Come
pensavo di fare già da un
pò, ecco che vi ripropongo quella che è la mia
storia preferita,
ho già i capitoli pronti e per farla ho impiegato tempo,
costanza e passione.
In questo racconto
ho davvero messo tutta me stessa. Qualcuno la conoscerà
già, ma sarei felice
che la commentaste,
che mi deste dei pareri personali e, se avete da farle, anche delle
critiche.
Un abbraccio,
Amelie.
Nothing is harder than to
wake up all alone.
Prologue.
Si
alzò dalla sedia circospetta, guardandosi le unghie appena
smaltate
di rosa pallido e si diede una scrollata ai lunghi capelli azzurri. Non
era mai
stata eccessivamente vistosa fino a qualche anno prima, quando aveva
realizzato
di essere una ragazza discretamente carina. Occhi grigi come le nuvole
prima
del temporale, lunghe e folte ciglia, un leggero nasino
all’insù e delle labbra
che si suddividevano in due perfette metà, la parte
più alta era sottile e
marcata, mentre la seconda era leggermente più carnosa.
Spostò lo sguardo sugli
scatoloni appena aperti e si limitò ad alzare leggermente le
spalle. Non le
andava di preparare la sua nuova stanza in un momento come quello,
addosso
aveva ancora quel senso di avventura e scoperta che prende qualsiasi
persona in
un posto nuovo. Le pareti color verde acqua della stanza erano
completamente
fuori dal suo stile, preferiva i colori caldi a quelli freddi, e in
questo caso
avrebbe dato una ripassata di colore, se la signora che le affittava la
casa
era d’accordo. Camminò lungo il corridoio
sbatacchiando sui talloni le ciabatte
di gomma e andò nel salotto non troppo grande. Aveva un
ragionevole senso
estetico in quel momento e, si rese conto, quella casa era
completamente da
riarredare. Orribili gingilli stavano in ogni dove e la situazione non
era
delle migliori, dato che il suo senso critico spiccava molto spesso in
quel
periodo.
«Ricordati
che sei venuta qua perché lo volevi»
si disse sottovoce, mentre si sedeva sul divano sfondato. Una
gigantesca folata
di polvere salì dal sofà e la ragazza si
ritrovò a tossire sonoramente,
sventolando una mano dalle lunghe dita davanti alla propria faccia.
«Ma che cazzo..» si sollevò in piedi,
tossendo ancora, e dopo aver arraffato le
chiavi di casa spalancò la porta.
Davanti a lei un ragazzo dalla faccia estremamente scazzata stava per
premere
il campanello che si trovava alla sua destra. Lei lo guardò
per qualche
secondo, gli occhi socchiusi e la bocca leggermente aperta.
«Cosa cavolo vuoi?» non era stata propriamente
gentile, ma non poteva
aspettarsi altro il tizio che si trovava di fronte. La ragazza dai
capelli
azzurri si era infatti scordata le buone maniere tipiche degli
americani, che
normalmente vanno a fare conoscenza con i loro vicini. Diede una rapida
occhiata al viso del ragazzo davanti a lei.
Viso lungo.
Capelli scuri molto particolari.
Occhi chiari, dannatamente chiari.
Labbra come le sue e un’altezza invidiabile.
«Tu saresti?» lo squadrò dalla punta dei
piedi all’ultimo ciuffo sparato in
aria dei capelli.
«Il tuo vicino di casa» biascicò
l’altro, alzando le spalle.
«Eh… certo…» non sapeva cosa
dire, cosa si faceva in questi casi?
«Senti, visto che non avevo nessuna voglia di venire fin qui
per conoscere una
nuova arrivata, ti saluto. I miei sono stati talmente gentili da
volerti dare
questo» posò sullo zerbino d’entrata un
cesto con del cibo e si voltò per
andarsene. In un impeto di gentilezza l’altra chiuse
velocemente la porta di
casa e lo raggiunse lungo il marciapiede.
«Scusami» disse lei, mentre un leggero venticello
le scompigliava la canotta
bianca con una stampa in bianco e nero di una città, portava
dei pantaloncini
color kaki e ai piedi aveva ancora le ciabatte che teneva in casa
«merda»
sospirò, non appena se ne accorse. Voltò lo
sguardo verso il ragazzo e lo vide
sorridere.
«Sei assurda» disse, semplicemente.
«Mi conosci da tre minuti e mi dici già che sono
assurda?» alzò un sopracciglio,
inarcandolo.
«Pensala come ti pare» il giovane ragazzo fece
spallucce e proseguì la sua
strada «Ma come ti ripeto, non volevo venire a
conoscerti»
Lei si bloccò sul marciapiede, incrociando le braccia al
petto «Ma guarda te
questo americano» sbuffò.
«Questo americano?» il ragazzo, che stava qualche
metro avanti a lei, si voltò «Perché,
tu non lo sei?»
«Ti sembra che abbia un accento americano?»
alzò le braccia al cielo.
«No»
Questo tizio le stava dando ai nervi, ma chi diavolo si credeva di
essere?
Roteò gli occhi, in cerca di una qualche battutaccia
illuminante ma nulla di
tutto questo fece capolino nella sua mente. Si limitò a
sbattere il piede per
terra, prima di voltarsi e riavviarsi verso casa.
«Come ti chiami, americana?» le domandò
lui, sogghignando.
«Effie» sbuffò lei, senza voltarsi
«E non sono americana, sono canadese!»
«Bene.. Effie» e il ragazzo si mise a ridere per il
nome della ragazza che,
nonostante tutto, le si addiceva «Io sono James»
Si voltò e si incamminò per la strada, mentre lei
ripercorreva il vialetto di
casa e apriva la porta, afferrando il cesto con il cibo e sbuffando
leggermente, prima di chiudersi il mondo esterno alle spalle.