

- Perché?- domandò lui piano rimanendo immobile poco lontano dalla porta. Se avesse steso il braccio avrebbe potuto aprirla senza problemi.

- Perché non era ciò che volevo.- risposi in un attimo di profonda sincerità.

Per un attimo calò il silenzio. Lui non parlava, io non riuscivo neanche ad alzare lo sguardo e sentivo tutta la convinzione che mi aveva spinto a fare quel gesto venire meno. I capelli mi caddero sul viso mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.

Il parquet del pavimento, che avevo studiato per un po’, adesso mi appariva sfocato e sentivo la necessità di asciugare le lacrime che minacciavano di scendere.

- Adesso che farai?- domandò lui alla fine spezzando quel terribile silenzio che mi aveva dato il tempo di pensare lucidamente alla mia follia.

Questa volta fui io a rimanere in silenzio. Immobile al mio posto cercai di ricacciare indietro le lacrime e di bloccare i singhiozzi che minacciavano di smascherarmi.

- Laura?- mi chiamò lui dopo un attimo quando aveva ormai capito che non gli avrei risposto.

L’avevo sentito avvicinarsi di qualche passo. Adesso era più vicino a me e se avessi alzato un po’ il viso avrei trovato davanti agli occhi umidi il suo petto. Vedevo anche così le sue scarpe nere.

- Non lo so.- ammisi dopo un attimo credendo che la voce non mi avrebbe più tradita. Mi sbagliavo sfortunatamente. La voce mi tremò e si spezzò nei punti sbagliati.

Si avvicinò ancora e mi afferrò il mento tra le dita costringendomi a guardarlo. Una lacrima sfuggì al mio controllo e mi rigò la guancia cadendo sulla sua mano. Lo vidi sgranare gli occhi. Mi passò le dita calde sul viso cercando di catturare le lacrime indisciplinate che avevano cominciato a scendere involontarie.

- Perché lo hai fatto se adesso ci stai male?- mi domandò con la fronte aggrottata e le labbra strette.

Era così dolorosamente bello. Perché non poteva essere vera la tristezza che sembrava aver dipinta in viso? Perché non poteva essere tutto esattamente come sembrava essere?

- Perché non ci volevo andare io.- mormorai cercando di frenare le lacrime che invece adesso scendevano anche più di prima.

- Allora adesso perché piangi?- mi domandò sempre più confuso e…preoccupato? Era preoccupato? Per me? ti prego fa che sia preoccupato.

- Perché non so cosa fare.- biascicai cercando di liberarmi dalla sua presa.

Fece resistenza per un attimo poi mi lasciò andare. Mi sedetti sul bordo del tavolo su cui avevo studiato quei due giorni di solitudine. Mi passai le mani sul viso con forza per asciugare le lacrime che avevano cominciato a seccarsi sulle guance.

- Non posso tornare a casa adesso. Sono una delusione enorme per i miei genitori. Io volevo solo che il mio papà fosse fiero di me.- ormai stavo piangendo di nuovo più di prima.

Mi presi il viso tra le mani e non riuscì più a frenare i singhiozzi.

Sentì le sue mani sui miei polsi fare una leggera pressione per togliermi le mani dal viso e, dopo avermi liberata dalla mia presa, mi strinse, inaspettatamente, contro il suo petto, portandomi le braccia intorno alle spalle e lasciando le mie di braccia, inerti, intorno al suo collo.

Per un attimo non compresi. Lui non era quello che non voleva che la gente lo abbracciasse? Ci avevo provato una volta e mi aveva spinta via. Ora era addirittura lui ad abbracciare me e mi sentii sicura e protetta.

Piansi sulla sua spalla nascondendo il viso contro il suo collo. Piangevo per lo stress accumulato in quei giorni, per la solitudine, per la tristezza, per aver tradito le aspettative, per non essere stata all’altezza. Per non avere futuro.

Quando riuscii finalmente a calmarmi un po’ e solo i singhiozzi mi scuotevano di tanto in tanto, calmata dalle carezze che ricevevo alla schiena e tra i capelli, mi dissi che ormai era inutile piangere e che quello che potevo fare era riscattare me stessa in un altro modo.

Rimasi stretta a lui in silenzio, passandogli una mano sul collo accarezzandoglielo piano fino alla nuca. Se proprio non l’avessi più rivisto tanto valeva godersi il momento.

- Sai qual è il secondo motivo per cui l’ho fatto?- domandai piano sospirando contro il suo collo.

- Quale?- chiese allontanandosi un po’ e passandomi entrambe le mani sul viso per asciugarlo dalle lacrime.

- A me piace viaggiare, mi piace vedere il mondo da turista, mi piace svegliarmi la mattina in un albergo, possibilmente non da sola.- mormorai distogliendo lo sguardo dai suoi occhi chiari e indagatori.

- A Londra io non sto in albergo.- mi rispose lui ridacchiando divertito. – però volendo possiamo rimediare.- continuò.

- Londra?- chiesi io aggrottando la fronte.

Lui mi guardò e non rispose subito. Mi stava studiando come se si chiedesse quanto stessi scherzando e quanto di vero ci fosse nelle mie parole.

- Vuoi venire con me a Londra questa volta?- domandò lui tornando serio dopo un attimo di esitazione.

- Con te a Londra?- ripetei io di nuovo per renderlo reale.

La prima volta che mi aveva fatto quest’offerta era stato il giorno del mio esame di maturità. Avevo rifiutato ma non avevo pensato ad altro tutto il tempo. Adesso che avevo la possibilità di dire si e tutte le buone ragioni per farlo mi sentivo in debito di ossigeno.

- Non deve cambiare niente se non vuoi Lorie. Siamo amici. Ho un numero infinito di stanze per gli ospiti.- mi avvisò concitato mordendosi piano il labbro.

Lo stavo facendo anche io. Mi mordicchiavo il labbro interno per non fare gesti avventati. E soprattutto per rimanere in silenzio.

- Cosa dovrebbe cambiare?- domandai io. Era il momento di confermare quello che avevo sempre pensato io o di distruggere i miei sogni adolescenziali una volta per sempre.

Doveva finirla di fare l’enigmista. L’avrei finita anche io se fosse stato sincero con me per una volta.

- Potresti accettare la proposta che ti ho fatto al mio compleanno…- costatò lui in imbarazzo.

Era adorabile imbarazzato. Gli accarezzai involontariamente il collo stringendogli le braccia dietro la nuca.

- E poi? Che ci faccio io a Londra?- in realtà era solo per tirarmela altri cinque minuti. Solo per avere il piacere di dire che ero stata io a scegliere questa volta. Che era stato lui a volere me.

- Studi. Quello che vuoi. Di certo non avremo problemi di soldi. E se non vuoi che si sappia in giro non si saprà. Sarò discreto te lo giuro.- mi rispose prendendomi per i fianchi in un momento di entusiasmo e sollevandomi leggermente per portare il mio viso all’altezza del suo.

- Non voglio una relazione aperta. Io non ci credo proprio nelle relazioni aperte.- lo informai seriamente. – non devi essere discreto, voglio che sia come a casa.- mormorai mettendo il muso.

Lui si avvicinò a me con il suo meraviglioso sorriso sulle labbra. Quello da film che ti scalda il cuore. Quello che cinque mesi prima potevo solo sognarmi la notte o cercare nelle interviste su internet. Adesso era tutto per me, lì.

- È un sì?- domandò lui ad un passo dalle mie labbra.

Sapeva ancora di menta? Probabilmente no. probabilmente non sapeva più nemmeno di cioccolato. Un leggero odore di nicotina continuava ad avvolgerlo. Però c’era anche il buon odore della sua pelle, del dopobarba, del profumo. Anche il piccolo neo che aveva sul collo e che adesso stavo sfiorando con la punta delle dita. Sorrisi tra me. Era un misto micidiale di tutto ciò che amavo.

- Hai capito che sei tu una delle ragioni per cui ho mandato a puttane il mio futuro?- domandai senza smettere di esaminarlo.

Un attimo dopo le mie labbra era troppo impegnate per parlare.

Non sapeva più di menta e cioccolato. E neanche di nicotina e caffè. Sapeva di speranza.

 

Il 31 Luglio dell’anno 2012 doveva essere il giorno dei test finali per l’accademia. Doveva essere il giorno in cui scrivevo il mio futuro. E lo fu davvero. Quel giorno gettai le basi per quella che sarebbe stata la mia vita. Stretta tra le braccia dell’uomo che amavo, con uno splendido ed incerto avvenire che sembrava sorridermi come mai prima d’allora. con un grande segreto che non sapevo come rivelare a mia madre. Il 31 Luglio sarebbe stata una data davvero difficile da dimenticare.

Nel giro di qualche anno mi sarei resa conto dell’enormità di quella data.

  
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