Crossover
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Autore: Euphemia    30/03/2013    4 recensioni
Una classe, un viaggio, un’isola, il nulla.
Il Preside di una rinomata scuola organizza un viaggio per la 1-C; un’escursione di una settimana su un’isola paradisiaca. Gli studenti sono entusiasti e, insieme a quattro docenti, cominciano il loro viaggio. Appena arrivati, gli abitanti dell’isola, chiamata Shirobara, li accolgono calorosamente, con cibo e fiori. Insomma, una tranquilla e rilassante vacanza.
Ma a Kouichi Sakakibara, uno degli studenti, non tutto sembra quadrare chiaro:
Perché il Preside ha organizzato questo viaggio, senza alcun valido scopo?
Di certo, i poveri studenti, felici e allegri per questo fantastico viaggio, non sanno cosa gli attende.
La 1-C è in un grave pericolo...
Crossover tra:
-Another
-Mirai Nikki
-Durarara!!
-Blue Exorcist
-Magi The Labyrinth of Magic
-Pandora Hearts
-Death Note
-Puella Magi Madoka Magica
-Toradora!
Genere: Angst, Horror, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Anime/Manga
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Oh, che bello,
siete un dono
PER ME.
Gli altri se ne vanno,
eppure voi restate.
Sono sicura che saremo
ottimi amici.
Ma cosa vedo?
Ecco il primo...
Vieni da me, mio piccolo
TESORINO...”
 

Era l’alba: nel cielo rosato dalla dea Aurora si potevano ancora vedere delle stelle, mentre da lontano delle nuvole grigiastre e cariche di pioggia si avvicinavano sempre più all’isola.
In lontananza si potevano già udire  dei tuoni, mentre dei fulmini precipitavano sul mare, che già cominciava a incresparsi.
Improvvisamente, dopo qualche ora, ci fu un tuono talmente forte che si sentì fino all’albergo in tutta la sua violenza.
Kouichi aprì gli occhi con uno scatto, e sussultò.
Si guardò attorno: sebbene la stanza fosse buia, poteva distinguere nel letto accanto la sagoma di Naoya, e sentì che russava rumorosamente.
Alzò lo sguardo, dirigendolo verso il letto sopra quello di Teshigawara: lì giaceva Yuuya, voltato verso la parete, e con il respiro leggero, a differenza di quello di Naoya. Poi spostò lo sguardio a ciò che aveva davanti a sé, o meglio, sopra di sé: non poteva vedere Takara dormire nel letto sopra il suo, ma riusciva a sentire il suo respiro.
Kouichi sospirò, e guardò l’orologio fosforescente: erano le sette e trenta.
La sera prima, a cena, i professori avevano detto che si sarebbero tutti dovuti incontrare nell’atrio dell’albergo alle nove, per cominciare la visita dell’isola.
Prima di quell’orario gli studenti avrebbero potuto fare colazione o riposare, ma avrebbero comunque dovuto essere puntuali.
Kouichi sospirò nuovamente, e pensò di fare uno squillo a suo padre, giusto per dargli il buongiorno. Così affondò una mano sotto il cuscino, e tirò fuori il suo cellulare. Compose velocemente il numero del padre, e accostò l’apparecchio all’orecchio: dopo qualche secondo di silenzio, sentì la voce della segreteria telefonica che lo avvertiva che “il numero selezionato era irraggiungibile”. Allontanò il cellulare dall’orecchio, lo pose di fronte al viso, e guardò lo schermo: zero tacche.
“Dannazione...” sussurrò il castano, riponendo nuovamente il cellulare sotto il cuscino, mentre sentì qualcuno sbadigliare.
“Sakaki...” fece una voce d’oltretomba, e il ragazzo si voltò: Naoya lo fissava con occhi assonnato, e sbadigliava continuamente.
“Scusa... Ti ho svegliato?” disse Kouichi, e il ragazzo fece segno di no con la testa.
“No, no, tranquillo. Piuttosto, che ore sono?”
“Le sette e trentacinque... Dovremmo alzarci e svegliare gli altri.”
“Noooo... No, Sakaki, ti scongiuro... Voglio dormire! Abbiamo ancora tempo!”
“Naoya, sai benissimo che non è vero: abbiamo solo un’ora e mezza per vestirci e fare colazione, e c’è solo un bagno!”
“Uffa... Allora pensaci tu a svegliare gli altri...”
Teshigawara mise la testa sotto il cuscino, ma improvvisamente qualcuno dall’alto afferrò il cuscino e lo tolse da sopra la sua testa: il ragazzo alzò lo sguardo, e vide Yuuya che, guardandolo dall’alto, gli sorrideva.
“Yuuyaaaa...”
“Alzati, pigrone, non vorrai mica arrivare in ritardo!”
“Ma che me ne frega...”
Kouichi sorrise, e, togliendosi le coperte di dosso, si alzò e si diresse verso la finestra. Aprì le tende, e osservò il cielo ingrigito.
“Forse è per questo che il cellulare non prende...” sussurrò, e poi si voltò verso l’interno della camera: notò che Takara si era svegliato, e si stropicciava gli occhi.
“Ciao, Takara-kun.” Disse il castano sorridente, e il ventriloquo si limitò solo a salutarlo con la mano.
Intanto Yuuya prendeva a cuscinate Naoya, ridendo e tentando di convincere l’amico ad alzarsi, mentre la “vittima” del ragazzo tentava invano di difendersi dai suoi colpi.
Kouichi tornò a sedersi sul letto, mentre Takara scese dalla scaletta e, prendendo i suoi vestiti, si chiuse in bagno. Il castano afferrò il cellulare, e lo fissò: ancora zero tacche. Non se ne curò molto, e  subito pensò che avrebbe chiamato suo padre più tardi, non appena avrebbe trovato campo.
 

Erano le nove e un quarto: nell’atrio dell’albergo vi erano tutti gli studenti, e si poteva udire un mormorio sempre più crescente. Accanto al gruppo la professoressa Kirigakure guardava gli alunni e poi a scatti si voltava, guardandosi attorno: sebbene cercasse di nascondere le sue emozioni, sembrava preoccupata e inquieta, e anche i ragazzi stavano cominciando ad allarmarsi.
“Che sta succedendo?” domandava in giro una ragazza dai lunghi capelli biondi e dagli occhi rosa confetto stropicciandosi un occhio.
La ragazza indossava un adorabile vestitino color crema con dei merletti bianchi alle maniche e al colletto, e uno scaldacuore color panna. Ai piedi portava delle ballerine color vaniglia e delle calze bianche che arrivavano fino a metà polpaccio.
Si aggirava tra i compagni cercando di capire cosa stesse succedendo, ma improvvisamente una mano da dietro l’afferrò, tirandola per il colletto.
“Ahi!” fece la ragazza voltandosi.
“Smettila di andare in giro così, è qualcosa che mi dà altamente sui nervi vedere la gente agitarsi!”
Davanti a lei una ragazza la fissava con un viso imbronciato: aveva dei lunghi capelli neri, ribelli, con qualche piccola e sottile treccina raccolta in un fiocchetto rosso, e gli occhi erano viola. Indossava una camicetta bianca a maniche corte, con al colletto un grazioso fiocchetto rosso e un gilet dello stesso colore. Le maniche della camicetta erano a palloncino, ricamate con merletti e con un piccolo e sottile nastrino rosso, mentre ai polsi portava numerosi braccialetti d’argento. La gonna che indossava era a scacchi verdoni e neri, e ai piedi portava degli stivaletti rossi che arrivavano un po’ più su della caviglia.
La ragazza bionda sbuffò timidamente, e con educazione tossì, mettendosi una mano davanti alla bocca, probabilmente per prendere tempo.
“A te non dovrebbe interessare quello che faccio, Alice!” fece posatamente, e la corvina sbuffò rumorosamente.
“Pff... Guardati, ti comporti proprio come una principessina...” rispose Alice e, ghignando, fece una smorfia. “A te non dovrebbe interessare quello che faccio, Alice, ihihihih!” ridacchiò, e poi barbaramente mise una mano sulla spalla della bionda, che arrossì.
“Sharon!” esclamò Alice ghignando “Smettila di fare il muso solo perché ieri sono venuta in camera tua e ti ho lanciato un cuscino in faccia!”
“Io non faccio nessun muso!” esclamò con voce acuta Sharon.
“Se, se... Che noiosa che sei...”
“I-Io non sono noiosa!”
“Insomma, Sharon, smettila di fare l’offesa!” esclamò Alice togliendosi il ghigno dalle labbra e facendo spazio a un broncio. “Siamo amiche, mi dà fastidio che tu mi faccia il broncio! SOLO IO POSSO FARE IL BRONCIO!”
Sharon arrossì vistosamente, e sorrise debolmente: adorava quando Alice s’imbronciava, sembrava un piccolo coniglio quando faceva quella faccia.
“Cos’hai da ridere?” fece Alice dopo un po’, sempre tenendo il broncio, e Sharon ridacchiò.
“Fai ridere quando ti innervosisci!”
“Ehi! Io non faccio ridere!”
Sharon le prese timidamente la mano, mentre arrossiva sempre di più, e la corvina la guardò negli occhi: la bionda sentì un tumulto al cuore mentre guardava quegli occhi purpurei così profondi, e aveva le labbra secche, ma si fece coraggio.
“Va bene, ti perdono.” Fece con voce graziosa Sharon, ed entrambe sorrisero.
“Tzè...” sbuffò Alice, e poi si guardò attorno. “Piuttosto, davvero, sarei curiosa di sapere che cavolo succede! Siamo fermi qui da un bel po’ di tempo!”
In quel preciso istante dalla sala destra uscì il professor Sindbad, tutto affannato, e a gran voce esclamò:
“Qui non c’è nessuno!”
Il mormorio tra i ragazzi aumentò, e Shura ci mise un bel po’ di tempo per cercare di tranquillizzarli.
Nello stesso istante sulla tromba delle scale comparve il professor Nasujima Takashi, anch’egli affannato.
“Qui sopra non c’è anima viva!” esclamò, asciugandosi le gocce di sudore dalla fronte.
Subito dopo dalla stanza sinistra dell’atrio uscì il professor Jafar, che, con calma e controllo di sé stesso, si avvicinò al gruppo.
“Nemmeno di là c’è nessuno.” Fece, con voce grave e ferma.
Il brusio aumentò di intensità.
“Cosa succede??” esclamò Mao Nonosaka impaurita, e la sua voce poté essere distinta tra il mormorio generale.
“Calmi, state calmi!” fece Sindbad e, aiutato dagli altri tre professori, riuscì a ottenere il silenzio.
In quel momento i due rappresentanti di classe, Kamiki e Kazami, fecero due passi avanti, e si fermarono davanti ai quattro professori.
“Possiamo sapere cosa succede?” fece Tomohiko, e Shura sospirò.
“Kamiki, Kazami...” rispose con voce grave la donna, e si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Non lo sappiamo nemmeno noi, con certezza. Per adesso, l’unica cosa che possiamo constatare è che in quest’albergo non c’è nessuno oltre noi...”
“Ce vuol dire che non c’è nessuno?” sussurrò Izumo avvicinandosi a Shura.
“Non c’è nemmeno il personale.” Rispose al posto della donna Jafar, e i due ragazzi sussultarono.
“Capisco...” disse Tomohiko, e poi si rivolse a Kamiki.
“È possibile che questa sia solo una mancanza di poco tempo?” chiese quest’ultima “Magari dopo ritornano...”
“Probabile anche questo, Kamiki.” Disse Sindbad, e poi guardò l’orologio. “Il punto è che le guide sarebbero dovute venire a prenderci alle nove in punto, ben mezz’ora fa: adesso sono le nove e trenta.”
La ragazza non sembrò avere alcuna reazione, e nemmeno Tomohiko: entrambi erano fermi, freddi come il ghiaccio. Di certo, erano due ragazzi coraggiosi e responsabili. Poco dopo si guardarono e annuirono a vicenda, quindi si voltarono verso il gruppo di studenti ancora leggermente mormoranti.
“Calmatevi tutti, e tacete per un momento!” esclamò Izumo aggressivamente, e riuscì ad ottenere una volta per tutte il silenzio più tombale.
“Ascoltate.” Prese la parola Tomohiko “Non c’è bisogno di agitarsi, non sta succedendo nulla.”
“Come nulla??” esclamò Kousaka facendo un passo avanti e allargando le braccia “Dove sono le guide che stavamo aspettando? E il sindaco? Ho sentito ciò che hanno urlato i prof quando sono entrati in quest’atrio, non sono mica sordo!”
“Infatti, sei un cafone!” fece Kamiki con una smorfia, mentre si portava dietro l’orecchio una sottile ciocca di capelli uscita da una delle due codine.
A stento Kousaka fu trattenuto dal picchiare la ragazza, grazie all’intervento di Akise e di Mikado.
“Su, su...”
“Ma cosa “su”??? Lasciatemi, devo almeno strapparle quella sua fottuta ciocca di capelli!!!”
“Kousaka!” esclamò il professor Jafar, a cui le parolacce non erano gradite, specialmente in bocca ai ragazzini “Modera i termini!”
Il corvino sbuffò e si ritirò in mezzo agli altri ragazzi, mentre Izumo ghignò arricciandosi con un dito quella ciocca di capelli.
“Dicevo.” Continuò Kazami, che in quel breve attimo di litigio aveva approfittato per pulirsi gli occhiali “Probabilmente è solo una mancanza di poco tempo. Presto torneranno...”
“Scusate l’interruzione, ragazzi.” Intervenne Sindbad avvicinandosi ai due rappresentanti, seguito poi anche da Nasujima, Jafar e Shura. “Ascoltate: voi resterete qui, sotto il controllo della professoressa Kirigakure. Noi tre, invece, andremo a vedere la situazione fuori... Mi raccomando, non muovetevi di qui.”
Tutti annuirono, e i quattro professori si guardarono.
“I cellulari non funzionano.” Disse Sindbad, guardando lo schermo del suo telefonino “Ci conviene darci un’ora precisa di ritorno...”
“Scusatemi...” fece una ragazza alzando la mano.
Aveva i capelli biondi raccolti in due codini, arricciati in un’unica spirale ad opera d’arte. Gli occhi erano dello stesso colore dei capelli, splendenti, e aveva un fisico delicato e snello. Indossava una camicetta bianca a maniche corte, una gonna gialla di seta lucente a palloncino, e delle ballerine gialle con delle calze bianche corte fino a qualche centimetro sopra la caviglia. Ai capelli portava un ferrettino grazioso a forma di margherita, accompagnato da alcune piume bianche e gialline.
“Dimmi, Tomoe-san!” le sorrise Sindbad, e Mami gli si avvicinò.
“Guardi.” Disse la bionda mostrandogli il suo cellulare. “È vero, non c’è campo, ma la chat di Shirōbara funziona...”
A Sindbad si illuminarono gli occhi e, dopo aver ringraziato Mami, aprì sul suo cellulare la speciale chat dell’isola.
“Perfetto, possiamo comunicare tra noi grazie a questa applicazione!” esclamò il blu, mentre gli altri professori accendevano i loro cellulari.
“Però diamoci comunque un orario.” Disse Shura decisa “Venite qui alle dodici, a mezzogiorno, se non prima: cercate qualcuno a cui chiedere.”
Dopodiché guardò il gruppetto di studenti, e nuovamente si girò verso i professori.
“Tutto questo mi sembra molto sospetto.” Sussurrò, attenta a non farsi sentire dai ragazzi “State attenti.”
I tre annuirono e, dopo essersi guardati e salutati, uscirono dall’albergo, mentre Shura, sospirando, disse ai ragazzi che potevano andare dove volevano, ma che, per il momento, dovevano restare nell’albergo.
Intanto i tuoi e il temporale si avvicinavano all’isola, accompagnato da un forte vento e dall’umido.

 
Il vento aumentava pian piano d’intensità, e faceva muovere le foglie delle piante. Il freddo, di certo insolito per il mese di maggio, era abbastanza pungente, specialmente sulla spiaggia.
Qui due ragazzi dai capelli corvini passeggiavano osservandosi attorno, e parlavano tra loro. L’acqua del mare si stava increspando sempre di più, e il rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia diventava ogni volta più potente, mentre a volte si sentiva il rumore di un tuono, seguito da un fulmine che, spesso e volentieri, precipitava in acqua.
“Che giornata schifosa...” disse Judal dando un calcio a un sasso che si trovava sulla sabbia.
“Almeno siamo stati fortunati, dai: siamo riusciti a prendere una piccola casetta di proprietà dell’albergo!” rispose Izaya.
“Non la chiamerei nemmeno “casetta”: è una catapecchia di legno con una sola stanza e un bagno!”
“Accontentati, Judal... Piuttosto, non ti sembra strano che in albergo, stamattina, non c’era il personale?”
“Tzè... siamo usciti alle sette del mattino, è ovvio che non c’era nessuno!”
“Io non la vedrei così... Non c’è nessuno nemmeno in giro. Certo, ovviamente oltre a quei ragazzini...”
“Ma toglimi una curiosità: perché non vuoi ancora che  ci facciamo vedere da loro?”
Izaya non rispose, ma si limitò a fissare il cielo nuvoloso: ormai il sole non si vedeva quasi più. Il corvino ghignò.
“Pensavo che fosse già chiaro...” disse dopo un po’ “Loro sono le nostre cavie. La regola è: mai socializzare con le cavie. O, almeno, mai farlo sul serio... Facciamo passare un po’ di tempo, Judal.”
Il ragazzo dagli occhi rossi non rispose, e guardò il cielo e il mare. Improvvisamente sentì un rumore, e tese l’orecchio per ascoltare.
“Izaya!” sussurrò, e il corvino si voltò verso di lui. “Non senti anche tu questo rumore?”
“Quale rumore?”
“Sembra... Sembra una specie di lamento...”
“Judal, se te ne esci con altri bambini...”
“Nessun bambino stavolta! Guarda laggiù!”
Judal indicò una roccia davanti a sé, lontana circa venti metri. Si poteva intravedere qualcosa che si muoveva vicino ad essa, la quale sembrava avvolta da delle corde. I due ragazzi si avvicinarono di corsa, e la figura della roccia divenne più nitida: era davvero avvolta da delle corde, e queste legavano alla roccia un uomo dai capelli biondi, vestito da marinaio, a cui un fazzoletto legato stretto alla bocca impediva di parlare. L’uomo si dimenava con violenza, cercando di liberarsi dalla stretta delle corde, e tentava invano di urlare. Improvvisamente si accorse della presenza di Izaya e di Judal, e sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
“Ohh, ma chi abbiamo qui?” fece Izaya con voce zuccherosa “Shizu-chan!”
L’uomo tentò di dire qualcosa, ma il fazzoletto glielo impediva.
“Che ti è successo?” domandò Judal ghignando, non temendo l’ira dell’uomo, visto che era legato saldamente.
“Mi piace vederti in questo stato, sai Shizu-chan?” continuò Izaya disegnando un cuoricino in aria con l’indice della mano destra. Intanto gli occhi dell’uomo si infiammarono di rabbia.
“Va bene, basta con le prese in giro...” disse Izaya ridendo e, avvicinandosi al biondo, gli tolse il fazzoletto dalla bocca.
“Era ora che qualcuno sentisse!!!” esclamò Shizuo con un tono di voce violento.
“Ehi, ehi, modera il tono, o quel fazzoletto te lo rimettiamo in bocca!” disse Judal alzando il naso all’insù.
“Allora, Shizu-chan.” Intervenne Izaya “Prima ci dici cosa è successo. Poi ci dici dov’è la tua nave, visto che non si vede più. E infine, forse, ti liberiamo e ti portiamo in un posticino più sicuro. Ma tutto dipende da te...”
L’uomo sbuffò, poi guardò il mare.
“Stavo dormendo nella mia cabina, quando all’improvviso delle persone mi hanno preso e mi hanno bloccato. Così, incapace di reagire, mi hanno legato a questa roccia e sono scappati insieme alla mia nave.” Disse, stringendo i pugni.
“Quanto erano?” domandò Judal.
Il biondo non rispose subito, e continuò a guardare il mare e la tempesta che stava per invadere l’isola.
“Tanti.” Disse dopo un po’ “Troppi da contare. Almeno un centinaio... Ma anche di più. Parlavano di “sacrificio”, o qualcosa del genere... Quando mi hanno preso, hanno detto: “Un sacrificio in più renderà più efficace tutto.” E poi, mi hanno anche tramortito. Bastardi...!”
“Sacrificio?” fece Judal rivolgendosi a Izaya. “Che significa?”
Izaya non rispose, e, come Shizuo, osservò il mare.
La tempesta era in arrivo: ma non solo quella che si vedeva nel cielo.
 

Erano passate diverse ore, e il cielo si era ingrigito sempre di più: alcune gocce di pioggia cominciavano a cadere, inscurendo la terra e la sabbia. Il vento si faceva sempre più forte, muovendo le piante violentemente, e l’improvviso freddo pungeva il viso del professor Nasujima Takashi, facendogli lacrimare gli occhi.
Il moro correva per le strade del’isola, in cerca di qualcuno; ogni volta bussava alla porta delle case, ma mai nessuno gli rispondeva. A volte etrava anche senza permesso, ma niente: all’interno di abitazioni, negozi e luoghi pubblici non c’era nessuno. L’isola sembrava una città fantasma.
Takashi aveva cominciato a inquietarsi e ad aver paura: voleva tornare in albergo, all’istante, anche se era solo un’ora e mezza che esplorava l’isola. In più, aveva voglia di guardare le studentesse, di osservarle dalla testa ai piedi, di parlare con loro, specialmente con quella così bella ragazza, Anri Sonohara...
Dopo soltanto dieci minuti, si convinse a tornare in albergo: la paura e il troppo forte desiderio erano più forti di lui, e lo inducevano a cedere ad essi.
Si guardò un’ultima volta attorno: oltre al fruscio delle foglie e di alcuni tuoni, non si sentiva niente.
Nasujima deglutì e, di corsa, proseguì sulla stradina di terra battuta, per tornare in albergo. Non gli importava che Shura,  probabilmente, l’avrebbe sgridato: per lui era solo un’oca che non faceva che dare ordini. E poi, era solo una donna. Sicuramente lui avrebbe trovato una delle sue efficaci scuse, per esempio che si sentiva male, o che si era ferito...
 

BROOOOM
 
 
Un fulmine cadde sul suolo proprio di fronte a Takashi, facendolo fermare e sobbalzare. Con occhi inorriditi guardò il punto dove il fulmine era caduto: il terriccio si era incenerito, diventando più scuro, e sotto la pioggia del fumo si alzava in aria dal punto colpito. Inoltre,  vi era puzza di bruciato.
L’uomo restò per pochi secondi ancora imbambolato guardando la cenere per terra, ma subito sentì un fruscio tra le piante lì vicine. Nasujima si voltò di scatto, ma niente: le piante erano ritornate ferme.
Improvvisamente sentì qualcosa di freddo sul suo collo, un fiato ghiacciato, gelido, che gli fece venire i brividi. Nuovamente si voltò di scatto.
I suoi occhi si spalancarono, inorriditi.
Un tuono colpì un debole urlo strozzato.
Poi, silenzio.
 

L’uomo bevve un sorso del suo the, e ghignò.
“UNO.”
 

Nell’atrio dell’albergo tutti siamo in subbuglio: c’è chi parla con altri, chi prova a indovinare cosa sta accadendo, chi si agita troppo, mentre la prof Kirigakure cerca di calmarlo, chi invece cerca inutilmente di chiamare casa. Purtroppo, non c’è campo per nessun cellulare, per nessuna  compagnia telefonica. Anche io guardo il mio cellulare, ma niente: le tacche non compaiono nemmeno sullo schermo.
Sospiro, e guardo fuori dalla finestra: si sentono tuoni, e già si vedono dei lampi. Probabilmente, tra poco pioverà.
“Alibaba-kun.”
Una voce femminile  mi risveglia dai miei pensieri. Mi volto: è Morgiana.
“Alibaba-kun.” Ripete la rossa “Tutto apposto?”
“Sì...” sussurro io, guardando nuovamente il cellulare. “Tu, piuttosto. Tutto bene?”
“Sì. La professoressa Kirigakure sembra preoccupata. Guarda.”
Mi volto verso la prof, che adesso si trova qualche metro più lontano da Rainsworth-san, che si era agitata: sta controllando il cellulare, e sta scrivendo qualcosa... Probabilmente, sta usando la chat di Shirōbara per comunicare con gli altri tre professori. In effetti sembra preoccupata, anche se non vuole darlo a vedere.
Improvvisamente si volta verso il nostro gruppetto di alunni, scrutandoci ad uno ad uno. I suoi occhi si posano su di me e Morgiana, e ci fissa, probabilmente sovrappensiero.
“Salujia, Fanaris.” Sussurr dopo un po’, avvicinandosi a noi.
“Sì, prof?”
“Non posso allontanarmi dall’albergo, poiché vi devo tenere d’occhio. Potreste farmi un favore?”
Io e Morgiana annuiamo, e lei sorride.
“Molto bene. Sto avendo contatti con il professor Sindbad e il professor Jafar, ma non riesco a contattare il professor Takashi. Potreste andare a cercarlo? Non ricevo neanche il segnale del suo cellulare... Intendo, ovviamente, sulla chat.”
“Certo, professoressa.” Dice Morgiana con sicurezza. “Torneremo presto.”
La professoressa ci guarda senza dire una parola, dopodiché sospira e si passa una mano tra i capelli.
“Grazie, ragazzi.” Sussurra dopo un po’, asciugandosi il sudore sulla fronte. “State attenti, mi raccomando.”
Io e Morgiana ci guardiamo nuovamente e annuiamo. Sappiamo quello che dobbiamo fare, e siamo più che in sintonia tra noi.
Mi soffermo a guardare le labbra di lei: sono così sottili e delicate... Ma cosa vado a pensare adesso?? No, devo concentrarmi a cercare il professor Takashi.
Di corsa usciamo dall’hotel, e ci guardiamo attorno: non si sente nessun rumore, oltre al soffio del vento e ai tuoni che rimbombano nel cielo. Guardo a destra, a sinistra, ma non c’è proprio nessuno. Cosa diavolo sta succedendo qui??
“Alibaba.” Dice Morgiana, facendomi sussultare “Andiamo.”
Io annuisco e, insieme, corriamo lungo una delle stradine che partono dall’albergo.
Il cielo è di un grigio scuro, quasi nero. A volte le nuvole vengono illuminate da lampi e fulmini, che mi fanno rabbrividire. Spero che riusciamo a trovare presto il professor Takashi, visto che non si hanno notizie di lui...
Il vento è freddo e pungente, tanto che mi fanno male le guancie e mi lacrimano gli occhi, mentre attorno a me c’è un’atmosfera raccapricciante. Sento che c’è qualcosa che non va... Ma probabilmente, a inquietarmi è solamente il fatto che attorno a me non vedo nessuno, oltre Morgiana. Dove sono andati gli abitanti? E soprattutto, ci sono abitanti in quest’isola?
Improvvisamente, dopo essere arrivati in un piccolo spiazzo attorniato da quattro case, tutte silenziose, Morgiana si ferma, facendomi andare a sbattere contro di lei.
“M-Morgian...”
“Shhh!!” mi zittisce, scrutando attentamente quello che ha davanti. “Senti questo rumore?”
Smetto di respirare, tenendo il fiato sospeso, per sentire meglio: oltre al frusciare degli alberi e ai tuoni, sento anche dei passi... Passi silenziosi, passi leggeri e felpati. E provengono dall’interno di una casa.
“Morgiana, non muoverti.” Sussurro, avvicinandomi alla casa da dove provengono quei rumori.
Non voglio che Morgiana corra alcun pericolo, non me lo perdonerei mai.
Lei mi guarda, con quegli occhi così belli e profondi, dai lineamenti particolari e unici, che solo lei ha; afferra il mio polso, con forza, e, dopo avermi voltato verso di lei con uno strattone, mi fissa negli occhi. Di certo, i miei non sono così belli come i suoi...
“Alibaba. Non andarci. Guarda.” Sussurra.
Entrambi guardiamo nella direzione della casa: un’ombra sta uscendo, e sta aprendo lentamente la porta, che cigola in maniera insopportabile.
È una figura bassa, piccola, ma ancora non riesco a vederne i definiti contorni. Il cuore mi batte forte per la paura.
“Alibaba, andiamocene!” esclama Morgiana, strattonandomi via, mentre l’ombra esce dalla casa e agita le braccia.
“Fermi! Aspettate!”
È una voce acuta, una voce da bambino. Entrambi ci voltiamo: davanti alla porta della casa vi è un bambino di almeno dieci anni che ci guarda impaurito. Ha i capelli blu, raccolti in una lunga treccia, gli occhi dello stesso colore. In mano stringe un flauto dorato, e indossa una maglietta bianca e dei jeans blu.
“Chi siete voi?” domanda, timidamente e tremante “Dove sono i miei genitori?”
Io e Morgiana ci guardiamo, e ci avviciniamo al bambino, che deve avere almeno dieci anni.
“Ciao.” Sussurro io sorridendo “Lei è Morgiana, e io sono Alibaba. Non sappiamo dove sono i tuoi genitori, e siamo qui giusto per cercare qualcuno. Tu per caso hai visto un uomo dai capelli castani qui attorno?”
Il bambino non risponde subito, ma si limita a guardarsi attorno, e a guardare dentro la sua casa. Dopodiché, fa segno di no con la testa, abbassando lo sguardo.
“Anche io non trovo più nessuno.” Dice, rammaricato “I miei genitori non ci sono più, e non ci sono più nemmeno le loro cose. Ho provato a bussare dai miei vicini, ma allo stesso modo non ho ricevuto risposta, e in più non c’è nessuno nemmeno in quelle case. Sono da solo...”
Sembra sull’orlo delle lacrime, tanta la disperazione che lo affligge. Chissà dove sono andati i suoi genitori e gli altri: come si può avere il cuore di lasciare un bambino così, da solo, senza dirgli niente?
“Ehi, ehi, non piangere...” Gli dico, abbracciandolo, mentre lui si abbandona ai singhiozzi. “Ora ci siamo qui noi. Come ti chiami?”
Il bambino si asciuga le lacrime alla mia maglietta, dopodiché guarda prima Morgiana, e poi me.
“Aladdin.”

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Angolo dell’autrice~

Salve gente! Perdonatemi per l’immenso ritardo! ç_ç Il tempo scarseggia, purtroppo (e io sono ancora una studentessa), e così ho il tempo di pubblicare un capitolo al mese.
Allora, in questo capitolo è cominciato il vero divertimento (per me) mwahahahah (?) èwé
Non c’è molto da spiegare, penso che sia tutto chiaro, anche se la parte di Alibaba non mi convince molto... L'ho lasciata in sospeso perché le cose che si scopriranno grazie ad Aladdin volevo che andassero nel prossimo capitolo XD Se avete consigli o domande, lasciate una recensione oppure inviatemi un messaggio ;)
Secondo voi cosa è successo al professor Takashi? Chissà, chissà. Lo scoprirete nel prossimo capitolo!

Personaggi apparsi in questo capitolo: 
Alice Baskerville; Sharon Rainsworth = Pandora Hearts
Aladdin = Magi the Labyrinth of Magic 

Alla prossima, cercherò di fare il più veloce possibile! Ah, e buona Pasqua!!! ^o^
Euphy <3
  
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