Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Maya98    15/04/2013    1 recensioni
Viviamo vite di specchi riflessi. Viviamo nel riflesso di qualcun altro. Non siamo noi a respirare, a muoverci, a decidere: noi non facciamo che copiare inconsapevolmente ciò che fa quel qualcuno dall’altra parte dello specchio. Ma anche se questo ci toglie ogni possibilità di libertà, è un modo per consolarsi, nel dolore, sapendo che là fuori, oltre il vetro, c’è qualcuno che sta soffrendo dannatamente come te.
Crossover!fic: Sherlock/Canone/MioDilettoHolmes con spiegazioni all’interno - Dreamlike!‘verse non-esattamente-science!fiction StrangeLock InTimeLock Vittorian/NewAge!Fic Post-Reichembach Angst una-specie-di-contorto-ACD!Tribute  Pre-Slash (torniamo alle origini) Relazione-Platonica-PiùOMeno e io vi ho avvisati!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Each time I fell, I fell for you'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Viviamo vite di specchi riflessi. Viviamo nel riflesso di qualcun altro. Non siamo noi a respirare, a muoverci, a decidere: noi non facciamo che copiare inconsapevolmente ciò che fa quel qualcuno dall’altra parte dello specchio. Ma anche se questo ci toglie ogni possibilità di libertà, è un modo per consolarsi, nel dolore, sapendo che là fuori, oltre il vetro, c’è qualcuno che sta soffrendo dannatamente come te.

Crossover!fic: Sherlock/Canone/MioDilettoHolmes con spiegazioni all’interno - Dreamlike!‘verse non-esattamente-science!fiction StrangeLock InTimeLock Vittorian/NewAge!Fic Post-Reichembach Angst una-specie-di-contorto-ACD!Tribute  Pre-Slash (torniamo alle origini) Relazione-Platonica-PiùOMeno e io vi ho avvisati!

“La mia curiosità mi sta spingendo a chiederle il suo nome, ma qualcosa mi dice che non dovrei farlo”.

 

Note iniziali:

Che cos’è questa cosa? Sinceramente non so rispondervi. È una fic nata nella doccia, dopo che ho letto per l’ennesima volta “Mio Diletto Holmes” (dopo la conversazione avuta con la cara e maledetta Yoko Hogawa a cui dovrò la mia morte, prima o poi). Chi di voi non sa cosa sia Mio Diletto Holmes legga qui per capirci qualche cosina. È un libro scritto da Rohase Piercy, uno dei “diari segreti” del dottor Watson. È un libro Johnlock, è l’unico libro Johnlock credo. La prima parte è piuttosto bruttina, noiosa, il caso è abbastanza semplice e non c’è nulla, ma la fine. La. Fine. La fine, ragazzi, quella che a mio parere sarebbe dovuta essere la parte più difficile da scrivere, è magistrale. Stupefacentemente bella. Dolce, quasi, e serena. È il racconto di come sono veramente andate le cose durante le cascate del Reichembach e dopo, che spiega le molte incongruenze che ci sono nella storia effettiva (sappiamo quanto Doyle fosse adorabilmente confuso a riguardo :D ) e almeno Watson non sviene come una donnetta quando ri-vede Holmes. Diciamo che se fa cose da donnetta sono altre (che continuano a lasciarmi sempre un po’ perplessa), perché nel libro una delle pecche più grandi a mio parere è che negano l’attrazione di Watson per le donne. Che è chiarissima, a mio parere, nonostante Holmes. Insomma, sono una Johnlocked, certo, ma dire che Watson non è anche eterosessuale è un po’ forzato... Comunque, è assurdamente e adorabilmente devastante, e se non l’avete letto andate subito in libreria. Comunque, non ricalcherà perfettamente quella storia, poiché io ADORO il Canone, e quindi mi terrò abbastanza fedele a quello. Diciamo solo che ho letto di Watson che grida “Holmes!”, e in contemporanea sono riuscita a vedere John abbassare il cellulare dicendo “SHERLOCK!” e quindi non ho potuto resistere. Non è una science-fiction, più che altro un onirico-non reale. Sono due specchi di dolore, gemelli, non è che la storia si muova davvero attraverso le due epoche storiche, a dire la verità potrebbe essere tutto dettato dall’immaginazione. È la comparazione di due personaggi che in fondo sono lo stesso. Insomma, è complicato. Sìsì, capirete leggendo, ora vado. Ancora, auguro a chi vorrà una buona lettura ♥

____________________________________________________________________

 

 

 

Your eyes are mine, my pain is yours.

 

 

-Keep your eyes fixed on me.

 Please, will you do this for me?-
-Do what?-

-This phone call, it's... it's my note.

 That's what people do, don't they?

 Leave a note.-

-Leave a note when?-
-Goodbye, John.-
-No. Don't—

 

 

La sua poltrona è comoda. La poltrona dove si sedeva sempre quando aveva la schiena troppo a pezzi per sdraiarsi sul divano, quando fremeva di avere un caso tra le mani, quando passava la pece sull’archetto del suo violino. La poltrona che ha visto le serate d’inverno, con la sua figura sottile e sinuosa accasciata davanti al fuoco quando il suo cervello sembrava concedergli almeno qualche ora di pausa da sé stesso, prima che la bestia della noia affondasse le sue fauci in quella carne per non lasciarlo andare. È morbida e calda, la sua poltrona, ma non ha il suo profumo. Evidentemente, nessun profumo è così forte da poter rimanere impregnato nelle poltrone, oltre che nei vestiti e nelle altre cose, neanche se è indossato da un uomo straordinario. John vorrebbe averli lì, i suoi vestiti, per sentire il suo odore, per poterli stringere tra le mani e sentire la morbidezza della stoffa scorrere sulle dita. Ma sono andati alla scientifica, per essere analizzati, imbrattati di quel suo sangue scarlatto. Non che nessuno speri di trovarci qualcosa, dopotutto. Sherlock Holmes è un impostore, tanto, giusto? Quello è solo il suicidio di un falso genio. E chi lascia indietro, sempre indietro perché non è mai stato alla sua altezza, seduto sulla sua poltrona con lo sguardo perso oltre la finestra, a cercare di ignorare quel vuoto, con i piedi scalzi congiunti sul tappeto di quella stanza che tante ne ha viste? 

 

 

_______________________________________________________________

 

 

Mio caro Watson,

scrivo queste righe grazie alla cortesia del signor

Moriarty, che ha acconsentito a concedermi il

tempo necessario per scrivere le mie ultime parole per lei.

[...] Confido di riuscire a librare la società da ogni

ulteriore conseguenza della sua presenza, anche

se ad un prezzo che, temo, recherà dolore

ai miei amici, e soprattutto, mio caro Watson,

a lei. Tuttavia, ero quasi certo che la lettera da

Meiringen fosse un imbroglio, e le ho permesso

di andare nella convinzione che avrebbe portato

ad uno sviluppo di questo genere. 

[...] E mi creda, mio caro amico,

sentitamente suo

Sherlock Holmes

 

 

Ha rifiutato la proposta dello Strand di pubblicare il resoconto del caso. Il signor Conan Doyle è stato estremamente gentile, nel proporgliela, non è risultato affettato, anche se la pietà nei suoi occhi è stata così presente che quasi sembrava che gli stesse infliggendo stilettate al cuore. L’ha rifiutata perché il dolore provocato è ancora lì, così vicino, troppo vicino, abbastanza per essere toccato con mano. Sono passati i mesi, certo, ma è come se fosse ancora lì, sul bordo delle Cascate, con Holmes che lo fissa e lo prega di non andare(1) con un’espressione indecifrabile. Immobile. Gli sembra ancora di correre a perdifiato in mezzo al fango, urlando dentro al flusso torrenziale delle acque per riportarlo indietro. È sempre lì. Non se ne va mai

La sua prolungata meningite lo ha stremato, e così ora sta tentando nuovamente di riprendere la sua professione di medico, i ricordi del processo lo tormentano con una lunga sequenza di immagini che procedono una di fila all’altra. Mancano dei nomi, ne è certo, mancano dei nomi di collaboratori che Holmes gli aveva fatto tempo addietro. Ma ora che Sherlock Holmes è morto - ma non quello Sherlock Holmes di cui parlano i giornali, di cui parlano i resoconti, di cui esistono testimonianze - è il suo Sherlock Holmes che ormai è venuto a mancare, è sparito, si è dissolto nell’aria senza lasciare un segno se non quel biglietto. 

 

________________________________________________________________________

 

 

-God, John, you made me jump.-

-But...-

-Is everything ok now with the police?

Has, uhm, Sherlock sorted it all out?-

-Oh, my God...-

 

Se non se ne fosse andato, se non l’avesse lasciato da solo a “riflettere”, se avesse capito che stava succedendo qualcosa...avrebbe potuto salvarlo. Questo pensiero gli martella nelle tempie così forte che potrebbe anche ucciderlo, se continuasse in quel modo. Se ne sarebbe dovuto accorgere, lo avrebbe dovuto fare: perché Sherlock si fingeva una macchina, spesso, sempre, ma lui lo aveva visto per quel che era veramente, e più volte; lo aveva visto gettare giù dalla finestra un uomo per aver sfiorato la signora Hudson. 

Perché per Sherlock lei era la madre che non aveva mai avuto, che era certo di non avere. Era una delle poche persone che abbracciava, con la quale parlava, e che ringraziava (spesso), e con la quale si scusava (sempre troppo poco). Faceva parte della famigliola di Baker Street che andava piano piano costruendosi. E se le avevano sparato, non sarebbe rimasto con le gambe appoggiate un tavolo e le dita congiunte per “pensare”. Se ne sarebbe dovuto accorgere. Sherlock lo aveva fatto: sapeva della trappola. Perché non glielo aveva detto? Perché lo aveva fatto? Perché gli aveva lasciato una maledetta chiamata per biglietto e si era buttato da quel tetto?

 

________________________________________________________________________

 

-Dottor Watson,-mi interrogò:-cosa è successo?

Dov’è il signor Holmes?-

-Allora, non è peggiorata?-chiesi,

parlando allo stesso tempo.
Ci fissammo a vicenda, sorpresi.

Al suo primo battito di ciglia, il mio cuore si

fece di piombo nel petto.

 

 

Se avesse ascoltato davvero le sue preghiere di restare, quando gli diceva che avrebbe potuto essere una trappola, forse non sarebbe successo. Se avesse deciso di ascoltare quegli occhi imploranti, bloccati dal piangere soltanto dalla sua forzuta e resistente determinazione, quella cortina di nebbia fitta che aveva calato come un velo sulle sue emozioni, per nasconderle, per bandirle dal suo cervello geniale, se avesse deciso di accogliere quelle mute e disperate richieste che gli stava lanciando sul bordo del precipizio...Se fosse venuto meno al suo obbligo professionale, fidandosi di colui che era sempre stato più di un amico, qualcuno di davvero ineguagliabile, qualcuno di davvero trascendente, se si fosse davvero fidato di lui ora non sarebbe seduto sulla scrivania del suo studio medico a riflettere su quanto la sua vita sia diventata monotona e grigia. Dopo la morte di Sherlock Holmes, Watson sta svanendo. Sta svanendo silenziosamente, senza disturbare nessuno, tra le pareti di una vita coniugale troppo soffocante che lo costringe a prendersi delle responsabilità. Mary è malata, e lui neanche se ne era accorto. Non ha la forza di chiederle di non lasciarlo, di non abbandonarlo anche lei, perché se no si ridurrebbe ad un’inutile zattera in balia di una tempesta. Mary sta morendo, e Watson vuole solo sparire.

 

________________________________________________________________________

 

 

You told me once...

that you weren’t a hero. 

There were times I didn’t even think you were human,

 but let me tell you this:

you were the best man...

and the most human,

 human being,

 that I’ve ever known.

 

 

L’ha detto. L’ha ammesso. Sottovoce, davanti ad una tomba fredda, una semplice lastra di marmo incisa in caratteri dorati. Sherlock è stato la sua ancora, quando è tornato da una guerra che gli ha affondato il cuore. Sherlock è stato colui che non ha avuto pietà di un reduce con una ferita alla spalla e una zoppia psicosomatica mal diagnosticata, che non ha avuto paura di ri-spingerlo sulle rotaie della ferrovia, a guardare il treno in faccia nel momento che sta per passarti sopra. Non ha avuto problemi a farlo correre per mezza Londra il giorno dopo che si erano incontrati, non ha avuto scrupoli a immergere le braccia nell’acqua gelata fino alla spalla, per abbrancarlo e trascinarlo su con forza, costringendolo a respirare boccate d’aria e di ossigeno senza dargli il tempo di abituarcisi. Sherlock è stato l’unica persona che è entrata nella sua vita inciampandoci dentro per caso, e che ha spalancato la porta dentro a lui senza chiedere il permesso, accampandosi e piantando ferree tende nel suo cuore, senza l’intenzione di schiodarsi di lì. Lo ha fatto in un modo così totalizzante, così devastante che John si chiedere se riuscirà a dimenticarselo, prima o poi. Probabilmente no. Perché l’ha chiesto, piano, sottovoce, davanti ad una lapide nera incisa a caratteri dorati, lo ha chiesto: un miracolo. L’ultimo miracolo.

Non...essere...morto.

 

________________________________________________________________________

 

Poche parole dovrebbero bastare

 per raccontare il poco che rimane.

 Ogni tentativo di ritrovare i corpi,

 fu assolutamente inutile.

 E lì, nel profondo e terribile amalgama

 d’acqua vorticosa e schiuma tempestosa,

 giaceranno fino alla fine dei tempi 

il criminale più pericoloso 

ed il principale campione della legge

 della loro generazione.

 Io lo ricorderò sempre come 

l’uomo migliore ed il più saggio

 che abbia mai conosciuto.

 

 

Alla fine, lo ha scritto. Il resoconto del caso “Le Cascate del Reichembach”, pubblicato sullo Strand, grazie al dottor Conan Doyle. L’ha scritto perché il fratello di Moriarty ha osato insinuare male cose su di lui, perché ha tentato di giustificare il comportamento del professore, gettando luce su una persona che era così corrotta da avere l’animo completamente immerso nell’oscurità. Ha riflettuto molto su cosa scrivere, per concludere le vicende che lo hanno portato in questo stato catatonico, ha riflettuto su come chiudere per sempre il capitolo più importante della sua intera vita. Ha fatto una passeggiata all’aria aperta, guardando i giardini fiorire nella luce di un tiepido sole primaverile, Londinese nell’avarizia di luce e calore che sta emanando. Ha guardato la vita scorrere attorno a sé, e si è sentito troppo distante, troppo lontano, come se fosse rimasto bloccato a quel giorno di anni prima. Come se fosse rimasto indietro, ed ora non più capace di riadattare il passo con quelli che lo hanno superato. È rientrato in casa, fissando con rammarico il suo lutto, e sedendosi nuovamente alla scrivania. Ha scritto le ultime righe con un groppo in gola, un groppo di parole non dette. Perché sicuramente Holmes è stato molto più che il più saggio, il più giusto, e il migliore.

 

________________________________________________________________________

 

 

But I know,

all I konw

is that the end’s

beginning. [...]

All this time

spent in vain:

wasted years,

wasted gain;

All is lost

hope remains(2)

 

 

La prima volta che lo vede sta tornando a casa dopo essere passato da Tesco. È appena uscito oltre le porte scorrevoli, dopo aver sospirato pesantemente davanti all’ennesima cassa automatica non-funzionante, e si è affidato alle commesse per non dover pensare. Non ci ha litigato, non ci ha provato nemmeno: non ha la forza di alzare la voce, in questi giorni. La signora Hudson gli ha lasciato delle caramelle per la gola sul tavolo, e John sa che lei sa, ma crede che la sua sia soltanto gentilezza, e ne è molto grato. Ha comprato tre cartoni di latte, e quando si è accorto che sono troppi non ha avuto voglia di tornare indietro. Ne berrà un po’ di più del solito, si è detto, o comincerà a bere caffè macchiato.

Così, in quel freddo pomeriggio di aprile, col vento che sferza sulle mani e le graffia di freddo, lo ha visto. Sul marciapiede opposto, davanti ad un Café, nascosto in mezzo alla folla: è stato solo un attimo. Un uomo non molto alto, sui quaranta, con i capelli biondi leggermente ingrigiti e i baffi dello stesso colore, che si appoggia ad un bastone zoppicando distrattamente. Ha dei vestiti abbastanza logori, ben tenuti, molto scuri, piuttosto fuori luogo. Sembrano molto, molto vecchi, come se venissero da un’altra epoca. I contorni, da lontano, sembrano quasi sbiaditi, e il suo profilo è incerto. È solo un momento, quando anche lui si gira, e i loro occhi si incontrano. John non l’ha mai visto prima, in vita sua, ne è sicuro. Eppure, quello sguardo ha qualcosa di dannatamente familiare. Si chiede se sia un parente, per caso, oppure un vecchio amico. Ma quando si volta di nuovo, per cercare quella strana figura sullo sfondo della cara e vecchia Londra, dell’uomo non c’è più traccia.

 

________________________________________________________________________

 

Perché dolore è più dolor, se tace.(3)

 

È stato strano, quando l’ha visto per la prima volta.

Uscito dal Queen Mary’s Park(4), dopo una dolorosa passeggiata all’aria aperta, i segni del lutto ancora su di lui. Gli sguardi delle persone lo seguono sempre, e quando vedono il suo volto addolorato e stanco pensano sia per sua moglie. Lui amava Mary, in uno strano modo tra la pietà, la riconoscenza e l’amore che prova un fratello verso una sorella, e ha sofferto per la sua dipartita. Ma Mary era una briciola, nel suo cuore, rispetto a Holmes: e dopo la morte di questi, la sua anima era già ridotta in frantumi.

Fa freddo, quel pomeriggio d’Aprile del 1891. Il vento sferza e costringe i passanti a sollevare i baveri dei cappotti e cacciarsi le mani sui cappelli per evitare che il vento li strappi dalla loro testa. Lui ha deciso di passeggiare un po’, tra la solitudine e i suoi fantasmi, sperando di scacciare l’inquietudine di un’altra giornata monotona (senza riuscirci). E appena mette piede fuori dal parco, fin troppo ricco di famigliole felici, lo vede, sulla parte opposta della strada. È molto basso, rispetto alle persone che gli stanno in torno, ed è vestito in modo eccentrico: ha un maglione dai colori piuttosto vivaci e dei calzoni di un tessuto blu scuro che non ha mai visto prima. Ai suoi piedi, delle strane scarpe con dei lacci intrecciati in due buffi fiocchi, con una parola strana scritta sopra. Sta portando dei sacchetti di un materiale mai visto, colmi di qualcosa, non troppo pensanti, anche se la curva delle sue spalle lo fa apparire molto stanco. È solo un attimo, quando anche lo sconosciuto alza gli occhi per incontrare i suoi, che scatta qualcosa tra loro. Watson si chiede se non l’abbia già visto, quell’uomo biondo così particolare. Gli pare quasi come un fratello minore, dimenticato anni addietro per qualche motivo, tra i meandri della memoria, perduto. Una carrozza sfila davanti a lui, impedendogli la vista solo per qualche attimo, ma quando questa è passata, l’uomo eccentrico è già sparito.

 

________________________________________________________________________

 

Che senso ha andare nei cimiteri?

Me lo sono chiesto infinite volte nella mia vita.

Il senso di andare davanti ad una tomba in marmo

e dire:

“Nessuno potrà mai sostituirti.”

Perché tanto, chi vuoi che ti senta, lì sotto terra?
I cimiteri non sono un luogo di pace per i morti:

sono un luogo dove i vivi cercano consolazione(5)

 

 

John va spesso al cimitero. Quasi tre volte a settimana. Più di quanto dovrebbe, più di quanto vorrebbe.
Si odia per questo. Sente che è una delle condizioni per il quale lui, a distanza di anni, non riesce ad andare avanti. Non riesce a staccarsi dal suo ricordo, non riesce ad allontanarsi da Baker Street per più di un paio di giorni. Ci ha provato, a non farsi male, a trasferirsi per non pensare ai ricordi. La signora Hudson l’ha trovato tremante sulla soglia, una settimana dopo, mentre diceva stremato “Non ce la faccio. Non ce la faccio”.

Non porta fiori, non lo fa mai, perché sa bene che Sherlock avrebbe odiato quel gesto, e l’avrebbe deriso dicendogli quanto è stupido parlare con una tomba quando sai bene che non ti può rispondere. Ma John non parla con Sherlock perché pensa che potrebbe sentirlo. John parla con Sherlock perché crede di sentirsi meglio, facendolo. Gli racconta quanto siano inutili e noiose le sue giornate, quanto siano stupide le considerazioni che le persone fanno; parla della gentilezza della signora Hudson e di Molly, che lo chiama tutti i giorni, mentre Greg si fa sentire un paio di volte al mese per una pinta che non accetta mai. Porta i giornali, legge tutta la cronaca nera ad alta voce e constata quanto siano diminuiti gli arresti dopo che lui è morto, oppure ride amaramente di quanto i casi siano noiosi e come lui li avrebbe detestati. Parla sempre di quanto gli manchi averlo vicino, perché la sua vita è una nebbia grigia di cui non riesce a liberarsi, e alla fine gli viene quasi sempre da piangere. Nei giorni in cui c’è bel tempo si sdraia sull’erba verde che è cresciuta sulla tomba di Sherlock, e guarda il cielo, pensando che è un po’ come se Sherlock fosse sdraiato lì vicino a lui. Pensa di prendergli la mano, e con le unghie gratta la terra umida sotto di sé(6). Non resta mai troppo, giusto qualche ora, da passare in compagnia di ciò che resta del suo migliore amico. Poi torna a casa, immergendosi nella musica del violino proveniente da uno dei mille cd che ha comprato: non è mai la stessa cosa, ma ha sviluppato un piacere a farsi del male.

E quel sabato non fa eccezione, mentre saluta con una carezza la tomba di Sherlock. Si alza, pulendosi i pantaloni dall’erba bagnata, e solleva lo sguardo umido. Si incammina con passo rapido verso il cancello, conscio che non riuscirà a resistere ancora molto lì dentro. E proprio mentre sta per uscire lo vede, di nuovo. Seduto su una panchina, le gambe accavallate, il bastone appoggiato di lato. Ha tra le mani un quadernetto e una penna, una di quelle stilografiche che sembrano venire dal diciannovesimo secolo. Non alza lo sguardo, troppo impegnato ad annotare qualcosa. John è combattuto tra l’impulso di avvicinarsi e l’istinto di scappare. Nell’incertezza, si volta per qualche secondo verso la lapide di Sherlock, come per chiedergli consiglio. Ma quando torna a posare lo sguardo sulla panchina di fronte a lui, la trova vuota.

 

________________________________________________________________________

 

 

Ahi, come mal quel volo fece,

il precipizio teco fine!

D’oscuro pianto a odor di pece

graffia il cor con le sue spine.

 

Ed il lamento perpetuaa,

ivi non giungea l’intelletto:

ed l’insaziabil ve’ cercaa

pace ne quel dolor diletto.(7)

 

 

Il dottor Watson non è mai andato al cimitero, per visitare la tomba del suo migliore amico. Non l’ha ritenuto affatto giusto: il suo corpo giaceva sotto le correnti agitate e tempestose delle Cascate, non sotto una lapide con un nome inciso sopra in caratteri dorati. Ha portato rispetto a quella tomba vuota soltanto al momento del funerale, quando era preso a rimuginare su quanto fosse ingiusto che a portare il lutto fosse Mycroft, che non aveva mai conosciuto Sherlock neanche un millesimo di quanto lo conosceva lui. Avrebbe avuto diritto a poter maneggiare le sue carte, il suo testamento, in quanto persona emotivamente più vicina a Sherlock Holmes. Lui non era nulla, legalmente, per Holmes, e questo lo faceva arrabbiare: perché era stato tutto invece. Coinquilino, amico, migliore amico, compagno, Boswell, biografo, fratello. Questo aveva pensato, guardando piano una piccola folla radunarsi per portare i propri ossequi ad un uomo grandissimo che aveva aiutato davvero un gran numero di persone. Questo lo commuoveva: quanta gente fosse effettivamente grata a Holmes a tal punto da fermarsi anche a mormorare qualche parola di ringraziamento. Lui non se l’era concesso. Non si è mai concesso nulla riguardo a Sherlock Holmes.

Sta passeggiando nei pressi del cimitero per qualche motivo a lui ignoto. Si è affidato per l’ennesima volta alle sue gambe mal ridotte, ed esse lo hanno condotto lì. Non c’è stato spesso, e non si è mai soffermato a guardarsi intorno. È un posto bellissimo: un parco gigantesco con una boscaglia verdeggiante tra la quale trionfano pini verdi altissimi per gli standard di Londra. Il cielo in questo momento sta rilasciando una strana luce, tipicamente estiva, e il clima si sta finalmente facendo più clemente con le sue povere ossa doloranti. Sente il bisogno di fermarsi, notando una panchina nera di ringhiera non bagnata dalle ultime piogge. Quando si guarda intorno, sente una strana sensazione di pace avvolgergli il petto come poche volte ha percepito, dopo la morte di Holmes. Sbatte le palpebre, appoggiando la schiena a quella fredda panchina, mentre pensieri gli scorrono nella testa, affollandogliela. Dopo mesi che non riesce a prendere la penna in mano, sente la necessità di esprimersi. Infila la mano nella tasca del cappotto, estraendo uno dei taccuini che era solito portare dietro quando seguiva i casi con Holmes. La sensazione della punta che gratta sulla carta, e deposita l’inchiostro, è un balsamo per il suo animo. Continua a scrivere, perso nei suoi pensieri, finché non sente un fastidioso formicolio percorrergli il corpo. Alza lo sguardo, ed è la seconda volta che lo vede: camminando con la schiena curva verso l’entrata del cimitero, come se fosse lì per caso. La sua figura ha qualcosa di incredibilmente familiare, ma Watson è quietamente(8) certo di non averlo mai visto prima. Forse è la posa che assume la sua postura, spenta, abbandonata, gli ricorda la sua ogni volta che si guarda allo specchio. Potrebbe essere un uomo che ha perso il senso della vita, proprio come lui. O forse no, chissà.

Lo guarda finché non sparisce oltre il cancello del cimitero. Poi riabbassa la testa, e riprende a scrivere.

 

________________________________________________________________________

 

Tell them all I know now
Shout it from the roof tops
Write it on the sky line
All we had is gone now

Tell them I was happy
And my heart is broken
All my scars are open(9)

 

Glielo aveva detto, Sherlock. Glielo aveva sempre detto di stare attento all’amore, che era un difetto chimico, una perdita di tempo, un problema che inibiva le capacità cognitive di ogni individuo. Glielo aveva detto, ripetuto, che era sposato col suo lavoro, che non aveva tempo per quelle cose. Aveva allontanato Irene Adler, battendola, e lei era l’unica che era sembrata in grado di smuovere il suo cuore di pietra. Lo sapeva, gli aveva detto di prepararsi. Ciò di cui Sherlock non lo aveva mai avvisato, era che oltre a distruggere la mente, l’amore spacca anche il cuore. In mille frammenti. Di questo non lo aveva avvisato, il bastardo. Lui aveva provato sentimenti per tutta la vita, ma non si era mai innamorato sul serio: ci aveva creduto, sì, finché non era finita. Allora era diventato un’Infatuazione, e non un Innamoramento, nella sua testa, come se cambiare classificazione aiutasse a superare l’ennesimo fallimento. Sherlock, che invece non aveva probabilmente mai avuto né uno né l’altro, al posto che dare consigli buttati al vento avrebbe potuto benissimo essere diverso in modo da non far sì che si innamorasse di lui così totalmente, in quel modo tra il platonico e il devastante. Ogni tanto John si chiede cosa in lui persista così saldamente ad amarlo, perché non riesce a lasciarlo andare. Non lo sa, ma ogni volta che prova ad uscire con una ragazza, e sembra funzionare, è lui che la lascia con patetiche scuse. Non ce la fa, non ce l’ha mai fatta.

Non dorme più, poiché gli incubi si manifestano durante la notte, quando il suo stato catatonico avrebbe per lo meno una giustificazione. Si trascina avanti come un automa ogni giorno, e la notte è costretto a tornare a vivere, soffrendo.

Ogni sera, prende dei sonniferi sempre un po’ più forti, che non servono a nulla. Puntualmente rinviene urlando, con le coperte completamente gettate di lato e gli occhi sbarrati che lo fissano con pietà dallo specchio di fronte a lui, quasi a chiedergli come ha fatto a ridursi così in quello stato. Non sa rispondersi. Il suono della sua voce sembra tormentarlo, rincorrendolo nei sogni mentre gli sputa in faccia di essere un impostore, un bugiardo, un criminale. Il suo sguardo gelido lo trafigge senza pietà, pieno di lacrime che John ha potuto percepire solo dall’incrinatura nel suo tono, dicendogli che non c’è nulla da dire, che è quella la verità, e che deve accettarla. Ma John non può fare a meno di credere a Sherlock Holmes, allo Sherlock Holmes che ha conosciuto, perché le sue doti intellettive le ha sempre dimostrate anche fuori dai casi, anche quando si annoiava, anche quando non avrebbe potuto sapere nulla. Perché lui ha visto Sherlock, ha visto davvero come era dentro, ha visto la confusione e il dolore nascosto che celava dietro un odio contro il mondo che era semplicemente il suo meccanismo di difesa(10). E non può non fidarsi di lui. Perciò, ogni sera, chiude gli occhi e lo ripete, a bassa voce, come se stesse cercando di convincere Sherlock a lasciarlo in pace, almeno di notte:-I belive in Sherlock Holmes,-dice, con convinzione, e poi di nuovo:-I belive in him.-e ancora:-I belive.

Per questo, anche sta sera non rinuncia ad inghiottire una pillola insapore, sicuramente meno amara del lutto che non ha ancora mandato giù, aiutandosi con l’acqua. Per questo sta sera si corica, guardando il soffitto scuro, e pensando nuovamente a quanto era felice. E a quanto poco è durato. A quanto velocemente lui fosse arrivato, e poi andato.

E quella, senza saperlo, è la prima notte in cui si addormenta.

 

________________________________________________________________________

 

Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lúgubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.(11)

 

 

Holmes è il suo pensiero dominante, in ogni momento della giornata. Ogni singolo secondo in cui esiste (perché ha smesso di vivere. O forse non lo ha mai fatto). È un pensiero tremendo, doloroso e atroce, perché ogni volta che masochisticamente tenta di ricordare la curva delle sue sopracciglia, piuttosto che il colore preciso dei suoi occhi grigi, e come il suo sguardo splendeva se trovava qualcosa con il quale arrovellarsi, non fa altro che sentirsi male. Eppure è dolce, meraviglioso e bellissimo riuscire a rivedere la virgola che diventava, accucciato sul divano nelle notti fredde di inverno, una virgola scura distesa davanti al fuoco scoppiettante, con una sensazione che sa tanto di casa che ne è sopraffatto.

Holmes è stato per lui la persona più importante della sua vita; non legalmente, non ufficialmente, ma era stato il suo compagno d’animo, colui con cui aveva condiviso l’esistenza per intero, in ogni sfaccettatura possibile del suo carattere. Nessuno lo conosceva come lui, nessuno era mai stato in grado di essere a lui così vicino come il dottor Watson. E lui non crede in Dio, dopo la guerra non ci ha mai creduto, ma in questo momento sente semplicemente una gran rabbia per questo Dio che forse esiste e forse no, perché era stato così egoista da sottrargli le uniche persone che contavano qualcosa per lui: prima sua madre, poi suo fratello, poi la sua giovanissima spalla in combattimento (a cui era sinceramente affezionato), poi Mary ed infine Holmes. Lo ha distrutto con questo, sottraendogli quelle meravigliose persone. Watson è arrabbiato con Dio, perché è troppo egoista, e ha voluto godere della loro compagnia, quando lui sapeva bene di non avere l’eternità davanti.

Turbato dai suoi pensieri, Watson guarda l’orologio appeso al muro, e constata come sia il caso che lui vada a letto. È una sera autunnale, e il tempo come al solito sta scorrendo a modo tutto suo (ipocrita anche lui), e comincia ad essere tardi. Probabilmente è meglio che recuperi un po’ di sonno che gli è stato sottratto dagli incubi sull’Afghanistan nei giorni scorsi. Zoppica fino alla sua camera, appoggiandosi sul bastone, pensando al fatto che è appena sui quaranta e già si sente come se stesse per morire da un momento all’altro. Forse è così, chissà. Forse chiuderà gli occhi e non li aprirà mai più. Vale la pena provarci, tanto: non ha più nulla da perdere. Semplicemente, non ce l’ha affatto.

 

________________________________________________________________________

 

Viviamo vite di 

specchi riflessi. 

Viviamo nel riflesso di qualcun altro.

 Non siamo noi a respirare,

 a muoverci, a decidere:

 noi non facciamo che 

copiare inconsapevolmente

 ciò che fa quel qualcuno

 dall’altra parte dello specchio.

 Ma anche se questo ci toglie

 ogni possibilità di libertà,

 è un modo per consolarsi,

 nel dolore, 

sapendo che là fuori,

 oltre il vetro, 

c’è qualcuno che sta soffrendo

 dannatamente

 come te.

 

Viviamo vite di inconsapevolezze,

di frammenti stracciati su un prato di stelle;

la speranza la leggiamo in uno stormo di rondini

che come ogni anno si affaccenda a 

volare verso la primavera.

 

Viviamo vite di respiri incantati,

con le illusioni che frantumano gli errori;

e il dolore lo proviamo all’appassire di una rosa

che sfiorisce piano, delicatamente

con l’avvento dell’inverno.

 

Chi è riuscito a salvarmi è svanito.

Aiutami a ritrovarlo,

o cuore traditore,

perché di lui ho bisogno.

 

John è seduto al tavolino del caffé che è dall’altra sponda della strada rispetto a Tesco. È un bar di stile ottocentesco, come recita l’insegna (“Bar Loof - Dal 1854”), che è adorabilmente tipico. Non si ricorda esattamente il perché abbia deciso di fermarsi lì, ma gli sembra un posto abbastanza accogliente per passarci più spesso. Sempre che si mangi bene. Solleva la testa, alla ricerca di un cameriere al quale ordinare un bel caffé nero e potente, che gli serve decisamente per affrontare una nuova giornata, si accorge che non c’è nessun cameriere. A dire la verità, non solo non c’è il personale: non c’è proprio anima viva. Si guarda in torno, stupito, constatando che non si era accorto di essere completamente solo fino a quel momento. Si chiede cosa ci stia facendo lì, e perché ci sia finito. Realizza quasi immediatamente di trovarsi in un sogno. Tuttavia la cosa non lo turba affatto come dovrebbe, anzi, si sente quasi inspiegabilmente curioso di vedere come le cose andranno a finire. Proprio nel momento in cui si chiede se è il caso di alzarsi sì o no, lo scampanellio della porta risuona allegramente nelle sue orecchie. Voltandosi, lo vede entrare. Sembra spaesato anche lui, col suo gilet antico, il cappello e i suoi baffi discreti. Il bastone sul quale si poggia è di legno, come uno di quelli che aveva suo nonno, e si distingue, come tutto del resto in quella figura. Infine, lo sconosciuto alza lo sguardo e incontra i suoi occhi. John capisce immediatamente cosa gli sembra familiare in quello strano uomo: ha esattamente lo stesso colore dei suoi occhi.

L’uomo si avvicina, esitante, come se temesse di fare una scortesia. John abbassa gli occhi sulle sue mani, non sapendo cosa dire o cosa fare per incoraggiarlo: lo incuriosisce, quell’uomo. D’altronde, si ricorda con fastidio, quello è un sogno, e qualsiasi cosa potrebbe succedere non avrà certo ripercussioni sulla vita reale.

-Posso sedermi?-chiede l’uomo, che nel frattempo si è avvicinato, accennando alla sedia vuota sul tavolino di fronte a lui:-O è occupato?

-Libero.-chiarisce John, grattandosi il naso, e osservando lo sconosciuto prendere posto con nonchalance. La sua espressione è piuttosto mesta, e quasi rammaricata. Il naso ha dei contorni morbidi, e lo stesso la linea delle bionde sopracciglia. Scruta ancora il suo volto, alla ricerca di qualcosa che possa spiegargli la situazione, ma non lo trova.

-Ci conosciamo?-chiede Watson, mentre osserva il giovane uomo di fronte a lui fissarlo con le sopracciglia aggrottate; una serie di rughe si affaccendano sulla sua fronte.

-Non esattamente.-replica John, sbattendo gli occhi e concentrandosi sulle parole dello sconosciuto:-L’ho vista in giro qualche volta. Vicino al cimitero.

Watson annuisce piano col volto, mentre la sua mente ritorna a quello strano pomeriggio di pace dopo tumultuose stagione di angoscia:-Sì, ricordo.

-Ha subito un lutto recente?-chiede John, con gentilezza, aggiungendo un:-Se non sono indiscreto.-con molta cortesia.

Watson annuisce di nuovo, mentre abbassa lo sguardo sulla fascia nera che porta legata attorno al braccio, il segno che sta portando per Mary e non ha potuto fare per Holmes, perché sarebbe stato sconveniente e poco riconosciuto. La sente sporca, quella fascia, come se fosse indegno di portarla. Si chiede ancora perché anche la sua dolce moglie l’abbia lasciato solo, in quel mondo, e poi sospira.

-È insolito portare quelle fasce, da noi.-aggiunge John, in tentativo di fare conversazione:-È sua moglie?

-Sì.-dice finalmente Watson, con voce quasi rauca. Poi, accorgendosi di essere stato forse un po’ brusco aggiunge, a voce bassa:-Lei deve venire proprio da uno strano posto, allora.

-Cosa intende?-chiede John, perplesso.

-I suoi vestiti.-chiarisce Watson, indicando la t-shirt che John indossa, come se temesse di avvicinarsi:-Non ne ho mai visti di simili. E poi da noi non portare il lutto è a dir poco sconveniente.

-Deve venire proprio da un posto strano, allora.-dice John, sorridendo. Anche Watson, inaspettatamente, sorride. Giusto un secondo quel sorriso rimane sul suo viso, rendendolo più aggraziato e soprattutto più giovane, prima che la fronte si aggrotti nuovamente e l’espressione spenta si riappropri prepotentemente dei suoi occhi.

-La doveva amare molto,-dice John, piegando la testa di lato:-Se è così.-poi, coprendosi la mano con la bocca esclama:-Oh mio dio...cioè, non che lei sia...insomma, ciò che voglio dire è...

-È che non ho una buona cera.-conclude Watson, sospirando, ma dimostrando con tono gentile di non essersela presa, massaggiandosi gli occhi con le dita:-Lo so. E comunque, non è lei a rendermi così.

John si chiede il motivo di tanta tristezza, perché è la tristezza che legge nei suoi occhi ogni mattina quando si guarda allo specchio, ma si tiene lontano dal domandarglielo, temendo di essere nuovamente scortese.

-È un sogno, questo, vero?-chiede poi Watson, a sorpresa, guardandosi intorno:-Non è la realtà.

-Infatti, credo di no.-risponde John, alzando lo sguardo e facendo scorrere lo sguardo attorno a sé:-Non ricordo di esserci mai entrato prima, in questo Cafè.

-Il motivo per cui sono ridotto in questo stato...-continua l’uomo, con tono stanco e quasi rassegnato, però rassicurato dal fatto di trovarsi in un sogno e poter raccontare liberamente ogni cosa:-È un altro.

John attende, lasciandogli spazio.

-Il mio migliore amico è morto.-conclude Watson, mentre la voce torna ad abbassarsi, e i segni del dolore si fanno più forti su di lui, mentre la malinconia aumenta la stretta della sua morsa sui suoi poveri arti compromessi.

-Oh.-dice John, rimanendo in silenzio. Crede che se quell’uomo gli ha fatto una tal confidenza, in qualche modo lui sia in debito:-Se può consolarla, in qualche modo, anche il mio migliore amico è morto da poco.

Watson alza lo sguardo, e incontra i suoi occhi. Questa volta riesce a leggerci quasi un dolore gemello al suo, il dolore vero di qualcuno che sa di cosa stai parlando, che non usa parole di dispiacere tentando di consolarti. Anche quell’uomo ha alle spalle una vita che ora sembra distrutta, e in quel momento la sensazione del fratello minore perduto torna a farsi più forte:-Come?-chiede, con voce rauca.

-Si è buttato giù da un tetto.-dice John, seccamente. Watson si accorge di aver forse toccato un tasto dolente, ma è John a fare un brusco cenno col capo, e a costringersi a continuare:-Anche se non so perché. Se io l’avessi capito...se fossi rimasto forse...forse...

-Tutto questo non sarebbe successo.-conclude l’uomo, piegando la testa di lato, mentre il forte scroscio delle cascate del Reichembach torna prepotentemente a riempire le sue orecchie, trasportandolo con la sua forza indietro nei ricordi, mentre Holmes lo guarda con l’orologio in mano e lo prega di non andare:-So cosa vuol dire. Probabilmente, se l’avessi ascoltato, anche nel mio caso non sarebbe successo.

John alza gli occhi, sorpreso. Quell’uomo ha nei tratti un’esperienza che pare molto simile alla sua, e la cosa, per quanto terrificante, lo fa sentire bene. Esiste qualcun altro, nel mondo, che sta soffrendo nello stesso modo in cui stava soffrendo lui.

-Era grandioso.-dice Watson, con lo sguardo perso oltre le vetrate del bar, come se con la mente stesse ripercorrendo altre strade ignote:-L’uomo migliore che abbia mai conosciuto.

-So cosa intende.-risponde John, alzando le spalle, e vedendo chiaramente Sherlock aprire le braccia, davanti a lui, e lasciarsi cadere...cadere...

-Ogni tanto faccio degli incubi.-rivela poi Watson, mentre passa la mano sul bastone, facendo scorrere le dita per tutta la lunghezza liscia dello strumento:-Si mischiano con l’Afghanistan.

-Oh,-commenta John:-Anche lei è stato in Afghanistan?

-Quinto reggimento Fucilieri Northumberland.-dice Watson, picchiettandosi la gamba.

-Medico militare congedato per una ferita.-completa John, aggrottando le sopracciglia, come avendo una specie di improvviso senso dell’intuito. Sbatte le palpebre, studiando con più attenzione l’uomo di fronte a lui, chiedendosi cosa gli stia giocando la sua mente.

Watson lo guarda sorpreso:-La mia curiosità mi sta spingendo a chiederle il suo nome,-dice lentamente, senza smettere di fissarlo negli occhi:-ma qualcosa mi dice che non dovrei farlo.

-Non lo faccia.-dice John, sostenendo lo sguardo:-Se le aggrada.

Watson sospira, riportando fuori lo sguardo dalla finestra, constatando quanto il tempo sia volubile, poiché adesso ha iniziato a piovere. La nostalgia torna ad avvolgere il suo cuore, nelle spire di una nebbia dalla quale — da anni — non riesce ad uscire.

-Ha mai sentito parlare di Sherlock Holmes?-chiede.

-Sì,-risponde John, mentre dietro alle sue palpebre serrate si fa vivo un lampo con l’immagine di Sherlock:-Sì, direi di sì.

Watson torna ad abbassare lo sguardo, come se incerto sul dire qualcosa sì o no. Alla fine, solleva nuovamente lo sguardo su John, inclinando la testa, e apre la bocca. Nulla esce dalle sue labbra, e per un momento è quasi sorpreso da sé stesso.

-Il tempo laverà via tutte le ferite.-interviene John, infine, alzando anche lui lo sguardo verso la finestra sulla quale ticchetta la pioggia:-O almeno, lo spero.

Non c’è pietà in quei occhi così simili ai suoi, mentre lo guardano e scuotono il capo. Perché per John, quella era forse l’ultima stilla di una speranza per sempre radicata nel suo animo. Che si sta spegnendo.

Viviamo vite di dolori gemelli,

viviamo vite di frammenti di specchi;

cerchiamo il futuro negli occhi dell’altro

sapendo che se scuoterà il capo

non ci sarà più speranza.

 

________________________________________________________________________

 

 

Quattro mesi dopo

 

 

“Mentre tornavo sui miei passi, vidi una figura staccarsi da uno degli alberi davanti a me, e cominciare ad avanzare lentamente nella mia direzione; una figura alta, vestita di scuro. Mi fermai, e la osservai attentamente mentre si avvicinava, con cappello a cilindro, rendigote e guanti. Ogni tratto, ogni movimento mi causava un fremito disperato. Si muoveva lentamente tra la luce e l’ombra, tra gli alberi, lungo il sentiero verso di me. Il cuore mi batteva furiosamente e tremavo in ogni arto, ma non riuscivo a muovermi. In bocca, la lingua era secca. Si avvicinava sempre di più, attraverso le barriere di luce e ombra. Ad un certo punto sembrò restare fermo, sebbene camminasse ancora, senza avanzare né retrocedere. Cercai di scacciare l’illusione, e mi accorsi che adesso era molto vicino. Potevo quasi vedere il suo viso; e poi lo vidi. Bianco, un viso bianco, con gli occhi socchiusi. Vidi la linea ferma della bocca. Vidi gli incavi sotto le guance. Alzò un braccio e si tolse il cappello. Scorsi la riga delle sopracciglia, i suoi capelli neri, lisci sotto il sole. Mi aveva quasi raggiunto, era in piedi di fronte a me.

Penso che sarei caduto se lui non mi avesse afferrato per le spalle. Guardai il viso bianco e stanco, i chiari occhi grigi che scintillavano di lacrime. Notai nuove rughe attorno ad essi e attorno alla bocca; le guance incavate; la fronte più alta. Sentii la sua presa intorno alle spalle, e in cambio alzai un braccio per raggiungere le sue. (12)”

 

_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ 

“Mentre avanzavo tra la folla, vidi una figura avanzare verso di me, lentamente, nitidamente, mentre ogni persone sullo sfondo diventava sempre più sfocata. Una figura allampanata, avvolta in un regalissimo cappotto nero.

Mi bloccai, osservandolo attentamente mentre camminava, la sciarpa blu attorcigliata intorno alla sua gola, i guanti neri a calzargli le mani con eleganza. Ogni passo che faceva sembrava portarlo a splendere alla luce del sole che illuminava Londra. Si muoveva con lentezza, calma, e quasi per inerzia, avanzando verso di me come un miraggio scintillante nella luce del giorno, insolitamente paziente. Ogni parte della mia mente sembrava assurdamente impossibilitata a crederci, e qualcosa dentro di me fremeva ad un ritmo disperato. Ad un certo punto si fermò, distante, guardandomi con gli occhi come se cercasse di individuare in me un certo tipo di reazione. Poi il suo passo sembrò improvvisamente fremere di impazienza, e la sua velocità aumentò sensibilmente, finché non mi fu vicino. Finalmente riuscivo a vederlo: pallido, esattamente come era sempre stato così: latteo, con gli occhi cangianti che brillavano. Le sue labbra pallide arricciate in un’espressione indefinibile; e le guance asciutte. Vidi gli zigomi prorompenti, nobili nei loro contorni. Alzò un braccio verso di me, come per salutarmi, ma poi lo abbassò di nuovo.Vidi i suoi capelli ricci e neri danzargli attorno al viso mentre quasi si metteva a correre, per raggiungermi, ed eccolo che infine era vicino a me.

Non ero affatto sicuro della reazione che stavo avendo: tremavo da capo a piedi. Fissai il suo viso serio, composto, e i suoi occhi spalancati che radiografavano i miei alla ricerca di una reazione. Notai la sua forma slanciata e notevolmente più magra dell’ultima volta in cui l’avevo visto, e un’espressione quasi felice. Sentii la sua voce raggiungermi, irruente eppure gentile, come era tutto nella sua figura, e mi costrinsi a reagire.

 

_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ 

 

-Holmes.

 

_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ 

 

-Sherlock.

 

_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ 

 

Esiste un dolore gemello;

e un nome per ricominciare.

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolino della Skizzata:

Un parto. Un parto. Sto morendo.

Credo di avere tutto da dire in una frase: bo. Che dire, che dire, non so che dire. Adoro quel libro, adoro la serie, e adoro l’angst. La situazione è un climax che porta a comprendere ai due Watson di non essere soli, fino al ritorno di Holmes, dove le linee che li uniscono si assottigliano fino a scomparire (infatti, potete notare come alla fine le linee diventino tratteggiate e non più continue). Nel finale, il cambio di punto di vista (da terza a prima persona) è voluto, per evidenziare le sensazioni di Watson: Di entrambi.

Mettetevi comodi per le note:

 

  1. Per chi non ha letto “Mio Diletto Holmes”, questa frase non avrà senso. Doyle chiaramente dice che Holmes non ferma Watson all’andare a soccorrere la donna. Invece, la Piercy scrive che lo fa, inizialmente, e solo dopo le suppliche di Watson lo lascia andare. In questo caso, mi attengo alla seconda.
  2. Shattered - Non so di chi sia questa canzone, ma è molto adatta. Questo video: http://www.youtube.com/watch?v=DZzMbenpjEk lo dimostra.
  3. Cit. Giovanni Pascoli. Ho pensato che Watson potesse conoscerlo, visto che sono quasi coetanei, e soprattutto visto che Pascoli muore nel 1912, due anni prima de “L’ultimo aluto”.
  4. Tra Baker Street e Scotland Yard. Pensavo fosse adatto.
  5. Auto-citazione.
  6. Scena di Su prati di rose fiorenti: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1599037. Una mia vecchia fic a cui tengo particolarmente.
  7. Sempre più verso l’egocentrismo: queste sono due delle strofe di una mia poesia (La Caduta ehmehmehm fingiamo di non sapere cosa c’entri il titolo). È un po’ complessa, e immagino che molti di voi non sappiano cosa significa “ve’ ”. È un espressione che significa “sguardo”. 
  8. Scusatemi l’inglesismo, ma  necessitavo: suonava troppo bene rispetto a “davvero”.
  9. Impossibile di James Arthur - Non mi piace come canzone, ma questo video me l’ha fatta trovare carina. Ps il video è un po’ sdolcinato e leggermente OOC, ma è bello: http://www.youtube.com/watch?v=Q_mynYiULT4 Più che altro è quel “rooftops” che fa venire i brividi. E ad un certo punto è fortissimo, perché sembra che sia Sherlock stesso a cantare “and there’s nothing to say”. 
  10. Giuro che è uno degli ultimi video che vi propongo, ma questa canzone è quella più adatta a Sherlock che abbia mai sentito, e stai male quando la senti. E il montaggio, dio: http://www.youtube.com/watch?v=-QVZ-rANmsY
  11. Leopardi “Il pensiero dominante”. 
  12. Citazione diretta da “Mio diletto Holmes”.

 

Grazie a tutti quelli che recensiranno, o semplicemente che leggeranno fin qui.

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Maya98