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Autore: Darik    05/04/2013    2 recensioni
La pace sembrava finalmente tornata al Mahora, ma ci sono sentimenti che durano molto, forse troppo, nel tempo, superano ogni difficoltà, e pur di vincere sono pronti a qualunque cosa, sentimenti che possono appartenere anche a persone diverse.
Seguito de 'La principessa e il cavaliere'
Genere: Avventura, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1° Capitolo
Il dottore andava avanti e indietro per il suo ufficio, sul volto era stampata un’espressione di stupore e rabbia.
Quando bussarono, andò ad aprire con passo svelto.
“L’avete trovata?”, domandò ansioso.
L’infermiere cercò di evitare lo sguardo del suo superiore.
“No, dottore. Mi dispiace, ma non c’è traccia di lei in tutto l’ospedale”.
“Ma questo è inconcepibile! Come ha fatto quella ragazza ad alzarsi e andarsene con quella ferita?! Avrebbe dovuto restare ricoverata per almeno tre mesi!”
Pensò comunque che potesse davvero aver lasciato la struttura sulle sue gambe, visto cosa aveva fatto prima.
“Mah, non c’è scelta allora. Dovremo diramare un identikit alle autorità! Un caso così sconvolgente non può essere abbandonato!”
L’altro alzò timidamente la mano. “Mi scusi, dottore… ma non sarebbe il caso di lasciar perdere?”
Davanti allo sguardo esterrefatto del medico, subito aggiunse: “Voglio dire, in fondo quella ragazza cosa ha fatto di male? E come potrebbe farne?”
“Tu non capisci!”, fu la dura replica. “Quella ragazza… era morta! Andata! Eppure è ritornata in vita, e si è ripresa in modo sconcertante dopo neanche un giorno, un giorno! Non abbiamo neppure potuto avvertire i familiari, non avendo trovato i suoi documenti. Con una ferita come quella, che avevamo appena cominciato a ricucire, quella tipa ha aggiunto l’impossibile all’impossibile: ha lasciato l’ospedale. Nessun essere umano avrebbe potuto riprendersi e uscire da qui in quel modo, in quelle condizioni. C’è qualcosa di… innaturale! E voglio sapere di cosa si tratta!”
L’uomo aveva parlato con tanta foga da essere diventato rosso in viso, quindi si fermò per riprendere fiato.
“Va bene…”, azzardò ancora il giovane infermiere, “però ritengo che lei stia esagerando”.
“Non capisci”, rispose il medico scuotendo il capo. “Non capisci. Perché non l’hai vista. Ma ora bando alle ciance, chiama gli uffici dell’amministrazione, fortuna che di quella ragazza abbiamo scattato una foto dopo la sua resurrezione”.
Il giovane fece la chiamata col telefono sulla scrivania del suo principale, sotto lo sguardo ansioso di quest’ultimo, desideroso di passare la foto della scomparsa alle autorità competenti. Non gli importava di eventuali violazioni della privacy, doveva sapere cosa nascondeva, e non solo per interesse scientifico.
“Quando ha riaperto gli occhi, ha mormorato un nome, ha sorriso e fatto uno sguardo… che mi ha messo paura! C’era una follia lucida e… soprannaturale in quello sguardo. Temo che possa essere un pericolo”.
“Non capisco”, disse l’infermiere riportandolo alla realtà. “Non risponde nessuno, eppure agli uffici ci deve essere qualcuno sempre”.
Il dottore percepì un brivido lungo la schiena. “Vai a vedere, subito!”
Fu subito obbedito, e rimasto solo, osservò intensamente il telefono, che squillò dopo pochi minuti e lui si precipitò a rispondere.
“Allora?”
“Dottore… non so come dirlo, ma la foto è stata rubata”.
“Che cosa?!”
Dopo qualche attimo d’incertezza, l’infermiere continuò: “Inoltre, qualcuno ha cancellato anche dai nostri computer quella foto. Abbiamo quindi perso il volto di quella ragazza”.
“Dannazione, ma le addette agli uffici dormono?! Comunque, loro hanno inserito quei dati nei computer, giusto? Dovrebbero ricordarli”.
Anche lui ricordava il volto della ragazza, avrebbe potuto far realizzare l’identikit, anche se difficilmente un disegno valeva quanto una foto.
Ci furono ancora alcuni momenti di silenziosa incertezza, attraverso la cornetta si sentì l’infermiere deglutire.
“Dottore… non sono qui, non ho trovato le due infermiere di turno. Ora vado a cercarle”.
Il dottore rimase annichilito e poggiò la cornetta sulla scrivania.
“Mio Dio, quale creatura sta adesso girando là fuori?!”
Un rumore attirò la sua attenzione sul ciglio della porta: l’uomo sussultò e indietreggiò spaventato.
“Tu… sei ancora qui! Che cosa vuoi?!”

L’infermiere, dopo aver chiesto in giro senza avere alcune risposte, decise di tornare nell’ufficio e di controllare meglio. C’era, in effetti, la porta dello sgabuzzino ancora chiusa, alla quale in precedenza aveva solo bussato.
Ora decise di entrare, e non appena ebbe aperto la porta, indietreggiò con un balzo e cadde col sedere per terra: le due infermiere scomparse erano davvero lì, ed erano morte, una con un tagliacarte conficcato nella fronte e l’altra con un filo, forse di telefono, legato intorno al collo.
Tremando, corse al telefono per chiamare il dottore, ma nessuno gli rispose.

SEI MESI DOPO
In quei giorni che precedevano l’estate, la classe della III A, sotto la guida di Negi Springfield, si stava preparando per l’ultimo test.
Durante le esercitazioni, la serietà era stata ammirevole, ma nell’intervallo, le ragazze avevano avuto come fretta di recuperare il tempo perso, tra chiacchiere, schiamazzi, scherzi, collaudi assai pericolosi di Hakase, Hasegawa che cercava di aggiornare il sito di Chiu, le cheerleader che si allenavano sui banchi, e ogni altra cosa che delle ragazze possono fare in un’aula delle medie. Più altre cose particolari.
Setsuna stava parlando con Konoka, che le descriveva con grande entusiasmo l’ultimo abito che aveva comprato.
“Setsy, dovresti vederlo, è un abito di colore rosso decorato con fili d’oro, e mi va d’incanto”.
“Non ne dubito”, rispose Setsuna, pensando comunque che la sua Konoka era così bella, che qualunque abito le sarebbe andato bene.
“Senza abiti, poi, sarebbe ancora… NO!”
“Setsy, sei diventata tutta rossa”.
“Niente, niente, è il caldo. Ehi, guarda, Makie ti sta salutando”.
Konoka si girò e Setsuna si prese a schiaffi per punirsi.
“Makie non mi stava salutando… ma che hai fatto al viso? Quei segni rossi sembrano schiaffi”.
“Zanzare!”, rispose prontamente la spadaccina.
“Setsuna, Setsuna”.
Asuna si avvicinò al banco delle sue amiche.
“Mi sembri preoccupata. Cosa è successo?”
“Mentre tornavo dal bagno, ho trovato questa busta col tuo nome attaccata alla porta della nostra aula”.
Sakurazaki lesse il foglio nella busta, accigliandosi man mano.
“Cose gravi?”, domandò con preoccupazione Konoka.
“Il club del drago nero, quelle carogne”.
“Drago nero? Parli di quel club di kendo trasferitosi ultimamente al Mahora?”
“Esatto. Non sono altro che un gruppo di teppisti, seguono la legge del più forte e sono pronti a tutto pur di vincere. Se c’è una cosa che non sopporto, è il vedere sporcati i nobili ideali del kendo”.
“E… e cosa vogliono da te?”, chiese con crescente apprensione Konoka.
“Una sfida. Siccome sono la migliore spadaccina tra gli studenti, vogliono battermi per dimostrare che sono i migliori”.
“Cosa farai allora?”
“Che domande, Asuna: andrò”.
“Ma è pericoloso!”, esclamò Konoka prendendo la sua cara amica per mano e facendola arrossire vistosamente. “Se quelle persone sono così cattive, non puoi attenderti uno scontro leale”.
“Non preoccuparti, la sfida si svolgerà nella palestra, io contro il loro campione, il tutto davanti a dei testimoni. Sarà difficile che facciano giochetti, comunque se ci sarete voi, io non temerò nulla”.
“Contaci!”, esclamò Asuna battendo con forza i pugni sul banco.

La palestra del club di Kendo era in quel momento nettamente divisa in due: da una parte c’era il club del drago nero, quindici ragazzi e sette ragazze che indossavano bogu neri, e sembravano specializzati nel fare espressioni malvagie e arroganti.
Dall’altro lato c’era Setsuna, con indosso un bogu bianco, e dietro di lei, a incitarla, c’erano Negi, Asuna, Konoka, Nodoka, Yue, che da un bicchiere beveva un succo marrone-azzurro, le gemelline che sventolavano delle bandierine giapponesi, e Kaede.
Dal gruppo avversario, si fece avanti un ragazzo alto quasi due metri, dalla corporatura possente, che con passi decisi e rumorosi andò al centro della palestra, e Setsuna fece altrettanto: il drago nero scrutò sprezzante la spadaccina, molto più bassa ed esile di lui: sembrava che potesse spezzarla in due come un fiammifero.
“Se tu sei il massimo esempio che può sfornare il kendo dei rammolliti, allora ho già vinto”.
Setsuna non si scompose: “Qual è il tuo nome?”
“Shingo Kuruma”, rispose con tono pomposo. “Ascolta, nanetta, sono il re del kendo, colui che ha battuto tutte le scuole del nord Giapp…”,.
“Per scrivere l’elenco delle persone che ho sconfitto, mi basta il nome, grazie”.
Forse quella della ragazza era stata solo una battuta, o forse no: in ogni caso fece infuriare Shingo, e il fatto che quelle parole fossero state pronunciate con serietà, segno che l’avversaria lo credeva realmente, lo fecero imbestialire al massimo.
“Ti schiaccio, insetto!”, urlò alzando, come se fosse una mazza, la spada di legno.
Setsuna rimase immobile, e proprio quando l’arma nemica stava per piombare sul suo capo, una strana luce illuminò i suoi occhi.

Satsuki aveva appena finito di preparare dei nikuman e ora, tenendoli dentro una borsa termica, li stava portando alle sue compagne nella palestra.
“Mi scusi, signorina”.
Satsuki fu raggiunta da una ragazza molto bella, snella e alta, con lunghi e liscissimi capelli neri, e sulle spalle la custodia di una spada. Indossava quella che sembrava una divisa liceale, tuttavia diversa da quella del Mahora, e stivali nero col tacco a spillo.
Non le sembrava di conoscerla, comunque la accolse con gentilezza. “Mi dica pure”.
“Potrebbe gentilmente indicarmi la palestra di kendo?”
“Sto andando proprio lì, può seguirmi se vuole”.
L’altra rispose facendo un inchino, mentre all’orizzonte iniziarono ad apparire delle nuvole nere.

Quel pomeriggio in palestra erano accadute due cose davvero incredibili accomunate dalla rapidità.
La prima era stata la velocità con cui Setsuna aveva sconfitto il suo avversario.: le era bastato, meno di un attimo prima di essere colpita sulla testa, scansarsi affinché il colpo nemico le passasse affianco: poi, con tre colpi in rapidissima successione dati sulle spalle e sulla testa di Shingo, aveva fatto cadere a terra, come se fosse un sacco di patate, il suo altezzoso avversario.
L’altra cosa rapida era stato il mutamento di espressione dei membri del Drago Nero: dall’arrogante certezza della vittoria allo sbigottimento totale per quella sconfitta netta e rapida del loro leader.
“Il kendo è velocità e precisione, non semplice forza bruta, ricordatelo”, gli disse severamente Setsuna, che tornò dai suoi compagni. Essi le si strinsero intorno per congratularsi, e Konoka la abbracciò con forza.
“Setsy, sei stata perfetta. Sono non solo felice, ma anche orgogliosa di averti al mio fianco!”
“Uh, grazie… lady, no, princip…, no… Konoka”.
Il gruppo della vincitrice lasciò il luogo, mentre i compagni dello sconfitto si radunarono intorno a lui per farlo riprendere.
Quando si svegliò, Shingo prima si guardò intorno smarrito, poi assunse un’espressione che definire furiosa sarebbe poco.
“Quella puttana la dovrà pagare cara!!”

Fuori dalla palestra, si videro venire incontro Satsuki e una sconosciuta.
“Oh, avete già finito?”
“Sì, Satsuki, Setsy è stata bravissima!”, spiegò Konoka stringendosi all’amica, parecchio imbarazzata.
“Avrei dovuto immaginarlo”, rispose dolcemente la miglior cuoca del campus. “Comunque, qui ho dei nikuman appena fatti e sono tutti per voi”.
L’invito fu ben accolto e divorare quei nikuman fu la terza cosa rapidissima della giornata.
“A proposito, Satsuki, chi è quella signorina?”, domandò Negi.
La sconosciuta era rimasta in disparte, un passo indietro, a osservare con calma e in silenzio.
“Non lo so, l’ho incontrata poco prima”.
“Perdonatemi”, esordì l’altra, “avrei dovuto presentarmi prima. Sono il nuovo capitano del club di kendo dell’università”.
Fece un profondo inchino. “Mi chiamo Saeko Busujima, lieta di conoscervi”.
Le ragazze e Negi risposero all’inchino, si presentarono e rimasero colpite dalla sua bellezza e dall’eleganza della sua snella figura.
Setsuna invece la squadrò leggermente.
“Mm, ho come l’impressione che questa qui prima si fosse imbambolata a osservare proprio me”.

  
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