Titolo: Paura.
Fandom: Homestuck.
Personaggi: Dirk Strider.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Angst.
Rating: Giallo/Arancione
Avvertimenti: M/M implicito, Angst a
palate, adolescente che si
lagna a go-go.
Note: 1. Non è betata (betata,
bella parola, ahahah.)
2. Dedicata, come sempre,
ad akitsu-47 e
le sue dannate fanart,
perchè se perdo 3 litri di sangue alla volta è
colpa di tutta la quality art
che non fa che sfornare. Kitsu, ILU♥.
3. Ovviamente Dirk e coloro che vengono
citati nel corso della
fanfiction, personaggi di Homestuck, appartengono ad Andrew Hussie
supremo
genio del male. Io posso solo fare le veci di parte del fandom e di
ciò che
immagina con ciò che scrivo.
4. Beh, io ci ho provato, di nuovo, visto
che il primo tentativo è
andato bene, no? :D Al massimo, i sacchetti per il vomito ve
li può
consegnare il mio elfo domestico su richiesta. Divertitevi a
leggere e
fatemi sapere~
Paura
Un
giovane ragazzo se ne stava rannicchiato sul
polveroso pavimento di una delle tante cellette che formano le
gigantesche
torri/mausoleo di Land of Tombs and Krypton, le braccia magre e stanche
a
circondare le gambe piegate, una maschera a gas rossa a coprire il
volto,
mascherando da tutto e tutti eventuali espressioni perduranti in quel
visino
albino.
Il
suo nome è Dirk Strider e, vista la rapida e
sempre più disastrosa serie di eventi che sembra
incessantemente tentare di
colpirlo, stava proprio perdendo la sua proverbiale, limpida e
‘inattaccabile’
serietà.
Ovviamente, sapeva bene quale fosse la causa di questa breccia, visto
come
fissava lo schermo del suo cellulare, la finestrella di Pesterchum
Mobile piena
di un’unica cascata di testo arancione, di quelle proprie
frasi così
frammentarie, spezzate, senza alcun senso logico, e soprattutto nessuna
risposta dall’altra parte. Ovviamente lo sapeva, visto come
l’assenza di testo
verde gli sta facendo quasi avere un attacco di cuore.
Desiderava ardentemente una risposta. Positiva o negativa che fosse, la
desiderava. E la desiderava così tanto che tra poco lo
avrebbe chiamato sul
serio –dando così fondo alla povera ricarica del
suo stesso cellulare-- e gli
avrebbe urlato contro che, cazzo, sta soffrendo come un cane bastonato
dal
proprio padrone.
Perché,
ebbene sì, anche il grande Dirk Strider,
il grandissimo coolkid, il genio della robotica e spesso implicitamente
definito freddo al pari di un robot stesso, aveva paura.
Aveva
paura, sente quella viscida bastarda essere
là, strisciare come un velenoso serpente fin dentro la
propria pelle, sulla
spina dorsale, riempiendolo di tremori e di ansia, panico puro che
scorreva più
del sangue nelle proprie vene. La sentiva prendere a morsi il proprio
cuore, la
sentiva stringerlo con le proprie spire, la sente tentare di ucciderlo
e sembrava
pure che ci stesse riuscendo benissimo.
Ma la paura di questo povero principe, rannicchiato e dondolante da
qualche
parte nel suo regno di catacombe, era una paura rocambolescamente
lecita. Era
una paura pressoché umana.
Perché
c’erano stati e tuttora c’erano momenti in
cui il grande Dirk Strider aveva temuto di essere più una
macchina che un
essere umano. Se ne rendeva conto, sapeva che la propria maschera lo
stesse
quasi per assorbire, privandolo di tutto ciò che, dentro, lo
rendeva umano. Sapeva
di non esserlo, forse, umano come tutti gli altri.
Alla
fine, sebbene anche lui avesse vissuto per
buona parte del tempo da solo, Jake aveva avuto sua nonna a fianco per
quanto,
otto, o dieci anni? Aveva avuto un essere umano al suo fianco. Aveva
avuto dei
contatti prima di piombare nella solitudine.
E
Dirk invece? Lui era nato già immerso nella più
totale solitudine. Suo fratello non c’era mai stato, morto
troppo tempo prima,
persino prima della sua effettiva nascita. Il suo guardiano era un
robot
programmato per educarlo e renderlo un combattente temuto, un nemico
che tutti
quanti, persino Jake, avrebbero dovuto paventare e fuggire. Sarebbe
diventato
una macchina assassina come i robot da combattimento che le sue mani
sempre
sporche di olio e grasso per motori assemblavano e costruivano. Era
destinato
ad essere sempre più gelido e manipolativo, come Hal si era
mantenuto
all’interno dei propri occhiali. Era destinato a sentire il
proprio cuore
dividersi in multiple parti, e queste parti stesse lo avrebbero
abbandonato,
immergendolo nel buio più totale.
Dirk era stato programmato per
essere
solo. Dirk lo sapeva, e non sapeva più che altro fare tra il
ridere come un
povero disperato o piangere per la pressione che tutta questa
consapevolezza
stava facendo sul suo povero cuore spezzato.
Alla
fine, era stato così bello, incontrare tutti
per la prima volta –sì, pure Jane, prima rivale,
poi povera ragazza spaventata
che lo scuoteva urlandogli contro quanta fifa avesse addosso--; era
stato così
bello incontrare Jake per la prima volta, vederlo sorridere, poterlo
abbracciare. O, in generale, era stato bello abbracciare qualcuno di
vivo,
sentire un’altra fonte di calore che non fosse un peluche o
un cuscino contro
il proprio corpo. Era stato così bello che, in quel momento,
ricordava gli
spasmi e i tremori che lo avevano colto, le lacrime che a forza quegli
occhi
stanchi, arrossati e circondati da pesanti occhiaie cercavano di
trattenere
dietro quegli occhiali a punta che tanto adorava indossare.
Era stato bello, perché per la prima volta si stava sentendo
davvero umano, con
un cuore che batte invece di una serie di pistoni, sangue al posto di
benzina,
un cervello al posto di un ammasso di chip. Riusciva a sentirlo, il
sangue che
scorreva, il pompare nervoso di un cuore troppo eccitato,
l’esercito di
farfalle a muovergli lo stomaco, le fiamme ardenti di un sentimento
d’amore per
quell’altro che aveva avuto modo finalmente di vedere con i
suoi occhi e di
sentire contro la propria pelle. Si sentiva così felice,
così umano. Vivo.
Ma
Hal aveva deciso che era finito il tempo delle
illusioni. Era tempo di svegliarsi, e capire che era proprio in quel
momento
che il suo ruolo iniziava –sebbene nelle sue parole vi era
ancora quell’egoistico
desiderio di un corpo che lui ben sapeva che non gli sarebbe stato
dato. Hal
era pericoloso, ogni cellula del suo corpo lo sentiva. Hal, se ne
avesse avuto
la possibilità, lo avrebbe ucciso con uno schiocco delle sue
cibernetiche dita,
magari sostituendosi a lui come nelle trame di un pessimo film di
fantascienza
pieno di personalità artificiali e robots.
Il
problema era che, con tutto quello che stava
succedendo, niente poteva confermare il contrario. Niente poteva
confermare che
tutto sarebbe andato liscio come l’olio, che niente gli
sarebbe stato tolto,
che non avrebbe perso nulla.
E
aveva davvero tanta paura, Dirk, di perdere
tutto questo, di diventare come un povero esploratore affamato che nel
deserto
viene tentato al ricordare cosa la fame fosse da succulenti miraggi.
Sapeva che
sarebbe diventato in quel modo, un povero animale abbandonato sul
ciglio della
strada ad elemosinare l’amore che aveva ricevuto per la prima
volta e che ora
gli veniva negato, un pover’uomo assetato
d’affetto, di contatto.
Non voleva tornare ad essere una macchina per nessuna ragione al mondo,
ma
purtroppo questa decisione gli garantiva sicura sofferenza –e
lo sapeva, lui,
sapeva che avrebbe sofferto, perché niente è come
nelle favole, non tutto
finisce bene, non tutti hanno bisogno del principino che salva il
sedere del
chi-di-turno.
Non tutti hanno bisogno di lui, al contrario di lui che, probabilmente,
ha
davvero molto bisogno di tutti.
Lo
sguardo passava nuovamente sullo schermo del
cellulare, sospiri rotti da lacrime che non era riuscito a fermare. Il
petto
magro sobbalzava, singhiozzi a rendere frenetico e quasi posseduto dal
panico
il suo respiro che già veniva tetramente filtrato dalla
propria maschera a gas.
L’avrebbe volentieri buttata, quella maschera, avrebbe
lasciato molto
volentieri che i gas di Land of Tombs and Kripton corrodessero i propri
organi
dall’interno e bruciassero la propria pelle come se fosse
semplice carta contro
il fuoco.
Faceva tanto male, essere ignorato.
Faceva tanto male, essere ignorato dalla persona che si ama e si vuole
rendere
felice più di ogni altra cosa al mondo.
I
singhiozzi si fanno più violenti, più rumorosi,
ora simbolo di un pianto disperato piuttosto che di un semplice attacco
di
paura. Ora lo Strider era completamente appallottolato su sé
stesso, testa tra
le gambe, mani tra i capelli, la superficie della maschera a pressare
contro la
pelle del viso macchiate da lacrime che potevano anche sembrar
rossastre e
sanguinolente per via della colorazione rossa della sua unica
protezione in
quella terra che trasudava morte da ogni metro quadro di territorio.
Tanto,
a chi sarebbe venuto in mente di cercarlo?
Roxy era troppo presa dal suo avventurare con Jane per quella terra che
lui
stesso aveva definito “una sorta di discoteca
dell’antico Egitto” visto che le
luci al neon che sormontavano piramidi a gradoni erano
pressoché accecanti per
i propri poveri occhi. E Jake sembrava davvero intenzionato ad
ignorarlo, a
quanto sembrava –cosa che gli stava seriamente spezzando il
cuore.
Sarebbe morto da solo e non sarebbe tornato. Bam. Fine dei giochi per
Dirk
Strider.
Ma, per la prima volta, non aveva abbastanza coraggio da afferrare la
propria
katana e praticare un buon, onorevole seppuku per la propria persona.
Lo aveva
pure confessato a Hal,
quel momento
prima di averlo quasi spezzato in due e gettarlo contro il suo sprite
–sì,
quello strano ammasso rosso e bianco di muscoli.
“Non hai paura di non esistere, Dirk?”
Aveva detto lui. E cazzo, la risposta si sapeva anche fin troppo bene.
Lui voleva esistere, voleva tantissimo esistere con ogni cellula del
proprio
rovinato corpo, ma allo stesso tempo voleva smettere di patire le pene
dell’inferno ad ogni passo che si azzardava a fare, sicuro o
falso che fosse. Non
voleva per il semplice e puro egoistico motivo che, se lo avesse fatto,
sarebbe
finito per gettarsi una zappa sui piedi visto che sarebbe stato
definitivamente
solo per tutta la vita. Cosa che lui, ovviamente, non vuole, no. Lui in
mezzo a
quel groviglio di tentacoli che volevano strozzarlo e sopprimerlo non
ci voleva
proprio tornare. Voleva restarne fuori, voleva bearsi della luce, del
calore,
di mani che stringevano le sue, di gambe che gli correvano incontro, di
risate,
di persone, di vita. Voleva guadagnare tutti quegli anni senza alcun
contatto
con altri esseri umani in quel momento, in quel preciso istante, prima
che il
gioco chiuda la sua pesante tenda in velluto rosso sui loro corpi.
Voleva
tornare a vivere in quel passato dove il
proprio fratello era vivo, dove niente di tutto ciò che lo
fa soffrire sia
ancora nato. Felice, ingenuamente felice.
In
cuor suo, però, sapeva che niente di tutto ciò
sarebbe accaduto. Era ormai troppo tardi per tornare indietro, specie
ora che
quella specie di decerebrato con manie omicide e uno strano amore per i
‘giochi’
–cosa che ti ricordava un vecchio film tra quelli nella
grande videoteca di
quel fratello maggiore da te sempre idolizzato- sembrava aver iniziato
a
muovere i tasselli del suo folle piano. Qualunque esso sia, ovviamente.
Era
il momento di evitare di mettersi a piangere. Hal
aveva già deciso di toccare tasti delicati quella sera, era
sul punto di romperlo,
di gettarlo e liberarsene per sempre, ma sentiva dentro di
sé che qualcosa di
orribile sarebbe accaduto se lo avesse fatto. E no, non si trattava di
un
semplice capriccio.
Con un sospiro seccato, si alzava, fronteggiando l’assurda
componente del gioco
che lo stava fissando da dietro degli occhiali rettangolari tanto rotti
quanto
la sia dentatura e il povero corno alla sinistra della sua testa. Lo sprite –così
definitosi tempo addietro,
quando spuntò nella sua abitazione dal nulla- sembrava
attendere qualcosa,
quello stesso qualcosa che anche una certa intelligenza artificiale
sembrava
ossessivamente chiedergli.
Dirk era stanco. Dirk voleva solo che tutto ciò finisse in
fretta, che si
risvegliasse nella sua cazzo di palafitta così che potesse
morire in pace come
ogni ragazzino privo di contatto umano e denutrito che si rispetti.
Ma
ovviamente non era così che doveva andare.
Sentiva
che quello che aveva appena fatto era un
errore bello grosso. Ma in quel momento, con le mani vuote e leggere,
di tutto
quello che gli veniva istintivo da dire era riuscito a sputare solo una
parola.
«’Fanculo.»