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Autore: Athenryl    03/04/2013    6 recensioni
«C'è il mare, grigio come me, che ruggisce sulla sabbia, e ci siamo noi, io e Brandon e le nostre impronte come monete di bronzo che luccicano nel sole del tardo pomeriggio. Ci sono i miei demoni, i suoi mostri e le nostre mani intrecciate mentre andiamo alla ricerca di conchiglie sepolte come i nostri sogni.»
Breve spin-off sulla mia long "I'm a mess and you're a work of art". Comprensibile anche senza aver letto la principale.
Quarta classificata al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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 Hola bella gente :)

La one-shot in questione ha partecipato al concorso "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda, con il prompt "disperazione", classificandosi quarta.
AVVERTIMENTO: Come ho già anticipato nell'introduzione è lo spin-off della long che ho in corso,
I'm a mess and you're a work of art, dunque, se qualcuno avesse intenzione di leggerla, contiene spoiler, dal momento che appunto parla di un momento importante della protagonista, già stato rivelato all'interno della mia storia. In ogni caso, si può leggere tranquillamente senza aver letto quella principale.
Non è stato facile per me scriverla perchè non tratta argomenti proprio "felici", ma ci sono particolarmente affezionata, per cui aspetto i vostri pareri ^^ Direi che è tutto, a parte il fatto che vi consiglio vivamente di ascoltarvi Down in a hole, degli Alice in Chains, da cui ho appunto preso il titolo XD
Un bacio, buona lettura :*
Athenryl


Down in a hole

 
 

C'è il mare, grigio come me, che ruggisce sulla sabbia, e ci siamo noi, io e Brandon e le nostre impronte come monete di bronzo che luccicano nel sole del tardo pomeriggio. Ci sono i miei demoni, i suoi mostri e le nostre mani intrecciate mentre andiamo alla ricerca di conchiglie sepolte come i nostri sogni.
A volte è facile chiudersi nella propria bolla di vetro e fingere che non sia tutto un'illusione. Fingere che vada tutto bene, che sia tutto perfetto. Quando in realtà ogni notte soffoco i singhiozzi in un cuscino, per non farmi sentire da mia madre; quando in realtà ci sono giorni in cui vorrei soltanto svegliarmi e dimenticare tutto, semplicemente; quando in realtà riesco a trovare l'unica liberazione dentro l'ago di una siringa o sulle labbra di Brandon, che ogni volta ho paura di baciare, come se facendolo potessi in qualche modo proteggerlo dal mio cuore nero, dalla mia disillusione, dalle mie lacrime. Fingere che vada tutto bene, quando in realtà non c'è niente che vada come dovrebbe.
Ci sono giorni come questo in cui guardo il cielo e mi convinco che là fuori esiste davvero qualcosa di buono, qualcosa per cui valga la pena lottare in questo mondo di merda; e posso andare a meraviglia, sorridere e scherzare e fare la cretina, ma poi basta un niente per buttarmi giù come un uno scafo che viene abbattuto dalla marea.
Il cielo è diviso dal mare soltanto da una striscia più scura, color cobalto. È tutto grigio e dorato intorno a noi, come un dipinto impressionista, come il quadro di un incendio.
Il mare può andare a fuoco?
C'è la bassa marea, oggi, e le acque ritirandosi hanno lasciato un'ampia distesa di fango e sabbia molle. Le nostre impronte sono pallidi solchi, cancellati quasi subito dalle piccole e lente onde che raggiungono la battigia.
«Guarda cos'ho trovato.» La voce di Brandon, scura, dolce e familiare come un soffio di vento caldo, mi scuote dal torpore. Si china a raccogliere qualcosa, per poi mostrarmela nel palmo di una mano: una conchiglia, di quelle che piacciono a me, con tre punte. La prendo tra le dita e sorrido.
«Ci sediamo?» chiedo. «Sono stanca.» Lo sono sempre. Ho due occhiaie che riesco a cancellare soltanto con due dita di eyeliner.
«D'accordo.»
Si sistemiamo su una duna di sabbia, il viso rivolto alla striscia di oceano che bagna Liverpool, alle spalle le sagome dei pini anneriti dal tramonto. Il sole è basso sull'orizzonte, un occhio infuocato che brucia come una ferita aperta. Si sta bene, per essere aprile, o forse sono soltanto le braccia di Brandon intorno a me a farmi sentire al caldo, come avvolta da una coperta.
«Non voglio tornare indietro» mormora lui. Le sue parole se le mangia il vento.
Gli scocco un'occhiata. So di cosa sta parlando, e vorrei – disperatamente – cancellare quell'ombra nei suoi occhi. Un'ombra che non si accorda con Brandon, affatto.
Lui è l'unico spiraglio, l'unica lama di luce che riesce a spingersi nel buio che ho dentro. Nei demoni, nei fantasmi, nella mia devastazione. Nel mio cuore, nero come una macchia d'inchiostro che ogni giorno si allarga sul mio petto.
«Ancora?» gli domando, e lui sa a cosa mi riferisco.
Annuisce, spostando lo sguardo sulla sagoma di un vecchio sul bagnasciuga. Indossa una giacca antivento e passeggia da solo, senza guardare nessuno. «Ieri sera è stato l'inferno» si lascia sfuggire. Brandon non lo fa mai. Non si lascia mai andare. È una di quelle persone che non si crogiolano nel dolore, che non versano mai una lacrima. Lui non vuole la compassione di nessuno. «L'ha picchiata, di nuovo. Sento ancora le sue urla.»
«Porco bastardo.» Stavolta non riesco a trattenermi. Mi esce dalle labbra prima che possa rendermene conto, ma ormai è troppo tardi. Non gli chiedo scusa, perché lo penso davvero. E lo pensa anche lui. Solo, non ha il coraggio di dirlo ad alta voce. È la condanna di quelli come lui: di quelli che sono troppo educati persino per arrabbiarsi. Ma io, che lo conosco, so che la sua non è finzione: lui è proprio così. Limpido, cristallino come uno specchio d'acqua. «Bran… devi fare qualcosa» aggiungo. Buffo, detto da una come me. Devi fare qualcosa. Io, che non ho neppure il coraggio di affrontare me stessa se non ho dell'eroina in corpo. Una vigliacca, ecco cosa sono. Una troppo spaventata dalla vita per fare davvero qualcosa.
La mascella contratta, lo sguardo fisso. Sento il corpo di Brandon tendersi come una fune. «Non è così facile. Lo sai.»
«Deve finirla. Ora.»
Lui si gira, lentamente. Sento il suo respiro sulla guancia, il vento che spinge ciocche dei suoi capelli contro i miei, quasi bianchi a contrasto. «Gail» mormora. E per la prima volta, la sua voce è spezzata. «Non ce la faccio più. Se la tocca un'altra volta… io… io…» Dillo, Brandon, avanti. Dillo che gli taglierai quel cazzetto moscio che si ritrova. Il cazzetto moscio di un uomo moscio che non sa far altro che ubriacarsi per dimenticare la sua vita di merda e poi sbattersi la figlia, mentre nell'altra stanza il figlio si copre le orecchie per non sentire le urla. «… Io lo ammazzo.»
Cristo, e io ti aiuto.Ecco perché il mondo va a puttane. Ecco perché fa tutto schifo. Ecco perché ho solo voglia di morire.
E in mezzo a tutto questo schifo, io davvero non so dove lui trovi la forza di andare avanti.
Ci ha provato, Brandon, a fermarlo. Una volta. La seconda volta è finito in ospedale con una costola fratturata e un occhio nero. Caduto in scooter, ha detto suo padre agli infermieri. Quelli hanno annuito e hanno guardato Brandon con condiscendenza, pensando certamente a cose come i ragazzi d'oggi non stanno più coi piedi per terra. E di certo non immaginando che le avesse prese di santa ragione dal padre per avergli impedito di violentare la sua sorellina.
Mi accendo una sigaretta.
Aria di mare e nicotina. Quasi un ossimoro. Come me e Brandon.
Fa una smorfia, storcendo la bocca. «Non riesci proprio a farne a meno, vero?» Il momento è passato, come niente fosse successo.
Scuoto la testa e lascio uscire una nuvola di fumo.
Lui mi osserva in silenzio, io tengo gli occhi puntati sul mare e sul cielo su cui il tramonto stende tendaggi di luce vermiglia. Come il sangue. Vorrei poter assorbire questo momento, raccoglierlo dentro di me come un segreto, come quella conchiglia. Sento lo sguardo di Brandon addolcirsi. Lo sento proprio, sulla mia pelle, quasi fosse una carezza. L'istante dopo avverto le sue labbra posarmi un bacio, leggero come una piuma, sulla tempia. «Non voglio perderti.»
La sua voce è tornata salda. Ma sembra volermi dire: Resta con me. Almeno tu.
 
 

***

 
 
 
 
Il cesso sporco di una discoteca, Chris e io chiusi a chiave, una siringa in due e il bisogno folle di respingere quest'apatia nelle vene, ricacciandola indietro, da dove è venuta.
Mentre Chris inizia a scaldare il cucchiaio con la minuzia di cui soltanto lui è capace, nel limbo di frenetica eccitazione che precede ogni buco, i miei pensieri vanno alla ricerca delle parole di una canzone, le afferrano e le tirano verso di sé, e ha la voce degli Alice in Chains:

Down in a hole and I don't know if I can be saved
See my heart I decorate it like a grave
You don't understand who they
Thought I was supposed to be.
Look at me now a man
Who won't let himself be.
 
Perché è così: io sono giù, in basso, così in basso che non c'è più speranza, non c'è salvezza, non c'è soluzione. Non più. Io sono nell'abisso più nero, nel baratro senza fondo, nella rovina di quelli come me, senza dèi e senza eroi, di quelli che si credono invincibili nel sentirsi esplodere la vita dentro, quando in realtà è intorno a loro che esplode, e loro restano lì, a osservarla passare come dal finestrino di un treno senza stringerla tra le dita nemmeno un istante.
Nella mia testa prendo a calci il mondo quando in realtà è il mondo a prendere a calci me. Nella mia testa non esistono il giusto o lo sbagliato, il bianco o il nero, la realtà o la finzione; quello che posso pensare è qui, esiste davvero, non è astrazione né utopia: è la vita come me la immagino, ed è la vita come è realmente. Succede come ogni volta che appoggio la matita su un foglio bianco, e la mia immaginazione prende consistenza, si concretizza in linee e curve fino a formare il disegno perfetto.
E io inciampo ogni volta nei miei stessi piedi, e corro, cerco di stare al passo con la vita, ma non ci riesco mai, e allora trovo il ritmo giusto, la strada giusta in una siringa. Una siringa è capace di portarmi nel quieto limbo di pace della mente. Mi trascina in acque tranquille, su campi mossi da un vento fresco che parla di giorni migliori e sogni non etichettati già come fallimenti. Non m'importa più della politica, delle grida di mia madre, della pubblicità, del tempo o dei Sex Pistols.
Esiste solo il silenzio.
Finalmente, il cucchiaio con l'ero è pronto. I neon sciacquano di una sfumatura spenta, opaca i capelli chiari di Chris, che gli circondano il viso come lembi di cirri fumosi, quelli che corrono sui cieli di Liverpool in estate, facendo a gara con i gabbiani. Mi guarda negli occhi, mi sorride. Grigio nel grigio, come sempre. Chris è il mio specchio, è il fratello che non ho mai avuto né ho voluto trovare in nessun altro. Lentamente, con le sue dita affusolate, prende la siringa e le fa aspirare il liquido. Osservo ipnotizzata il cucchiaino che si svuota, che riempie il cannello di vetro, e che tra poco – questione di qualche istante – mi entrerà in circolo, mi pomperà nel cuore, nelle ossa, fino al midollo, dentro l'anima.
Chris mi scocca un'occhiata preoccupata, scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte. «Stai a rota?» mi chiede, la voce bassa, dolce, appena incrinata. So quanto anche lui ne abbia bisogno. So che qui dentro è forse quello che avrebbe più diritto a spararsi il buco per primo. Ma io davvero non ce la faccio più. Io, se non riesco a infilarmi quell'ago sotto la pelle, io giuro che impazzisco – io muoio. È questo che fa l'eroina: distrugge tutto. I legami, l'amore, gli affetti, le persone. Esisti soltanto tu e il bisogno intollerabile, ossessivo dell'eroina, che sembra inghiottire ogni cosa.
Non riesco a pensare ad altro. Mi faccio una pera e per un po' smetto di pensare. Ma quando l'effetto passa, ne voglio un'altra, e allora devo racimolare abbastanza soldi per recuperarla, e non sono mai abbastanza, e finisco per entrare in paranoia e poi in astinenza. Ed è un'agonia senza fine.
Annuisco appena, e questo è sufficiente a Chris per capire. Mi sfilo la giacca di pelle, mi siedo sui talloni e gli porgo il braccio nudo, costellato di cicatrici, tracce di buchi rimarginati male e che ora rimarranno per sempre. Ogni volta che li riguarderò mi ricorderò tutto, ogni istante della mia vita di merda.
Con l'altra mano mi appoggio al bordo del water e cerco di concentrarmi sulle punte dei dr. Martens, mentre Chris mi stringe l'avambraccio con il laccio emostatico e, con le dita, inizia a massaggiare la vena.
«Ci sei?» mormora, la mano che regge la siringa ferma, sospesa a qualche centimetro dalla mia pelle.
Non ci sono più, vorrei rispondere. Ma non lo faccio. «Vai» dico soltanto, e chiudo gli occhi. Lì, dietro le mie palpebre, non può più raggiungermi nessuno. Guardati, penso. Guarda cosa sei diventata, guarda cosa sei arrivata a fare per sentire qualcosa, qualsiasi cosa che non sia il vuoto e la paura e la solitudine.Non mi faccio pena. Mi faccio schifo. Mio padre non l'avrebbe mai permesso.
Ma mio padre non c'è più.
Come me.
 
 

***

 
 
Le luci impazzite della discoteca s'infrangono sui corpi intorno a me come onde di un oceano in burrasca. Mi lascio semplicemente trasportare dal ritmo che sale, dai bassi martellanti, dalla folla che si muove. I fari colorati violano la sicurezza delle mie palpebre a singhiozzi, lasciandovi aloni simili a macchie d'inchiostro; si sfaldano in tanti frammenti, come le facce di un caleidoscopio.
Ma io stasera sono di nuovo invincibile, di nuovo lontana dal precipizio. Per qualche ora farò addirittura compagnia alle stelle, dove sta quel Dio lontano in cui non credo più, quel Dio che forse non c'è mai stato.
Continuo a muovermi, getto la testa all'indietro, allaccio le braccia intorno al collo di Brandon. I nostri corpi si scontrano, il calore si espande, mi riempie in ogni cellula.
Anche Brandon, questa sera, sembra volersi lasciare andare. Balla con abbandono, guardandomi negli occhi illuminati a tratti dalle luci, e mi tiene stretta a sé nella spinta della folla.
Stabilità. Equilibrio. Li trovo soltanto nella sua stretta, nelle sue labbra, nei suoi occhi, dello stesso colore delle foglie in autunno che cadono dagli alberi e riempiono i viali di Liverpool.
Brandon mi prende tra le braccia e mi bacia. Ed è la meraviglia, è la bellezza, è la magia. È un calore che si scioglie in ogni fibra del mio corpo come se fosse acqua. Se questo non è amore, io non so cosa lo sia.
Nello stordimento della mia mente, impiego qualche istante a capire che, insieme al sapore familiare di Brandon, nella mia bocca ce n'è un altro: quello salato delle lacrime. E impiego un altro istante per capire che sono sue, quelle lacrime, non mie. Premo i palmi delle mani contro la sua schiena e mi stacco, cercando di scorgerlo in viso, di capire, di sapere... Un viso vuoto, ciocche di capelli scuri a ricadergli scarmigliate sulla fronte, un viso che appare e scompare nei flash della discoteca e che per un terribile momento mi sembra quello di un estraneo.
«Brandon» urlo, per farmi sentire nel caos di questa musica che pompa e questi corpi che vibrano. «Brandon» ripeto, e la mia voce si disperde nell'aria.
Lui ricambia il mio sguardo, la presa delle sue mani intorno ai miei fianchi che diminuisce. Ed è il dilatarsi di un momento terribile, in cui ci guardiamo e siamo immobili al centro della pista come nell'occhio del ciclone e io ho un presentimento – lo so, lo sento –, la sensazione, il presagio di essere sul punto di perderlp, come la sabbia che scorre inevitabile verso il fondo della clessidra, e di non poter far niente per evitare che accada.
«Ti prego» sento me stessa dire. E forse l'ho pensato soltanto. Perché non basta, non basta a fermarlo. Forse non basterà mai, penso distrattamente, come un pensiero separato, forse non basterà mai pregare perché le cose non accadano. Forse bisogna fare qualcosa, invece che guardare la vita che scorre. Anche le sue mani scorrono, ma lungo le mie braccia, con una lentezza che mi sembra esasperante, in un gesto che mi sembra non finire più, e poi si staccano. Un lampo, il martellante ritmico di una canzone che nelle mie orecchie non ha alcun senso, il buio.
Flash. E l'istante dopo Brandon è inghiottito dalla folla.
 
Down In A Hole, Losin' My Soul
Down In A Hole, Losin' Control
I'd Like To Fly
But My Wings Have Been So Denied

 
Un uccello di carta senza ali per volare, ecco cosa sono. Intrappolata qui, tra questi muri, tra queste persone, tra questo silenzio che si gonfia nella mia mente come un'onda e che – lo so – precede il buio, la caduta, la resa. Un po' come quando ti svegli dopo un incubo, nel cuore della notte, e sei solo e spaventato e non riesci a liberarti dell'odore della paura, che sembra rimanerti addosso come una seconda pelle.
Dov'è finito Brandon? Cos'è successo? Perché se n'è andato?
«Gail!» Qualcuno mi chiama, non so chi sia, non m'interessa. A malapena mi accorgo della gente intorno che si muove, a malapena sento la musica. A malapena sento me stessa. Soffoco, sto soffocando. Non c'è aria, Brandon se l'è portata via tutta. Come quando tiri via il tappo che blocca l'acqua nel lavandino.
Una mano si chiude intorno al mio polso e mi strattona in avanti con forza. Impiego qualche istante a realizzare che si tratta di Chris. Nonostante lo sfarfallare delle luci stroboscopiche, vedo chiaramente i suoi occhi, la pupilla ridotta a una punta di spillo, il grigio che ha inghiottito tutto il nero, l'eroina che ha inghiottito tutti i pensieri. E lo sappiamo entrambi, che ci stiamo scavando dentro così, che in questo modo ci stiamo distruggendo lentamente, giorno dopo giorno. Eppure continuiamo lo stesso, perché forse farci del male è l'unico modo che conosciamo per sentire o per smettere di farlo, o entrambe le cose, non ne ho la più pallida idea. 
La morsa che mi chiude lo stomaco sembra un mattone. «Ho visto Brandon allontanarsi» sento urlare nel mio orecchio. «È successo qualcosa?»
Non lo so, vorrei rispondere, ma mi manca la voce. Per cui mi limito a scrollare la testa, avvertendo la pesantezza familiare dei capelli lungo la schiena, e afferrandolo per i fianchi riprendo a muovermi a ritmo con la folla.
Non voglio pensare, non devo farlo. Devo soltanto lasciarmi avvolgere dalla musica, dai bassi martellanti di una canzone che mi cadono dentro come pioggia, che mi fanno annegare in una terra straniera.
Sospesa, sono sospesa, sto veleggiando verso il soffitto come una nave che va alla deriva. E le onde s'infrangono intorno a me e io vado avanti, inesorabile, verso il punto in cui mi sfalderò su una spiaggia.
Tutto il resto è confuso, avvolto da una nebbia che assomiglia a un sogno, ma che non potrebbe essere più diverso da un sogno. È reale, crudo e doloroso come soltanto le cose reali possono essere. Ricordo le luci, che esplodono dentro le mie palpebre come fiori, ricordo Chris, il calore familiare del suo corpo. Non ricordo nient'altro, soltanto la musica che sembra rallentare nelle mie orecchie e diventare sempre più cavernosa, come se mi arrivasse da una grande distanza. Ricordo di aver pensato nuovamente alla sabbia che scorre nella clessidra, e che il tempo è quasi scaduto.
E poi, di colpo, non sono più nella discoteca ma sono fuori, ferma sul marciapiede freddo, sul ciglio della strada, senza neppure ricordare come ci sono arrivata. Non esistono più i fasci dei fari colorati che s'infrangono su lembi di folla. Ora al loro posto ci sono le spie azzurre della sirena di un'ambulanza, che feriscono i miei occhi e il mio petto come coltelli.
Sono aggrappata a un lembo della giacca di Chris. Voglio raggiungere quella fottutissima ambulanza, ma lui mi trattiene con forza. Qualcuno sta urlando.
Forse sono io.
Un uomo mi sta facendo delle domande. Chris gli risponde con una rabbia che non gli appartiene, prende le mie difese. Afferro soltanto lembi di frase: «Overdose» e «Trovato in bagno» e «Lei lo conosceva?»
Ma non riesco a trovare nessun nesso logico. Quelle parole, alle mie orecchie, non hanno senso. Brandon non ha niente a che fare con quelle parole. Non ne ha mai avuto. Non posso staccare gli occhi dal bianco di quel lenzuolo, che delinea la forma di un corpo che vorrei non conoscere.
Ho sempre odiato il bianco: mi ricorda una tela che dev'essere riempita di colore, ma tutte le volte, tra quel vuoto e quel momento, il momento in cui libero la mia immaginazione, c'è un abisso profondo chilometri, lungo quanto la Muraglia Cinese.
Ho smesso di sentire le lacrime scorrermi calde sul viso. Non sento neppure più il mio corpo. Due infermieri – fantasmi nella luce sporca e giallastra dei lampioni – caricano il corpo sull'ambulanza e, nel farlo, il lembo del lenzuolo si scosta, rivelando una zazzera di capelli castani.
E allora capisco di non aver capito. Di aver capito troppo tardi che i suoi occhi erano un addio, erano una fine. Che con quello sguardo, Brandon se n'era andato già da un pezzo. Che stava semplicemente cercando il coraggio di lasciarmi.
Se l'avessi saputo, l'avrei stretto più forte fino a tenerlo con me, dentro di me.
Se l'avessi saputo, me ne sarei andata con lui.







 

  
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