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Autore: Melisandre    13/10/2007    2 recensioni

Cosa diamine ci faceva un’anima bianca in mezzo a loro e perché doveva portarla in giro per l’inferno?
«Ti starai chiedendo cosa faccio qui, vero?»
«In tutta onestà? Sì! Davvero non mi spiego, non capisco… Cosa ci fai qui? E perché mai ti dovrei portare dove la tua aurea mi dice?»
Genere: Drammatico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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   Ricordi di un passato




Il legno si immergeva lentamente nel nero liquido melmoso, con un ritmo cadenzato entrava e usciva dall’acqua generando piccole onde che si infrangevano, appesantite,contro la piccola imbarcazione.
Nel silenzio opprimente Cornell sentiva solo il suo respiro, ed il suono dell’acqua che scivolava lungo il remo.

Il vapore che saliva dall’acqua era qualcosa a cui il suo corpo non si sarebbe mai abituato; quel calore asfissiante, potenziato dal tanfo della putrefazione di chissà quale bestia scaraventata nel fiume, era decisamente insopportabile.

Il carico previsto per il tragitto di quella mattinata era fortunatamente scarso, ma il suo desiderio di finire in fretta contrastava con la pigrizia nei suoi movimenti.

Si passò un braccio sulla fronte, per asciugare il sudore che il calore gli aveva procurato; non sopportava che l’ampio cappuccio nero gli si attaccasse alla pelle e ancora meno sopportava di sentire le corte ciocche dei capelli appiccicarsi al viso.

Un lungo bracciale metallico, del colore dell’acciaio, gli avvolgeva l’arto con numerosi cerchi concentrici, peggiorando la sensazione di calore che lo faceva annaspare.

Sbuffò, compiendo ancora il gesto meccanico di infrangere il remo sull’acqua torbida e nauseante, poi, all’improvviso, sentì un battito d’ali e qualcosa appoggiarsi alla sua spalla.

«Allora, come va il lavoro, Cornell? Anche questa mattina vai al molo, eh?»
Il corvo nero agitava le sue ali, mentre gracchiava queste parole.

«Smettila di agitarti Smoke, non vedo niente!»
«Il tuo avo era una persona mille volte più a modo di te. Ah, come vorrei che fosse ancora qui con noi…»
«Lo vorrei anche io, che credi? Lui è “passato a miglior vita”, mentre io mi ritrovo costretto a portare avanti questo insulso lavoro».

Il corvo beccò, senza troppa forza, la spalla di Cornell, ed incrociò lo sguardo perplesso e infastidito dell’uomo.

«Insulso lavoro?! Non sai minimamente quanto sei stupido! Il tuo lavoro è necessario e fondamentale, hai idea di quante vite dipendano da te e dal tuo insulso lavoro?»

«A volte vorrei non saperlo», biascicò Cornell, ma Smoke fece finta di non sentirlo.
«Fai il tuo lavoro come si deve e andrà tutto liscio, Cornell, ma se sgarri, sai da solo in che casino rischi di infilarti».

Cornell accennò un assenso col capo, messaggio recepito.

Smoke non aggiunse altro e si dileguò, come era arrivato, senza salutare.

In fondo quel lavoro non era un granché: Cornell caricava quanto doveva e consegnava nei vari punti di smistamento lungo il fiume.
Ormai un semplice colpo d’occhio era più che sufficiente per capire quando fermarsi e far scaricare il carico.
Era più che altro lavoro di braccia e di pazienza: sopportare la puzza e il caldo era di certo la parte peggiore.

Avvistò il molo e con esso la possibilità di una prima sosta.
Venti, erano solo venti quella mattina, un lavoro da poco.

Si avvicinò alla costa e lanciò la corda verso la riva, ad un individuo di mezz’età, pelato, un po’ soprappeso e con una barbetta grigia che gli dava un’aria simpatica.

«Buona giornata Cornell», disse mentre tirava la barca verso di sè e la legava ad un rigido palo.
«Oggi lavorerai  poco, sei contento?»
Gli porse una mano per aiutarlo a scendere dalla barca dondolante.
Cornell si meravigliava sempre di sentire la morbidezza delle mani di Gustav.
Erano mani lisce come quelle dei bambini, non di certo mani di chi faceva attraccare le barche tirandole con la propria forza.

«Togliti quel cappuccio, lascia respirare la tua testa ogni tanto», disse Gustav tirandogli indietro il lembo di tessuto che copriva i capelli del ragazzo davanti a lui.

Il volto di Cornell non era ancora segnato dal tempo, i suoi capelli castani, lunghi alle spalle, erano tenuti raccolti in una coda e circondavano il viso di un adolescente che si era appena fatto uomo.
Si ripassò una mano sulla fronte, cacciando in dietro le ciocche fastidiose e ridando libertà ai suoi piccoli occhi castani che sembravano quasi due linee, nel volto dai lineamenti dolci e dal naso pronunciato.

«Solo venti oggi, Gustav? Che succede?»

Gustav scosse la testa.
«Cosa ne posso sapere io? Meglio così, per me, per te e per gli addetti allo smistamento. Ancora qualche minuto ed il mio lavoro è finito. E a dirla bene, non credo che tu ne possa avere per più di un’ora».

Anche Cornell la pensava così. Giornata fiacca, cosa poteva esserci di meglio?

Dritto di fronte a lui c’erano venti figure in piedi, ritte sotto ad un  gigantesco porticato vicino al molo.
Un’ informe macchia nera che non permetteva di distinguere i volti con un solo sguardo superficiale.
«Salite sulla barca», disse svogliatamente.

Gli sguardi vacui delle anime tremolanti fecero capire al ragazzo che anche quel giorno sarebbe andata come sempre.
Si incamminò verso il grande porticato, raggiungendole ed iniziando un veloce smistamento che lo avrebbe agevolato in seguito.

«Tu, tu, e anche tu», disse toccando delle anime, «la vedete quella barca? Sedetevi davanti. Voi cinque qui, seguiteli. Occupate bene tutti gli spazi, siete pochi oggi, ma è una questione di procedure».
Le anime non diedero alcun segno di aver capito, ma iniziarono a ciondolare in avanti e a muoversi verso la barca.

A pensare che anche lui un tempo era stato così, Cornell si sentì male.
«Voi due, oh sì, andate. Seguite pure gli altri, ma sedetevi una fila dietro. Poi, poi, poi… Voi tre in fondo, vi state nascondendo? Datevi una mossa e andate sulla barca».

«Ma come ci distingui?», chiese una vocina  femminile, delicata, dolce e infantile, ma non stridula. 
Cornell si girò e quello che vide fu inimmaginabile.
La ragazza che gli aveva parlato risplendeva di un bianco a cui gli occhi del traghettatore non erano abituati.

«G…Gustav? E questa?»
Ma Gustav se ne era già andato da chissà quanto.
La ragazza lo guardava perplessa ma sorridente.
Cosa diavolo era quella “cosa” così bianca, perché era li? Eppure si capiva dove avrebbe dovuto portarla, sembrava impossibile ma non poteva sbagliarsi.

«Vi distinguo da… da… Vi vedo e capisco, tutto qui, non mi distrarre».
Mandò tutte le anime restanti verso la barca, senza togliersi dalla testa come fare a gestire quella straordinaria presenza.
L’aura che emanava parlava chiaro, avrebbe dovuto portarla proprio nel posto peggiore immaginabile.
Per prima cosa non ci teneva a recarsi in quel posto terribile, mentre, oltretutto, non riusciva a spiegarsi cosa ci faceva un’anima bianca lì, sul molo.

S’ incamminò verso la barca, e la vide riadattarsi al numero di anime che stava traghettando.
L’aveva vista assumere dimensioni mastodontiche, ma quella volta non era molto più grande di quando trasportava solo lui.
Cercò di evitare lo sguardo della ragazza che lo segui e cercò di salire sull’ imbarcazione.
«No, tu… tu aspetta!»
Lei lo guardò stupita.
«Non so cosa fare con te! Non mi è mai capitato niente di simile…»
Smoke gli planò accanto con il suo fastidioso battito d’ali, lo guardò e disse
Cornell, portala dove devi.
«Ma Smoke, come…»
«Portala dove devi. Non c’è bisogno di aggiungere altro, fallo e basta».
Cornell alzò gli occhi e braccia al cielo e, rassegnatosi, disse «Ok, va bene, salga pure signorina, si accomodi».
L’ odioso corvo messaggero gracchiò una sottospecie di risata, poi se ne andò di nuovo.

Il traghettatore rialzò il suo cappuccio e riprese in mano i remi.
«Pronti per il viaggio?»
Le anime intorpidite non risposero, la ragazza evitò di farlo.

Il percorso lungo il fiume si svolse con la solita lentezza, i rami nel pesante liquame si muovevano faticosamente.
Sei moli furono avvicinati dall’ imbarcazione, sei moli videro anime nere ciondolargli sopra e dirigersi incoscienti verso il loro nuovo destino.
Diciannove vite conobbero le conseguenze del loro agire, mentre un’altra, ancora, sedeva trepidante sull’asse della barca.

Cornell spingeva i remi con forza, mentre gli occhi della ragazza lo fissavano.
Non si era mai sentito osservato fino a quel giorno, le anime che trasportava di solito non avevano abbastanza consapevolezza di quello che avevano intorno.
Quello sguardo lo turbava, non lo concepiva, lo inquietava.
«Mi chiamo Nell», disse l’anima bianca cercando di attirare l’attenzione del ragazzo.
Cornell si girò ed osservò, perplesso, la straordinaria creatura che stava trasportando; al primo sguardo non era che una ragazzina, bassa e magrolina, dall’aria un po’ emaciata.
Sorrideva serena, guardandolo con i suoi occhi grigi, che forse un tempo dovevano essere stati verdi.
«E tu? Avrai un nome, no?», si passò una mano dietro all’orecchio sinistro, per nascondere l’imbarazzo e per sistemarsi una ciocca dei corti capelli grigio chiaro, i quali ben poco avevano a che fare con il biondo colore del passato.
Il vapore bollente che proveniva dall’acqua le aveva reso i capelli più umidi e maggiormente aderenti al collo e anche alle spalle, sulle quali si adagiavano le punte.

«Cornell», rispose lui sbuffando. In che situazione si era messo?
Cosa diamine ci faceva un’anima bianca in mezzo a loro e perché doveva portarla in giro per l’inferno?
«Ti starai chiedendo cosa faccio qui, vero?»
«In tutta onestà? Sì! Davvero non mi spiego, non capisco… Cosa ci fai qui? E perché mai ti dovrei portare dove la tua aurea mi dice?»

Nell si chiuse in un lieve imbarazzo, ma poi rispose.
«Non ricordo molto di me, della mia vita terrena intendo, del come sono morta, o del perché. Quando le anime arrivano al paradiso…», disse interrompendosi subito.
Per un attimo ebbe il timore che Cornell si risentisse, poi, non vedendo alcuna reazione, continuò.
«Quando si arriva al paradiso, si vede una luce incredibile, tiepida, morbida e assuefacente. Il più grande desiderio che sorge è unirsi ad essa, diventare un tutt’uno con questa energia ineffabile.
Però io ho un peso che mi impedisce di raggiungere la luce in alto, un masso che mi trascina verso terra; qualcosa che mi lega al mio passato e che mi ostacola. Sono qui per togliere questo tormento, per risolvere questo problema. Desidero sopra ogni cosa arrivare alla luce. E’ come un ampio letto di nuvole luminose sotto il cielo stellato. E’ indescrivibile a parole».

«E cosa c’entra questo con i suicidi?», chiese rudemente Cornell.
Nell trasalì un istante, ora si trovava in un luogo così diverso da quello che stava tentando di descrivere. Questo era un posto cupo, sporco e asfissiante. Non aveva avuto il tatto necessario, e questo le dispiacque.

«Non lo so, io», disse cercando di superare il momento di difficoltà, «…Io devo trovare Corrigan! Credo lui sia lì, dove hai detto tu».
«Dai suicidi?»
Lei rispose con un secco movimento verticale del capo.
Cadde il silenzio tra i due e Cornell si accorse di essere stato rude. Sentirsi raccontare di quanto era bello, stupendo e meraviglioso il mondo lassù, non era per nulla piacevole. Non avrebbe visto quel posto prima di millenni, prima che tutti quei cerchi concentrici non fossero scomparsi dal suo braccio.
Vedere la ragazza incupirsi lo fece sentire in colpa.
Si spostò i capelli dalla fronte e tornò a parlare.

«Non ti ricordi molto, dicevi, ma ti ricordi di Corrigan, doveva essere importante per te».
Felice di sentire la voce del traghettatore, Nell rispose con entusiasmo.
«Sì, di lui mi ricordai quasi subito dopo aver ripreso coscienza, stavamo insieme, ero innamoratissima».
«Non credo che nella mia vita terrena mi sia successo di innamorarmi, no, non ho memoria di cose come “Amore mio”, baci e baci, carezze tenerezze e sono altrettanto certo di non aver mai detto “Ti amo!”».
«Io l’ho detto, è una bella sensazione, sai? Se ti ricapita un’altra vita, fallo!»
«Proverò, ma sai perché? Sono curioso di sapere… Cosa si sente quando qualcuno te lo dice?»
«Non lo so, Corrigan non me lo ha mai detto!».

«Ehm, beh!», rise Cornell sforzandosi di cambiare argomento, «Quindi mi toccherà fare il terzo incomodo».
Nell storse un po’ la bocca, «In realtà non lo so, perché non l’ho visto più, non so che fine abbia fatto prima che io morissi».
Cornell deglutì le sue parole, impedendo loro di uscire. Quale fine avesse fatto, dopotutto, era più che immaginabile.
A mano a mano che si avvicinarono alla zona dove avrebbe dovuto trovarsi il molo dei suicidi, la temperatura diminuì drasticamente.
Sembrò ad entrambi che l’acqua emanasse un odore ancora peggiore, che aumentava all’avvicinarsi del molo.
Nell si tappò il naso, mentre Cornell si ricordò perché non gli piacesse passare da quelle parti.
Cornell iniziò ad avvicinare la barca alla riva, remando nella direzione del piccolo molo da cui sporgevano, ai lati, due individui alti e taurini, fermi, ritti e impassibili, con i loro sguardi risoluti.
Sperava ogni giorno di evitare quel molo, si sentiva a disagio, non voleva interagire con quelle figure inquietanti. 
Non capitava spesso ma quando succedeva, sentiva la schiena bruciargli dal freddo e un lieve tremore impossessarsi di lui, proprio come gli accadde in quel momento.
Si voltò verso Nell, col timore di vederla reagire con lo stesso suo terrore.
Nell, invece, osservava la situazione con tranquillità e fermezza, senza accennare un tentennamento.

Il ragazzo lanciò l’altro capo della corda, senza aspettarsi un saluto o una battuta che lo risollevasse da quella sensazione di gelo. I due uomini  la afferrarono, trasformandola, nelle loro gigantesche mani, in un minuscolo filo da cucito.
«Scendi con me? Ti prego…», chiese Nell, guardando Cornell con uno sguardo intensamente supplice.

Cornell non aveva mai messo piede in quella landa cupa e ne era stato davvero felice, fino a quel momento. Voglia di scoprire come diventasse quella zona addentrandosi in essa, non ne aveva mai avuta e non ne aveva neppure ora. Ma Nell lo guardava con occhi puri e  imploranti e dentro di sè non trovava la forza di risponderle negativamente.
«E sia! Ormai sono curioso di vederlo questo Corrigan che ti ha spinto fino a qui. E poi, rimanere ad aspettarti, con questi due mostri così rassicuranti, non mi convince molto».
Nell sorrise dolcemente  e avvicinò i palmi delle mani, compiendo due piccoli e silenziosi applausi di felicità.

Quando la corda fu legata e la barca tirata fino al molo, Cornell appoggiò il piede a terra e si guardò attorno, tramortito dal tetro grigiore di quell’area.
Scheletrici alberi rinsecchiti si alzavano verso il suolo, circondando una pozza di magma nella quale si stagliavano infinite croci di metallo.
Appese ad ogni croce si riuscivano a riconoscere diverse anime, da quelle nuove, ancora intontite dal passaggio a questo mondo, a quelle vecchie, ormai canute e dagli occhi infossati e rossi.
Le tremende urla si intrecciavano tra di loro, in un incomprensibile inno alla sofferenza.
Il traghettatore preferì distogliere il suo sguardo; si voltò verso la piccola imbarcazione e aiutò Nell a scendere.

La ragazza osservò la scena che le si presentò davanti con fermezza d’animo, cercando con lo sguardo il suo unico e vero interesse.

«Riesci ad individuarlo?», le chiese Cornell. Lei fece cenno di sì con la testa e con l’indice puntò verso il lato destro dell’acquitrino paludoso.
Si incamminò come rapita da quella croce urlante, mentre Cornell la seguiva lentamente, rispettoso dell’ atmosfera solenne che li aveva avvolti.

Le acute urla di dolore iniziarono a prendere forma e a diventare comprensibili; nomi di persone di diverse nazionalità venivano gridati dalle anime tormentate, con imploranti richieste di “non farlo”, tra strazianti preghiere.
Nell smise di camminare, alzò lo sguardo verso la croce di fronte a lei.
«Corrigan…», sussurrò.

L’anima spalancò gli occhi emettendo un grido profondo e lacerante.
Nell si coprì le orecchie con le mani, stringendo gli occhi; non soffriva per il suono devastante, non era poi molto più fastidioso della confusione che generavano le urla degli altri dannati, ma per lo sguardo alienato in modo sovrannaturale che la feriva, al ricordo di ciò che Corrigan era stato.

Il suo urlo zittì tutte le altre anime e lui potè girarsi, con i suoi occhi colmi di lacrime.
«Nell, Nell, ti prego tu no! Perché sei qui?», gli occhi di Corrigan vagarono avanti e indietro cercando una risposta sul viso della ragazza o del traghettatore.

Cornell si allontanò leggermente, lasciando Nell e Corrigan da soli.
«Sono qui, per te.»
«Per me? »
«Ti sei suicidato, Corrigan, perché?»
La croce vibrò e l’anima con essa, mentre gli occhi si rivoltavano verso l’alto per poi ricadere inespressivi.
«Perché ti sei suicidato, dimmelo ti prego.»
«Io non ho fatto proprio nulla», disse prima di spalancare occhi e bocca in un boato di dolore.
«NO Mamma no, ti prego non farlo, non ucciderti, NO!»
Lacrime gli scendevano a fiotti, mentre cercava di divincolarsi dalle strette catene che lo legavano alla croce.
Nell guardò Cornell che le spiegò «E’ la loro pena, assistono al suicidio delle persone che amano, per l’eternità soffrono quello che hanno fatto passare a chi è loro sopravvissuto. E’ la condanna per l’egoismo e l’insensibilità che hanno avuto verso chi li amava.
Non esiste pena peggiore in tutto l’inferno, la sofferenza di queste anime è leggendaria. Non credevo che vedere dal vivo potesse essere ancora peggio di quello che si racconta.»

Nell accarezzò la gamba di Corrigan con la sua guancia e l’abbracciò.
«Perché Corrigan?»
«Non ce la facevo più Nell», disse lui in un attimo di lucidità.
«Tu, tu non ti risvegliavi più, eri immobile, insensibile. Io ti parlavo ma tu non potevi rispondermi, io ti amavo ma tu non potevi amarmi e quelle macchine… non ce l’ho fatta più! La mia famiglia se ne fregava, era come se si fossero dimenticati di te, come se tu non esistessi più.
Non potevo che odiarli per la loro incuranza verso di te, verso di noi, e il terribile senso di impotenza mi ha …»
La croce riprese a vibrare, e Nell abbassò il suo sguardo.
Le grida folli delle altre anime ripresero a rimbombare attorno a loro, tormentando le orecchie di Cornell.
«Il mio tempo sta scadendo, Cornell… ti prego, riportami indietro».

Il traghettatore acconsentì e le prese dolcemente la mano, guidandola verso il modo, mentre lei indugiava con lo sguardo ancora su Corrigan.
Le sembrò la sua immaginazione, ma per un attimo le parve che lui la guardasse ancora e che mormorasse un dolce addio.
Nell sorrise mestamente, poi si voltò e seguì la sua guida fino alla barca.

Cornell remava silenziosamente, non sapeva cosa dirle ed era imbarazzato.
Ci pensò Nell a rompere il silenzio.
«Sono morta da poco anche io. Ero in coma. E’ una delle poche altre cose che ricordo. So che Corrigan mi vegliava, ma poi non è venuto più.
Deve essere trascorso un anno da quando sono morta, e le mie preghiere devono essere state accolte se oggi sono potuta venire qui. Volevo solo… capire sai? Capire perché Corrigan mi aveva abbandonato quando più avevo bisogno di lui, non volevo credere che avesse smesso di pensarmi.
Grazie Cornell, per avermi portato da lui».
«Figurati…», disse Cornell sorridendo Spero che ora tu possa finalmente separarti dal tuo passato e ricominciare».
«Mi ha detto che mi ama», rispose la ragazza.
«Non lo aveva mai detto».

Arrivarono al molo principale quando ormai la debole luce del giorno iniziava a sbiadire.
Cornell aiutò l’anima bianca a scendere dalla barca, per l’ultima volta.
«Ma come sei arrivata qui?»
«Si è creata una porta dritto davanti a me e, aprendola, sono arrivata laggiù.»
Indicò una parete, un rosso costone e proprio in quel momento la porta iniziò a riformarsi, come una veloce incisione.
«Eccola! La vedi Cornell?»
Il traghettatore guardò di fronte a sè.
«Non c’è niente, Nell.»

Intuì che non gli era concesso di vederla, lui che era marchiato dalla maledizione della tracotanza della profanazione che lo aveva reso eterno psicopompo, non si sarebbe interrotta prima dei millenni che avevano concesso a Caronte la libertà.
«Mi spiace Cornell.»
«No, non ti preoccupare Nell, non ci speravo più di tanto, anzi, non ci speravo per nulla!» 
Finse una risata, ma Nell se ne accorse.
«Grazie ancora, davvero», disse lei prima di impugnare la maniglia.
«Beh, metti una buona parola per me, chissà, magari anche io un giorno vedrò quella porta.»
«Te lo auguro Cornell».
La ragazza aprì la porta e sparì dall’altro lato, prima che i contorni della stessa scomparissero.
Cornell rimase a osservare la porta che non poteva vedere, poi tornò sui suoi passi.

Giornata fiacca?
Questa volta rise di gusto, perché tutto si poteva dire di quella giornata  ma non che fosse stata fiacca, non si era mai sentito così stanco da quando aveva iniziato il suo lavoro.
Riprese a remare, nel fiume melmoso, tornando verso la sua dimora, senza riuscire a liberare i suoi pensieri dal ricordo degli ultimi eventi.

Il suo non era un lavoro inutile, per davvero, e quella giornata glielo aveva dimostrato.
Si accorse che il lungo bracciale aveva perso un cerchio e fu certo che il perché non lo avrebbe mai dimenticato.

  
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