Susan Bannet.
by heygiuls
Prologo.
I
marciapiedi di Londra sfilavano veloci sotto i miei tacchi, ormai non
sapevo neanche da quanto tempo stessi camminando per trovare il punto
esatto in cui avessi parcheggiato la macchina. Tipico tempo
londinese, tipica giornata uggiosa e il mio tipico umore sotto i
piedi: la pioggia mi metteva tristezza.
Svoltai
l'angolo e finalmente la vidi, incastrata tra una BMW e un'Audi.
Certo, la mia Mini Cooper
non faceva un
figurone accanto alle auto di nobili ricconi e uomini in carriera, ma
ci ero troppo affezionata per venderla e comprarne un'altra.
Il
freddo pungente mi pizzicava il volto nonostante lo tenessi nascosto
per metà dietro una grossa sciarpa di lana, e neppure il
cappotto
riusciva a darmi un po' di tregua dalla costante bassa temperatura.
Tirai fuori una mano dalla tasca per controllare che ora fosse. Le
sei e mezzo di pomeriggio.
Avevo
appena finito il mio turno al lavoro, ed il mio capo mi aveva dato
tante di quelle scartoffie da leggere e controllare che mi ero messa
le mani nei capelli. Ma tutto sommato mi piaceva il mio lavoro, era
da quando ero bambina che desideravo di fare la giornalista. Certo,
forse il mio sogno non era esattamente quello di correre da una parte
all'altra di Londra in cerca di chi i miei superiori mi chiedevano
notizie, forse mi aspettavo più qualcosa come “E
adesso, da New
York, la nostra Susan Bannet in diretta, a te Susan!”, ma
evidentemente mi sbagliavo.
Raggiunsi
la macchina e con un enorme sforzo recuperai dalla borsa le chiavi,
che infilai subito. Appena entrata nell'abitacolo mi lasciai sfuggire
un sospiro di sollievo, almeno non c'era più quel vento
sottile ad
entrarmi nelle ossa.
Uscii
dal parcheggio diretta verso casa, e distrattamente accesi la radio.
«...e
ora passiamo alle notizie meteo per la prossima settimana.»
gracchiava lo speaker. Tanto già sapevo che non avrebbe
certo fatto
bel tempo, neanche se eravamo a Marzo inoltrato, quindi prossimi alla
primavera.
«Si,
John. Per tutta la prossima settimana sono previste piogge sparse,
inoltre arriverà la perturbazione numero sette di questo
mese che
porterà vari venti provenienti dal Nord e...»
spensi la radio senza
neanche sentire il continuo.
Sbuffai
sonoramente mentre già sapevo che sarei rientrata tardi a
casa per
via dell'interminabile coda in cui ero bloccata. La gente proprio non
capiva che suonare il clacson non avrebbe velocizzato il traffico,
eh?
Era
già quasi buio fuori, e gli edifici grigi sembravano ancora
più
grigi sotto le nuvole cariche di acqua. Il brutto tempo mi faceva
venire mal di testa, deducibile quindi che vivendo a Londra io ci
convivessi praticamente sempre. Strizzai gli occhi e sbuffai ancora.
Ero
esausta. Quella mattina Rupert mi aveva sfiancato, dandomi
più
incarichi possibili giustificandosi con il fatto che fossi
“la sua
migliore dipendente”. Non sapevo se esserne lusingata o meno.
Rupert
Smith, capo e cofondatore di un giornale online che aveva
recentemente ottenuto molto successo, raggiungendo un gran numero di
visite e guadagnandosi migliaia di lettori: il Daily London News.
L'altro fondatore del giornale, Colin Manforth, aveva avuto una
grossa lite con Rupert che li aveva portati a, diciamo, andare per
diverse strade. Letteralmente, dato che poi Colin aveva intrapreso
una lunga battaglia legale contro Rupert che ancora creava non pochi
problemi al giornale.
Io
ero una specie di tuttofare. Mi occupavo di articoli sportivi, di
cronaca, di quotazioni in borsa, di interviste a personaggi famosi,
perfino di sagre alimentari (ok, era successo una volta e non avrei
permesso alcuna replica) e ogni tanto facevo anche da segretaria, con
qualche extra si intende. Rupert era ormai da due anni che continuava
a ripetermi che la mia carriera sarebbe sbocciata da un momento
all'altro ma che, intanto, avrei dovuto darmi da fare.
«Sai,
a ventisei anni Rupert, forse dovrei essere già sbocciata,
no?» gli
ripetevo io.
Finalmente
il traffico si era un po' sbloccato e, anche se lentamente, ci si
iniziava a muovere. Fuori dai vetri appannati della macchina c'era
ancora un discreto movimento: gente che veniva e che andava, mamme
con i bambini accuratamente posizionati dentro i loro passeggini,
coppiette occasionali che correvano per trovare un riparo
all'imminente pioggia, studenti che si affrettavano a tornare nei
loro alloggi e qualche barbone che chiedeva l'elemosina. Era bella,
Londra. Bella e affollata.
Intanto
una leggera pioggerellina aveva iniziato a scendere, di quella
pioggia sottile e fredda che era destinata a diventare un vero e
proprio acquazzone. Accesi i tergicristalli.
Dopo
svariati minuti riuscii a svoltare a destra e a prendere una
scorciatoia per arrivare al mio appartamento. Normalmente sarebbe
stata la strada più lunga, ma dato che il traffico non
accennava a
diminuire supposi che sarei arrivata prima.
Infatti,
ben mezz'ora dopo parcheggiai davanti a casa.
Vivevo
in un appartamento in periferia, zona abitata per lo più da
studenti. Che
poi anche io mi ero trasferita lì non appena mi ero sentita
abbastanza grande per poter andare allo sbaraglio e al tempo anche io
ero una studente. A vent'anni pensi di avere il mondo in mano, pensi
che tutto possa riuscire al primo tentativo e che davanti a te ci
siano solo traguardi. Quell'appartamento si era rivelato l'unica cosa
che io potessi permettermi, anche se era a circa mezz'ora dal centro
di Londra.
Guardai
quell'edificio così familiare. Le pareti ricoperte di
mattoni rossi
che quando c'era il sole risplendevano di vivacità, davano
un tocco
di colore anche agli immobili vicini che erano pitturati con un
banale grigio scuro. Non so perché l'architetto o chi a capo
aveva
deciso per quel colore così discordante con gli altri, ma
così
concordante con me. Appena ero arrivata, con una valigia piena
più
di sogni che di vestiti, ne ero rimasta affascinata. La mia casa
sarebbe stata rossa, almeno di quello avrei potuto vantarmene.
Scesi
dalla macchina ricordando che non avevo ombrello appresso,
così fui
costretta ad una corsa forsennata fino alla porta cercando di
ripararmi con la borsa sopra la testa, inutilmente, ovvio. Mi
ritrovai bagnata fradicia e tremante, mentre tentavo di inserire la
giusta chiave nella serratura.
Entrai
dentro salutando il portiere che mi rivolse un'occhiata che era tutto
un programma. Effettivamente non dovevo avere un bell'aspetto,
così
bagnata e ansimante per la corsa. La gonna che indossavo si era
completamente incollata alle mie gambe rendendomi difficili i
movimenti già abbastanza limitati dai tacchi. E, come se non
bastasse, era entrata un po' d'acqua nella borsa. Bene, Susan,
complimenti.
Salii
le scale maledicendo il fatto che il mio appartamento fosse al terzo
piano. Quando finalmente lo raggiunsi feci un altro, l'ennesimo,
sospiro di sollievo. Ancora tremante per il freddo, entrare dentro,
al caldo, fu una vera e propria goduria.
Il
mio appartamento si poteva definire... sofisticato. Quando ero
arrivata, ben sei anni prima, non era altro che uno spazio vuoto con
un divano e un tappeto che non si intonavano per niente e un bagno
che definire vomitevole era un eufemismo. Mi c'era voluto del tempo,
ma alla fine l'avevo sistemato nel migliore dei modi.
Il
salotto dava un'atmosfera accogliente e futuristica direi, con il
divano di pelle bianca e un pouf in un angolo del medesimo colore, un
tavolino nel centro sistemato sopra un tappeto circolare. La tv a
trenta pollici era addossata alla parete e, di fianco, c'era il
mobile dove tenevo tutti miei libri e dvd e poi, ovviamente, lo
stereo. Nelle altre pareti abbondavano quadri di autori sconosciuti e
foto mie, di amici e parenti. Per finire, di lato al pouf, pendeva
dal soffitto una poltrona che non toccava terra, di forma circolare,
dove amavo sedermi per leggere un buon libro.
La
cucina era discretamente piccola, ma lo spazio era fin troppo ben
ordinato: di lato, tavolo in legno con quattro sedie (di cui
puntualmente ne venivano utilizzate solo due) con al centro un cesto
pieno di frutta; la credenza e il piano cottura erano dal lato
opposto e sotto vi era una lavastoviglie, indispensabile per una
nullafacente come la sottoscritta, e (non meno importante) il mio
amatissimo forno a microonde; un frigo che restava spesso vuoto o con
all'interno solo cibi immangiabili; un mobile sempre in legno dove ci
tenevo tutto ciò che non riuscivo a far stare nella credenza.
Il
bagno era forse la stanza che ero riuscita ad arredare meglio, gli
avevo dipinto le pareti di azzurro, così come le tende, e
avevo
abbinato tutto a quel colore: portasapone, mattonelle, spazzolino,
accappatoio, spugne, vasca da bagno... tutto. Sopra il lavandino
c'era uno specchio che pulivo in modo maniacale almeno due volte al
giorno e di fianco alla vasca avevo messo un mobile in cui riporre
vari asciugamani, phon eccetera.
La
mia camera da letto era invece abbastanza semplice: letto in un
angolo ad una piazza e mezzo con affianco un comodino pieno zeppo di
oggetti inutili; al lato opposto una scrivania gigante e piena di
cassetti che tenevo sempre in ordine per non mischiare vari fascicoli
che mi portavo a casa dal lavoro, oltre il computer munito di
stampante ci avevo messo sopra anche la foto del mio bellissimo
nipotino, figlio di mio fratello; nell'altra parete c'era il mio
armadio (con specchio all'interno), anch'esso sempre in ordine per
evitare di dover passare ore a cercare i vestiti. L'armadio era
suddiviso in due parti principali: vestiti da lavoro, vestiti per il
tempo libero.
Tutto
sommato il mio era un appartamento molto carino e ben arredato, non a
detta solo mia ma anche dei miei amici. E poi, non avevo grandi
pretese.
Entrai
lasciando, molto dolorosamente, gocce d'acqua ovunque. La prima cosa
che feci fu quella di togliermi i tacchi e appendere il cappotto
nell'appendiabiti vicino all'ingresso, poi mi sdraiai nel divano
incurante del fatto che fossi ancora fradicia.
Il
pensiero che anche il giorno dopo mi sarei dovuta svegliare alle sei
e mezza del mattino per arrivare in orario di certo non aiutava la
mia sanità mentale.
E
pensare che solo qualche anno fa cercavo l'indipendenza, andare a
vivere da sola mi sembrava un sogno perché significava
realizzare
tutti i miei più grandi progetti per la vita. Anche se ora
rimpiangevo un po' tutte le attenzioni di mia madre e mio padre e la
loro insistenza nel prendersi cura di me ero comunque grata a me
stessa per non essere diventata una mammona e per non essere
assolutamente un peso a nessuno. Raggiungere l'indipendenza economica
era un grande passo, ne ero consapevole, e se c'era una cosa che non
mi mancava era certamente i soldi.
L'avevo
sempre saputo che partire per Londra e provare a sfondare nel
giornalismo non sarebbe stata la via più semplice per
sentirmi una
donna in carriera, ma nonostante tutto non avevo mollato ed ero fiera
di me stessa.
A
bloccare questi miei pensieri esistenziali fu il campanello che
suonò.
Mi
precipitai alla porta chiedendomi chi potesse essere a quest'ora e
convincendomi del fatto che se fossero stati un'altra volta i
testimoni di Geova li avrei cacciati in malo modo.
«Ciao
Susan.» mi salutò George.
Mi
maledissi mentalmente utilizzando tutti i peggiori insulti che
potessero venirmi in mente per non essermi ricordata
dell'appuntamento con George.
George
Cornish era la cosa più vicina ad un ragazzo che potessi
avere. Era
un impiegato che avevo conosciuto qualche mese prima durante
un'intervista ad un capo aziendale, avevamo subito legato e dopo un
po' lui mi aveva chiesto di uscire.
«Oddio,
George.» riuscii solo a dire mettendomi una mano in fronte e
invitandolo ad entrare dentro.
Indossava
un completo abbastanza elegante dato che per questa sera c'era in
programma di dover uscire fuori a cena, ma io l'avevo completamente
scordato.
«Ti
sei dimenticata, vero?» mi chiese con un sorrisino amaro,
entrando e
sedendosi sul divano. Cercai di fermarlo ma ormai si era già
seduto,
ottenendo solo di essersi bagnato i pantaloni e la giacca. Si
alzò
alzando le spalle con noncuranza e un sorrisino divertito in faccia.
«Io...
scusa.» balbettai senza trovare qualcosa di più
sensato da dire.
Dato
che mi ero alzata mi affrettai a mettere a posto tacchi e tutto
ciò
che avevo lasciato in giro, compresi i milioni di fascicoli che avrei
dovuto leggere per il giorno dopo.
«Se
vuoi posso aspettare, tanto non è molto lontano da qui il
ristorante.» mi fece George dal salone mentre io ero in
camera mia a
sistemare varie cose tra comodino e scrivania.
Lo
raggiunsi con sguardo mortificato: «No guarda, perdonami ma
stasera
non ce la faccio. Rupert mi ha riempito di pratiche e devo leggerle
tutte per domani. Scusami tanto, George...» tentai di
giustificarmi.
Lui
mi guardò annuendo leggermente e grattandosi la testa, come
faceva
sempre quando era nervoso. Poi alzò di nuovo le spalle e mi
disse:
«Ok, non fa nulla.»
Inutile
dire che invece faceva, eccome. I sensi di colpa mi stavano
divorando, così per qualche minuto mi limitai a guardarlo
con uno
sguardo da cucciolo abbandonato sperando che la mia posizione potesse
risollevarsi un pochino.
«Quindi,
beh io vado Susan.» mi disse dopo un po', avvicinandosi per
salutarmi.
Ricambiai
il saluto con un abbraccio e, una volta accompagnato alla
porta mimai
ancora una volta uno «scusa» in labiale per poi
chiuderlo fuori.
Mi
appoggiai al muro sentendomi veramente stanchissima. Avrei voluto
solo farmi un bagno caldo e restare in ammollo per ore ma sapevo
perfettamente di dover andare a sbrigare almeno parte del lavoro che
Rupert mi aveva lasciato.
Mi
trascinai fino alla mia camera e mi sedetti sulla scrivania,
iniziando a dare un'occhiata. Sarebbe stata una lunga serata.
Note autrice.
Salve a tutti. Questa è la prima storia che scrivo su questo genere, come già ho specificato nella trama.
Il mio intento è quello di raccontare la storia di una giovane ragazza trasferitasi a Londra per cercare l'indipendenza e crearsi una carriera solida, un futuro.
Ovviamente sono ben accette critiche di qualunque genere, anzi pretendo che voi mi diciate esattamente cosa migliorare del mio stile. Vi prego di non essere dei lettori\fantasma e di lasciarmi qualche recensione che fa sempre piacere.
Un bacio a tutti, ciao.