Hurt me and tell me you’re mine.
(In ruins – missing moment #1)
Mi
svegliai, combattendo con tutte le forze contro la luce che entrava
dalle
finestre e che mi si sparava dritta in faccia. Mi mossi lentamente,
abbracciando il busto di Seth. Ero in uno di quei momenti post sbornia
in cui
sapevo a mala pena come mi chiamavo, ma lui, sapevo che lui era
affianco a me,
anche se probabilmente dormiva ancora, sfinito quanto me. Non lo sentii
muoversi di un millimetro, il respiro regolare, il torace che si alzava
ed
abbassava lentamente. Era caldo da impazzire, e io, come al solito,
ghiacciata.
Tutto in me urlava “Seth, hai bisogno di Seth”. E
il punto era proprio che io
avevo bisogno di lui per sopravvivere. Per sopravvivere quando avevo le
mani, i
piedi, il corpo e l’anima freddi. Quando ero triste, quando
ero euforica,
quando cadevo e non riuscivo ad alzarmi. Lui era affianco a me, sempre,
nonostante
tutte le liti e gli insulti.
Alzai
la testa e con la punta dell’indice presi a sfiorargli il
viso, con delicatezza.
Partii dalle sopracciglia, distese e beate come quelle di qualcuno che
stava
facendo un bel sogno, gli accarezzai le palpebre chiuse, non toccandole
veramente e scesi verso il naso, dritto e liscio. Quando gli toccai le
labbra,
le dischiuse appena, scaldandomi la pelle con il suo alito. Ora sapevo
che era
sveglio, ma lui non aprì gli occhi, lasciandomi continuare
l’esplorazione di
quel volto che conoscevo bene, qualsiasi espressione assumesse. Mi
avvicinai a
lui e gli lasciai un bacio sul mento, pungendomi un po’ con
la barba che si era
fatto crescere – non avevo fatto obiezioni,
perché, a quanto pareva, i miei ormoni
la trovavano estremamente sexy. Fu in quel momento, comunque, che
aprì gli
occhi: verdi, verdissimi, come ogni mattina. (“Come
ogni mattina in cui mi sveglio affianco a te”, aveva detto
una
volta)
«Ciao»,
dissi con un sorriso. Lui si avvicinò e mi baciò
le labbra, nel suo modo dolce,
carino e leggero. Mi strinsi un po’ a lui, giusto
perché non avevo nessuna
voglia di alzarmi dal letto, e lui mi cinse la vita con un braccio,
avvicinandomi ancora di più.
Rimanemmo
in silenzio per un tempo che mi parve infinito, ma io non mi stancavo
mai di
stare in silenzio insieme a Seth, perché sembrava che i
nostri respiri
suonassero insieme. Componevano una melodia confusa ma che in qualche
strano
modo aveva un’armonia, come se non fosse sbagliata. Come se
noi non fossimo
sbagliati.
Alzai
lo sguardo e lo osservai, mentre lui osservava me.
«Cosa?», chiese indagatore.
«Ho
bevuto. Quanto ho bevuto?». In quei cinque mesi in cui non ci
eravamo visti,
avevo smesso di bere e di drogarmi, avevo davvero voglia di sparire e
anche
facendo quelle cose temevo di attirare l’attenzione, di
espormi troppo. Quando invece
ero tornata insieme a lui – non che stessimo
insieme, come una coppia, ma non-esplicitamente lo eravamo,
dato che
avevamo solo noi stessi, pochi amici e nessuna famiglia –
tutto era tornato
come prima, alcol compreso. Mi faceva sentire bene, quello continuavo a
ripetermi, ma sapevamo bene entrambi quando ci facesse male fisicamente
(e
psicologicamente). Era anche vero, che in quei momenti in cui
galleggiavamo
negli effetti dell’alcol, ci amavamo come non mai. In quei
momenti eravamo
attratti l’una dall’altra come normalmente non lo
eravamo mai, e non perché non
ci amassimo, non perché non ci desiderassimo, solo
perché eravamo troppo
concentrati nel distruggerci da soli, ognuno per contro proprio. Ed era
proprio
in quei momenti di massima distruzione, fatti di droga e ubriachi
fradici che
ci rendevamo conto di quel bisogno, del
bisogno di avere quell’altra persona affianco,
quell’ancora di salvezza.
Mi
carezzò la guancia e chiusi gli occhi, godendomi quel
contatto rovente contro
lo zigomo scarno. «Mi dispiace», disse solo, e io
annuii, perché lo sapevo che
gli dispiaceva tanto quando dispiaceva a me. Sapevo anche quanto non
gli
dispiacesse, perché mi amava, mi amava così tanto
da volermi sua in qualsiasi
momento possibile. Anche perché io non avevo smesso di fare
quello che avevo
fatto in quegli anni: la troia. Sebbene fosse nata quella cosa con Seth e passassi con lui la
maggior parte del mio tempo,
avevo ancora una famiglia, una madre picchiata a sangue dal marito, un
padre
reso marcio dall’alcol e dalla sua stessa natura di bestia,
che gli faceva fare
quello che faceva. Portavo ancora io a casa i soldi per mangiare, con
la sola
differenza che poi me ne andavo, che poi tornavo a
casa mia, ovvero fra le braccia e le carezze di Seth. Era
casa
ormai, era porto sicuro, era luce.
Era
anche buio. Lo era quando mi picchiava perché troppo fatto,
e io me ne rendevo
conto e tacevo, come aveva fatto in tutti quegli anni mia madre,
maledicendomi perché
c’era la consapevolezza in me di dover scappare, non fare la
sua stessa fine,
ma anche quella che lo amavo, e senza di lui non avrei saputo dove
andare, cosa
fare. C’era la consapevolezza anche che lui, senza di me, non
sarebbe stato più
niente, e lo vedevo nei suoi occhi dopo avermi sbattuto addosso al muro
con
forza, quando abbassava il volto e mi chiedeva scusa sussurrandomelo
sul petto.
Appoggiai
il naso sul suo petto. «Non importa».
«Esci
oggi?».
Annuii.
«Ho da fare». Ero solita non ricordargli tutte le
volte in cui andavo a fare i
pompini agli altri ragazzi, e sapevo che apprezzava il fatto, lo capivo
da come
mi guardava e poi sbuffava. Gli baciai l’ombelico e lo sentii
irrigidirsi. Chiusi
gli occhi e presi un respiro. «Dobbiamo di nuovo tornare
sull’argomento?».
«Lo
sai quanto mi faccia schifo».
Avrei
voluto ribattere che non sapeva quanto schifo facesse a me, ma mi morsi
il
labbro per tacere. «Ti prego», soffiai.
«Fai
come vuoi». Dicendolo si alzò dal letto e
andò in bagno, lasciandomi con la
faccia premuta sulle lenzuola calde. Lo odiavo quando faceva
così. L’avrei
preso a schiaffi. Gli avrei urlato dietro le peggiori cose,
pentendomene cinque
minuti dopo.
Ritornò,
io ancora nella stessa posizione, e mi mise una mano su una coscia.
«Mi spiace».
«Lo
so».
«Mi
fa davvero schifo».
«Lo
so, ma se non lo faccio non mangiamo e non mangiano i miei, dato che
mamma al
lavoro non ci va proprio più». Mi
guardò, e si coprì lo sguardo triste con le
mani, nascondendosi il volto in esse, nascondendolo da me.
«Seth, guardami»,
dissi avvicinandolo a me. «So quanto ti stai impegnando a
cercare un lavoro, so
che lo troverai perché sei intelligente e bello e qualcuno
ti vorrà assumere,
prima o poi. Forse dovresti cercare in uno di quei club dove fanno gli
spogliarelli»,
scherzai. Mi guardò incuriosito, con un sorriso sulle
labbra. Io tornai seria. «Sto
scherzando, ovviamente». Scoppiò a ridere e ne fui
felice, mi aggrappai su di
lui e gli stampai un bacio. «Che c’è da
mangiare in casa? Muoio di fame»,
mugugnai sulle sue labbra.
«Mio
fratello deve aver fatto la spesa, andiamo a vedere in
cucina». Mi prese per
mano, e cominciammo un’altra giornata nello stesso modo di
tutte le altre
giornate: insieme ma tristi, insieme ma stanchi. Insieme. Stanchi.
Vuoti. In attesa.
Non
avevo chiesto a Seth di venirmi a prendere a scuola per ovvi motivi, ma
quello
stronzo che mi ero scopata nel bagno mi aveva fatto davvero male e io
avevo
solo voglia di arrivare il prima possibile a casa e buttarmi fra le
lenzuola
del suo letto. Camminavo a stento,
quindi
decisi di prendere la metro, invece di farmi tutta la strada fino a
casa del
fratello di Seth a piedi. Avrei speso un po’ dei soldi appena
guadagnati per il
biglietto, ma andava bene così. Quando scesi le scale
mobili, però, mi bloccai,
perché in lontananza vidi Seth. E sapevo che era lui,
perché quella era la sua
felpa, quelle le sue braccia, quelle le sue spalle. Lentamente
mi avvicinai, cercando di non farmi
vedere perché stava discutendo animatamente con un tizio che
non aveva un’aria
familiare. Almeno per me, dato che Seth continuava a chiamarlo
“amico”, anche
se non sembrava per niente in amicizia. Il ragazzo, piuttosto, aveva
un’aria
incazzata.
«Lo
so che ti devo dei soldi, ma ne ho davvero bisogno».
«Niente
grana, niente roba, mi dispiace».
«Ti
pagherò presto, ho trovato un lavoro», disse Seth
sbattendo le ciglia.
«Davvero?»,
chiese il ragazzo, che non sapeva se credergli o no.
«Davvero».
Dopo qualche istante il tizio estrasse una cartina dalla tasca e la
consegnò a
Seth, che gli diede un abbraccio per nulla affettuoso con un sorriso,
prima che
l’altro se ne andasse. Senza droga e senza soldi.
Mi
avvicinai ancora, fermandomi a qualche passo di distanza da lui,
aspettando che
si accorgesse di me. Vidi invece che prendeva la pasticca dal piccolo
sacchetto
di plastica e se la metteva sulla lingua.
«Hei»,
dissi spingendo le mani tremanti in tasca, per evitare che le vedesse.
«Evie?
Che ci fai qui?», domandò subito, avvicinandomi a
sé e cingendomi la vita con
le braccia.
«Torno
a casa».
«In
metro?». Scrollai le spalle, incapace di guardarlo negli
occhi. Stavo soffrendo
troppo e se mi avesse guardato negli occhi se ne sarebbe reso contro. O
forse
no, con quell’acido in corpo. Lo sentii sospirare.
«Hai visto, vero?».
Annuii.
Avevo visto eccome. Mi alzò il viso con una mano,
disegnandomi dei cerchi con
il pollice sul mento. «Mi dispiace».
«Sì,
ti credo», dissi con tono di arresa guardandolo negli occhi
per poi allontanandomi
da lui, trattenendo le lacrime per il dolore. E non solo il dolore
fisico, ma
quello che lui mi stava facendo provare.
«Dove
vai?», chiese fermandomi per un braccio.
«A
casa,vado a casa».
«Perché
sei incazzata adesso?».
Mi
girai verso di lui e lo guardai dritto negli occhi, i miei ormai
lucidi. «Sono
incazzate perché non capisco il motivo di
quell’acido. Capisco quando lo
facciamo per divertirci insieme, quando vogliamo staccare la spina un
po’, ma
ora? Ora che senso ha Seth? Sei così infelice?».
Avrei tanto voluto chiedergli
se era infelice con me, ma mi morsi la lingua per ammutolirmi. Se ne
rimase
zitto. Mi divincolai sentendo il rumore dell’arrivo della
metro e salii,
incurante di Seth e dei suoi casini. Ovviamente salì anche
lui, sedendosi nel sedile
affianco a me. Io continuavo a guardare fuori dal finestrino i muri
scuri
sfrecciarmi affianco e lui continuava a starsene zitto e a guardarmi
ogni
tanto, per assicurarsi che non stessi piangendo.
Scendemmo
alla fermata vicino casa e non mi voltai a guardarlo finché
non chiuse la porta
alle nostre spalle, sbattendola forte. Ormai l’acido stava
facendo effetto, e
io sapevo benissimo che in quel momento lui era nel sul paradiso
personale, a
vederci draghi parlanti o chissà cosa. Lo accompagnai al
divano e feci per
andarmene quando lui mi fermò mettendomi una mano sul
sedere. «Rimani qui, dai»,
biascicò lentamente, a fatica.
Mi
defilai e mi chiusi in bagno perché il dolore stava
diventando insopportabile e
io non sapevo come farlo andare via. Mi feci una doccia, indossai
biancheria
pulita e mi distesi a letto, le cosce strette per contenere il dolore,
gli
occhi chiusi per contenere le lacrime che da lì a poco
sarebbero scese.
Mi
svegliai, un tempo indefinito dopo, sentendo qualcosa cadere
nell’altra stanza,
quella in cui c’era Seth strafatto. Raggiunsi la stanza e lo
vidi immobile a
guardare il pavimento, un bicchiere di vetro rotto ai suoi piedi. Mi
avvicinai
a lui, abbassandomi per raccoglierlo, ignorando il suo stato di trance,
ma un
pezzo di vetro mi si conficcò sulla mano, facendomi
imprecare. Mentre sciacquavo
la mano sanguinante sotto il lavandino, sentii le mani di Seth
appoggiarsi sui
miei fianchi, la sua bocca baciarmi il collo.
«Non
ora Seth», protestai.
«Mi
puoi dire che cazzo hai oggi?» fu la sua risposta irritata.
Mi
girai verso di lui, i volti a pochi centimetri di distanza.
«Vuoi davvero
sapere cos’ho, Seth? Hai dei debiti per la droga e non mi
è ancora chiaro se
sia una cifra alta e per quale cazzo di motivo ti droghi. Ho un
maledettissimo
pezzo di vetro in una mano perché tu non sai nemmeno
impugnare un bicchiere, e
ciliegina sulla torta, potrei avere una fottuta malattia
venerea!», sbottai,
esausta.
I
suoi occhi mi guardavano inespressivi, come se il suo cervello stesse
metabolizzando quello che avevo appena detto. Era così
infatti, e lo sapevo
bene, ma in quel momento ero troppo arrabbiata per pensarci.
«Vaffanculo».
Che
fosse stata un’idea sbagliata, mandarlo a fanculo, lo scoprii
pochi istanti
dopo, quando lo sentii entrare nella camera da letto in cui mi ero
rifugiata di
nuovo. «Lasciami in pace, ti prego lasciami in
pace», dissi esausta.
Ma
lui si avvicinò e mi strinse il viso con forza con le sue
mani. Mi fece male,
ma tacqui, continuando a guardarlo sperando ritrovasse la ragione.
«Vedi che
cosa significa fare la puttana? Ti ho sempre detto di smettere di
farlo, Evie!»
«Mi
stai facendo male», sussurrai.
«Bene,
te lo meriti». Fece scontrare le sue labbra con le mie, e mi
morse un labbro
facendomi gemere. Inserì la lingua nella mia bocca, e mi
baciò con prepotenza,
continuando a premere con le mani sulla mia mascella. Faceva un male
cane,
quindi appena ci riuscii, fui io a mordergli il labbro e ridurglielo in
sangue.
Si staccò immediatamente da me, e io riuscii ad alzarmi e ad
allontanarmi da
lui.
Sapevo
bene che prima o poi sarebbe tornato abbastanza cosciente da chiedere
scusa, ma
ora, nei suoi occhi, non vedevo nient’altro se non la rabbia,
la delusione e la
follia. Sapevo bene che era la droga, a fare quell’effetto,
ma io ero troppo
stanca per combattere, troppo stanca per ragionare, troppo spaventata
per non
fare qualsiasi cosa se non urlargli contro. «Devi smetterla
cazzo! Sto male
okay? Non so che cosa mi sono presa ma mi fa male. Ho preso la metro
perché avrei
fatto prima e perché camminare mi uccideva,
perché sapevo che a casa ci saresti
stato tu pronto ad abbracciarmi o portarmi da un medico. E invece con
che cosa
mi ritrovo, eh? Con una brutta copia di Seth fatto, aggressivo e che
non vede l’ora
di scoparmi. Vaffanculo, vai davvero a farti fottere e cercati
un’altra persona
con cui fare i tuoi giochetti da schizzato di mente, perché
io mi sono rotta». Avevo
le lacrime agli occhi come ogni volta che litigavamo, ma presi la sua
felpa
abbandonata ai piedi del letto e mi incamminai verso la porta. Volevo
scappare
da lui, da quella merda. Volevo scappare da me, soprattutto. Con la
mano sulla
maniglia lo sentii dietro di me. Sussurrò un debole
«scusa» e mi attirò a sé,
cingendomi la vita con le braccia. Mi appoggiai contro di lui, le
lacrime che
scendevano mentre fissavo la porta da cui volevo ancora fuggire per non
tornare
mai più. Ma non sapevo dove andare, non avrei saputo dove
andare, perché tutto
attorno a me era malato, era sbagliato, mi faceva soffrire e io ero
solo una
ragazzina di diciassette anni che era dovuta crescere troppo in fretta
per
cercare di sopravvivere. Cercare, perché dai risultati non
ci stava riuscendo.
«Mi
dispiace Evie», disse Seth al mio orecchio. «Con
quella roba non mi controllo,
lo sai». Non riuscii a rispondere, feci sono un movimento del
capo dettato
soprattutto dal singhiozzo che non ero riuscita a trattenere fra le
labbra. Mi fece
girare, ora lo guardavo negli occhi. «Scusami».
Sapevo
che l’avrei perdonato, in quel momento e altre mille volte.
Lo sapevo, era
scritto nel mio dna che avrei amato quel ragazzo per tutta la mia vita,
nonostante le nostre vite desolate, il male che ci facevamo, la droga,
le
botte. Sapevo che anche lui mi amava, e non so come, ma me lo facevo
bastare
sempre. Gli posai una mano sulla guancia. «Vai a dormire un
po’, poi andiamo
dal medico».
«Mi
spiace averti chiamata puttana». Mi strinsi nelle spalle e
lui appoggiò la
fronte alla mia. «Sono innamorato di te, Evie e questo
neanche la droga può
farmelo dimenticare».
Avrei
tanto voluto dirgli che l’aveva dimenticato, quando mi aveva
chiamato puttana, perché
io mi ero sentita morire dentro, come tutte le altre volte che
l’aveva fatto,
ma annuii e lo baciai sulle labbra per scacciare quella voglia di
scappare
dalla mia mente che stava urlando, stava urlando di andarmene via da
quella
vita, ma io rimanevo incollata a terra, spinta verso al suolo da tutti
il
fardello che portavo sulle spalle. Niente tregua per me, Evie
Mcdonnell, mai.
Coff
coff.
Io
vi avevo avvisati che non sarei riuscita
a staccarmi da Evie e Seth molto presto, e infatti ecco qui. Questo
è un
missing moment di quegli anni di cui vi ho parlato molto velocemente
nell’epilogo,
quegli anni in cui hanno vissuto insieme e si sono fatti del male. Ho
intenzione di scrivere più di un episodio, quindi questo
è solo il primo. Spero
la cosa vi faccia piacere, perché a me scrivere di loro
piace così tanto che
non so se riuscirò mai a smettere.
Fatemi
sapere che cosa ne pensate, anche se dubito che qualcuno
leggerà questa cosa
malsana.
Deborah.
Ps:
non rovinatevi l’idea di Seth e dell’amore che
prova per Evie, imparerete solo
a conoscerlo meglio, anche quando lui da del suo peggio.