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Autore: GretaJackson16    13/04/2013    0 recensioni
Cosa succede se una vittima viene trattata con gentilezza da quello che dovrebbe essere il suo carnefice?
Che succede se un ragazzo dei quartieri ricchi di Miami finisce in una misteriosa base di vampiri in una foresta immersa nel nulla?
E se il suo "carnefice" non fosse un vampiro spietato e crudele come tutti noi lo immaginiamo?
Amore, intrighi, fratelli, passato, presente, cuore, scelte e felicità.
Leggete e scoprirete come va a finire...
Questa storia mi è stata ispirata dalla oneshot di corvetta91, Love in a Grave.
Certo, è molto diversa, ma leggendola mi ha ispirato questa storia e ho usato dei personaggi con gli stessi nomi (i due protagonisti) anche se le loro caratteristiche psicologiche sono diverse da quelle scritte da corvetta.
Le ho chiesto il permess ed è stata tanto gentile da concedermi il permesso di pubblicare questo mio "sfogo di fantasia".
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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Ciao a tutti!! :)
Ora, non sto tanto a ciarlare e vi lascio alla storia. quello che volevo dire sulla mia ispirazione l'ho detto nell'introduzione, quindi non dico nient'altro e ringrazio molto corvetta91 per avermi permesso di pubblicare la storia che prende ispirazione dalla sua one-shot.
ora vado, e vi lascio leggere...

P.S. la canzone è Thnks fr th mmrs dei Fall Out Boy


CAPITOLO 1

 

La luce del sole entrava, leggera e delicata, dalla finestra.

 

 

I'm gonna make you bend and break
Say a prayer, but let the good times roll
In case God doesn’t show

(let the good times roll, let the good times roll)

 

 

Finiva la sua corsa e illuminava il letto a due piazze che c’era in una delle tante ville di quel quartiere di Miami.

Uno di quei quartieri per ricconi, tanto per intenderci.

Purtroppo per me, i miei genitori erano dei “ricconi”. Dico purtroppo perché praticamente erano più interessati ai loro soldi che ai loro figli, uno dei quali sono io, il tipo su quel letto e che stava maledicendo il sole.

 

 

I want these words to make things right
But it's the wrongs that makes the words come to life

"Who does he think he is"
If that's the worst you've got better put your fingers back to the keys

 

 

Questa è la mia storia. O meglio, era la mia storia fino a che non farete conoscenza di quell’altro tipo che mi sta appresso ormai da tempo.

Quindi è meglio dire che questa è la nostra storia.

Il lui in questione vuole fare il misterioso e lasciare raccontare a me, fino a che non farà la sua entrata in scena versione super eroe.

 

Comunque, stavamo dicendo che c’era un tizio su di un letto che il sole aveva interrotto dal suo sonno in una di quelle case da ricconi di Miami.

Non criticare! Sto ripetendo tutto perché con la tua interruzione nel corso dei miei pensieri rischi di aver fatto perdere il filo a chi legge!

 

Torniamo a noi, per l’ennesima volta.

Come avrete intuito, io sono il tipo che stava dormendo, e stavo maledicendo quella dannatissima stella, responsabile della vita sulla terra.

Tentai di aprire gli occhi, dico davvero, ma le palpebre erano di marmo, per cui rinunciai.

Vabbé, inutile dire che avevo rinunciato al primo tentativo.

Cercai di ritornare nel regno di Morfeo, ma inutilmente, perché la mia radio sveglia aveva aperto uno nuova giornata di scuola e falsi sorrisi.

 

 

One night and one more time
Thanks for the memories
Even though they weren't so great
"He tastes like you only sweeter"

One night and one more time
Thanks for the memories
thanks for the
memories

"He, he tastes like you only sweeter"

Been looking forward to the future
But my eyesight is going bad.
And this crystal ball.
Is always cloudy except for (except for)
When you look into the past (look into the past)
One night stand
One night stand

One night and one more time.
Thanks for the memories.
Even though they weren't so great.
"He tastes like you only sweeter"


One night and one more time.
Thanks for the memories.
Thanks for the memories.
"He, he tastes like you only sweeter"

They say I only think in the form of
Crunching numbers in hotel rooms.
Collecting page six lovers.
Get me out of my mind.
Gets you out of those clothes.
I'm a liner away from.
For getting you into the mood

(wa-oooohhhhh)


One night and one more time.
Thanks for the memories.
Even though they weren't so great.
He tastes like you only sweeter.

One night and one more time.
Thanks for the memories.
Thanks for the memories
he,he tastes like you only sweeter

(ooooooohhh)

One night and one more time.
Thanks for the memories.
Even though they weren't so great.
He tastes like you only sweeter.

One night and one more time.
Thanks for the memories.

Thanks for the memories
He, he tastes like you only sweeter
(ooooooohhh)

 

 

Quando finii di prepararmi e scesi in cucina, ovviamente non trovai nessuno ad attendermi, visto che mia sorella dormiva ancora.

I miei genitori non si preoccupavano nemmeno di controllare se io e Lily ci fossimo svegliati per andare a scuola, figurarsi se si preoccupavano per la nostra colazione o per il fatto che trovassimo la casa vuota.

 

Ormai ci eravamo abituati a svegliarci e scoprire che i nostri genitori erano già diretti in ufficio. Dopo tutto questo tempo, nostra madre aveva anche smesso di scrivere bigliettini ipocriti del genere “Vi voglio bene! Buona scuola! Ci vediamo stasera! Baci baci!” perché nessuna di queste cose poteva minimamente essere realista.

Non si preoccupavano dei nostri voti e di cose che ritenevano stupide come il bacio della buona notte o del buon giorno.

Semplicemente io e Lily eravamo diventati adulti e indipendenti all’età di undici anni, considerando che prima era la babysitter a occuparsi di noi.

 

In poche parole, non avevamo dei genitori.

O, più precisamente, ce li avevamo, ma non potevano sfregiarsi di questo titolo nel modo più completo del termine.

Perché sì, ci avevano creati, ma mai avevano svolto tutte quelle mansioni che vengono dopo l’andare a letto insieme e il partorire, del genere pulire il nasino quando cola, andare alle recite dell’asilo, guardare un film insieme, raccontare le nostre giornate davanti ad un piatto caldo la sera, ridere e scherzare davanti ad una rappresentazione teatrale per i genitori, andare a parlare con gli insegnanti qualche volta...(circa una volta all’anno, ma non sapendo né l’identità né la materia del tizio che avevano di fronte)

 

In altri termini, li consideravamo genitori nel senso più stretto del termine, dato che, per nostra sfortuna, avevamo i loro geni, ma mai avevamo potuto chiamarli genitori nel senso di educatori, persone che ti aiutano dopo i tuoi primi dolori d’amore, o quando devi superare l’adolescenza, o quando diventi una donna o un uomo veri e propri...

 

Fate conto che, quando mia sorella aveva avuto il suo primo mestruo, ero stato io a tranquillizzarla e a restare a casa con lei una mattinata intera perché aveva mal di stomaco, a spiegarle che non c’era da preoccuparsi, che era normale e tutti quei discorsi che normalmente è una madre a fare alla figlia spaventata dal cambiamento improvviso!!

Non il fratello! Che già ero traumatizzato di mio, dato che Lily mi aveva svegliato nel cuore della notte dicendomi che perdeva sangue.

Potete immaginare il mio spavento! Ero già pronto a chiamare il 911 quando mi ha spiegato meglio cosa aveva.

 

Lei non era mai stata imbarazzata a parlare con me di qualsiasi cosa, dato che praticamente lei aveva solo me e io avevo solo lei.

Forse l’unico famigliare che potevamo chiamare tale era nostro zio Jack, fratello di nostro padre.

Lui era una specie di artista che girava per gli Stati Uniti per fare spettacoli, quindi lo vedevamo poco, ma quando avevamo l’occasione di stare con lui, allora quelli diventavano un po' le nostre feste di Natale, perché ci divertivamo come pazzi.

Mi ero sempre chiesto come fosse possibile che lui fosse fratello di nostro padre, dato che lui era un avvocato super quotato,stimato e sempre in giacca e cravatta. Certe volte ironizzavo sul fatto che andasse a dormire vestito con la cravatta e il doppio petto.

Poi scoprì che lui e papà erano fratellastri, e non fratelli di sangue, per cui riuscii a capire come mai fossero tanti differenti.

Il primo identico alla nonna, l’altro la copia spiccicata del nonno, entrambi morti in un incidente d’auto quando loro avevano vent’anni.

 

Zio Jack era la pecora nera, sempre allegro, gentile e spiritoso con tutti, pronto a fare scherzi per tirare su il morale agli altri.

Molto spesso andava in alcuni centri per bambini malati di cancro o altre malattie molto gravi e faceva il clown o improvvisava spettacoli di magie per strappare loro un sorriso dopo ore di analisi o difficili terapie.

 

I nostri genitori non ci avevano più permesso di vederlo dopo che avevano scoperto che era gay, e avevano deciso che i loro pargoletti non dovessero avere contatti con una “persona deviata”, come l’avevano chiamato loro, quando in realtà, per noi, era l’unico degno di sfregiarsi del titolo di “zio” in tutto l’universo.

Mi sono sempre chiesto perché mai, dopo anni che ci ignoravano, improvvisamente ci volessero proteggere dall’unica persona che si era dimostrata degna del ruolo di parente, confidente, in un certo senso padre.

Anche se non potevamo vederlo, avevamo programmato con lui degli incontri segreti, in cui ci aveva fatto conoscere il suo fidanzato, un infermiere che lavorava in uno dei centri per bambini malati che aveva visitato.

Era un ragazzo davvero simpatico e gentile, e con quella coppia di innamorati ci avevamo passato un pomeriggio davvero divertente e speciale, da ricordare.

 

Ero completamente convinto che fosse giusto quello che diceva Jack sul fatto di aiutare gli altri quando ne avevano bisogno, anche senza pretendere nulla in cambio.

Spesso mi divertivo a seguirlo nella mensa per i poveri che c’era in periferia, e lì ci calavamo nelle parti dei distributori di cibo, di libri, qualche volta anche di coperte o di giornali, per fare in modo che anche quelle persone bisognose potessero trovare un lavoro.

 

Ci eravamo trovati nella situazione di preparare Agnese, una ragazza qualche anno più grande di me, per andare ad un colloquio di lavoro.

Agnese era una baby mamma, e aveva avuto la sua bambina quando aveva diciassette anni. Il padre era sparito e l’aveva lasciata da sola, ma lei non si era arresa e aveva deciso di tenerlo. I suoi genitori le avevano voltato le spalle, ma dopo che era nata Cathrin, la piccola era diventata la sua vita, il suo unico motivo per cercare di andare avanti.

Era riuscita ad avere un colloquio di lavoro dopo anni che cercava un occupazione. Ormai la bambina aveva quasi sette anni, ma non aveva certo intenzione di lasciarsi scappare l’occasione di trovare un lavoro stabile e smetterla di fare quei piccoli lavoretti per pagare l’affitto e i quaderni per la scuola di Cathrin.

Così, alla grande notizia, io e zio Jack l’avevamo accompagnata da un parrucchiere e in un negozio di vestiti. Poi avevamo pagato tutto il trattamento per tirarla a lucido e l’avevamo caricata su un taxi, mentre lei continuava a protestare per impedirci di pagare tutto quello, quando noi non l’ascoltavamo nemmeno.

Durante tutto il viaggio l’avevamo tempestata di consigli su come porsi, cosa dire e quando tirare fuori qualche frase filosofica per fare colpo.

Infine l’avevamo lasciata davanti all’ufficio dove avrebbe dovuto fare il colloquio, incrociando le dita e augurandole buona fortuna.

 

Dopo due ore, Agnese e Cathrin avevano l’affitto assicurato per come minimo due anni, dato che era stata assunta.

Io e zio Jack ci eravamo congratulati e lei ci aveva stretto in un abbraccio degno di mamma orsa, per poi invitarci a cena a casa sua, dato che diceva che era merito nostro se era riuscita ad ottenere un lavoro con contratto a tempo indeterminato. Avevamo cercato di fermarla, ma lei ci aveva già trascinato davanti al suo appartamento.

Ricordo che quello fu il momento in cui io e Jack ricevemmo la nostra ricompensa.

Quando Agnese aveva aperto la porta, una piccola bambina con i capelli rossi e delle dolci treccine le era venuta in contro e l’aveva stretta in un abbraccio. Noi fummo fatti accomodare in casa e presentati come amici della mamma, e la bambina fu davvero molto gentile con noi.

Mentre Agnese era in cucina a preparare la cena, poi chiese perché eravamo lì con lei, visto che non era stata avvisata.

Informammo la piccola Cathrin che la sua mamma aveva trovato il lavoro che stava cercando, e lei la strinse in un altro dolce abbraccio, congratulandosi con lei e dicendole che era la mamma migliore del mondo.

 

Le lacrime di felicità che fecero capolino sul viso di Agnese furono la ricompensa più bella che potessimo desiderare...

 

 

È da mio zio Jack che presi la mia passione per il disegno, arte che mi è sempre stata impedita di praticare da quel simpaticone del mio vecchio, perché io “dovevo studiare legge, come lui, come suo padre, come suo nonno...” eccetera eccetera. Il solito discorso, insomma.

Anche se i miei non l’avevano mai saputo, io continuavo a disegnare, a dipingere, a fare schizzi su qualsiasi cosa mi venisse in mente, lasciando correre la fantasia.

Mia sorella diceva che ero anche molto bravo, anche se io non ci avevo mai creduto, dato che mi consideravo solo un mediocre principiante.

 

E qui, gente, cominciano i guai.

Quando volevo un posto tranquillo per disegnare e trovare l’ispirazione, me ne andavo nel parco che si trovava dalle parti del mio quartiere, affacciato sul mare e poco frequentato da quella gentaglia piena di soldi che erano i miei vicini di casa.

È lì che tutto è iniziato.

La mia storia...

 

La nostra storia...

  
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