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Autore: Jaded_Mars    15/04/2013    3 recensioni
Era una fantasia o era la realtà? Quando mi svegliai feci fatica a chiarire le idee, era tutto così confuso e verosimile che non riuscivo a trovare una risposta ai miei dubbi. Continuai a pensarci finché non mi fu tutto chiaro. Questa é storia tratta da un sogno che ho fatto realmente, narrato in maniera romanzata ma fedele all'originale.
"La gente pensava che fossimo dei drogati satanisti venuti da chissà quale universo per inquinare la loro regolare vita borghese, ma noi non ci facevamo troppo caso alle maldicenze che imbastivano su di noi, sapevamo chi eravamo e che cosa stavamo facendo, lavoravamo per un sogno. Amavamo quello che facevamo e lo amiamo tutt’ora."
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Methods of Mayhem

Il profumo pungente di vernice fresca aveva colpito le mie narici nel momento esatto in cui entrai nel camerino. Non avrei saputo dire esattamente se fosse buono o meno, ma sapevo che mi piaceva. Era odore di nuovo, un odore semplice e allo stesso tempo grezzo e spoglio come quella stanza in cui eravamo capitati da pochi minuti. Pervadeva insistentemente ogni cosa, distraendomi da qualsiasi altro pensiero. Nonostante fosse insolito, era uno dei miei odori preferiti, mi ricordava gli inizi, quando tutta la nostra avventura doveva ancora prendere l’avvio. Gli anni di mesi e mesi passati in una vecchia sala prove con le pareti talmente cadenti che avevamo deciso di ridipingerle a nostre spese con pittura ignifuga, non si poteva mai sapere cosa sarebbe successo. Era più che altro uno spazio ricavato in uno scantinato inutilizzato del palazzo del nonno di Chris, ogni volta che ne uscivamo sembravamo delle persone losche e poco raccomandabili, la gente pensava che fossimo dei drogati satanisti venuti da chissà quale universo per inquinare la loro regolare vita borghese, ma noi non ci facevamo troppo caso alle maldicenze che imbastivano su di noi, sapevamo chi eravamo e che cosa stavamo facendo, lavoravamo per un sogno. Amavamo quello che facevamo e lo amiamo tutt’ora.

Intorno a me gli assistenti si aggiravano concitati, cercando di inculcarci in testa che non potevamo fare quella scaletta perché era troppo lunga e sforava i tempi, sai che multa avremmo dovuto pagare? Il management non ne sarebbe stato contento! Ma dopotutto quelli sarebbero stati soldi sborsati di tasca nostra, e sapete chi sarebbe stato contento? Il pubblico! E chi se ne fotteva se noi saremmo stati un po’ meno ricchi, quello che contava era divertirsi e far divertire, era ciò che avevamo sempre desiderato quando stavamo in mezzo a quei ragazzini che si facevano ore di coda sotto il sole o macinavano chilometri di strada solo per vedere i loro idoli, perché non regalare a loro ciò che desideravano, ora che le star eravamo noi?  In fondo, i soldi li stavamo facendo, la vita da rockstar pure, non ci era mai mancato nulla, tantomeno in quel momento, perché risparmiarsi o fare le fighette inutilmente?

Più vedevo la gente sfrecciare intorno a me, più stavo da cani. Ero in after da non ricordo quando, non tenevo più il conto delle ore ormai.  Non stavo affatto bene, fanculo a Brian e alla sua brillante idea di organizzare un mega pool party il giorno prima. O forse non era stato il giorno prima? Chissà. Fiumi di alcol ogni dove e montagne di droga, sempre il solito esagerato lui, non riusciva mai a darsi una controllata. Ed io…io lo seguivo a ruota quando potevo, ero la party mate migliore che si potesse trovare, se volevi fare una cazzata, non sarei mancata. Dove c’era il divertimento, c’ero anche io, non necessariamente da protagonista, quello no, non lo ero quasi mai, più che altro facevo da compagine ai miei folli amici, per poi godermi la situazione a modo mio.  

Non riuscivo a stare in piedi, le gambe molli non mi sorreggevano più, così mi accasciai sul primo traballante tavolino che trovai e fu una fortuna che non si sfracellò sotto il mio peso morto. Sembravo agonizzante, letteralmente a pezzi. Sentivo il freddo penetrare impercettibilmente nelle mie ossa, lento e oscuro come lo spleen. Il mio corpo tremava, anche se cercavo di trattenermi per non farmi notare in quello stato, sentivo il bisogno impellente di prendere qualcosa, poi sarei stata meglio, lo sapevo fin troppo bene. Sarei strisciata pur di raggiungere quell’armadietto che ora sembrava così maledettamente lontano dalla mia portata, solo per prendere una bustina che avrebbe risolto tutti i miei problemi. Solo una stupida bustina con della polverina bianca e tutto per magia sarebbe svanito. Ma non riuscivo nemmeno a sollevare un braccio. Ero messa davvero male, come ero arrivata a ridurmi così? Ah certo, per inseguire quell’onnipresente senso di felicità ed appagamento dato da una serata di svago senza pensieri, per sentirmi viva. L’unico motivo che ancora mi tratteneva lì ferma su quel tavolo, cosciente, era che dovevo suonare. Non avevo bisogno di suonare, come di solito mi capitava, volevo solo un letto su cui stendermi e non rialzarmi più, spegnere il cervello chiusa nella mia solitudine di fantasia. Ma là fuori c’erano delle persone per le quali mi sentivo in dovere di dare il massimo. Avevano pagato per essere lì, erano stati spinti dalla passione per essere lì per noi, ed io dovevo ripagarli assolutamente, non mi sarei mai perdonata di deluderli per colpa delle mie cazzate e di certe mie abitudini alle ore piccole ed agli eccessi.

Perciò restai ferma, con gli occhi chiusi, respirando a pieni polmoni odore di vernice nuova, controllando per quanto mi riuscisse il mio tremore, mentre sentivo il pubblico che iniziava vociare prepotentemente, richiamandoci. Non ero pronta, ma lo avrei dovuto essere. Ripassai mentalmente le note della canzone di apertura, ammettendo che per una volta, forse, il nostro manager non aveva tutti i torti a volere accorciare la setlist a tutti i costi. Nemmeno sapevo se ci sarei arrivata all’encore. Ma dovevo farlo. Mi sentivo in debito, e la dedizione verso quella gente, verso il mio mestiere era lo sprono più forte che potessi avere. Ripagare chi mi ripagava per fare ciò che mi piaceva, ecco cosa mi spingeva a continuare anche quando avrei voluto fregarmene ed egoisticamente prendere un po’ di tempo da tutto.

In mezzo a tutto quel casino, nessuno mi aveva ancora notata, erano abituati a vederci così, perennemente con gli occhiali da sole inforcati, morti di sonno o morti di chissà cos’altro, addormentati sugli amplificatori o abbracciati ai nostri strumenti, ancora con la paura che ce li potessero rubare da sotto il naso come succedeva i primi tempi, che non facevi in tempo a lasciarli incustoditi per il tempo di una birra che già ci trovavi le balle di fieno che rotolavano al loro posto.

Un ragazzo molto giovane, forse un roadie alle prime armi, passò nervosamente davanti a me almeno un paio di volte, prima di trovare il coraggio di venirmi a parlare e dirmi che lo spettacolo stava per cominciare. Mi fece un po’ di tenerezza, era così gentile, si vedeva che non era ancora stato forgiato da quell’ambiente in cui la freddezza e la perentorietà regnavano incontrastate. “Tesoro, qui lo spettacolo non finisce mai.” biascicai più a me stessa che a lui, tanté che mi guardò con una smorfia di incomprensione e se ne andò, quasi sollevato dall’avere adempiuto al suo compito senza troppi intoppi.

Con la vista ancora annebbiata cercai di individuare la mia chitarra, tanto per essere sicura di dove dirigermi una volta in piedi per evitare di sprecare energia girando a vanvera. Proprio mentre tentavo senza successo di fare chiarezza in quella confusione, Joey arrivò con la mia Les Paul e me la ficcò in mano con prepotenza, curandosi che me la infilassi in spalla, scuotendomi dal torpore che mi avvolgeva. Non era sua intenzione essere brutale, sapeva perfettamente come stavo, ma se così non avesse fatto, probabilmente l’avrei fatta cadere rovinosamente a terra restando poi a fissarla con sguardo vacuo senza capire cosa fosse realmente successo. Mi sollevai a fatica dal muro che mi sorreggeva e mi misi in piedi, restando appoggiata con una mano al tavolo, mentre con l’altra mi tolsi gli occhiali, lasciando che un’assistente li prendesse al volo per metterli chissà dove. Da tempo ormai non ero più padrona di ciò che facevo, ogni mio movimento era preceduto da altri.

Joey ed io ci fissammo, sorelle da una vita, non servivano parole per capirci, ed in quel momento entrambe sapevamo che non erano necessarie, dovevamo uscire sul palco e dare il massimo, non importava in quale stato ci trovassimo. Tieni duro sorella. Le sue iridi limpide parevano parlarmi dritte al cuore, c’era preoccupazione mista a motivazione, mi stava incoraggiando a non mollare. E io non l’avrei fatto, cazzo se non l’avrei fatto! Ci richiamarono tutti all’ordine e ci dirigemmo verso le quinte, pronti ad andare in scena. Non ebbi nemmeno il tempo di articolare tre passi verso il gruppo che un’hair stylist mi braccò per sommergermi in una nuvola di lacca, così i mie capelli sarebbero rimasti in ordine fino alla fine, mi disse con un sorriso soddisfatto quando la vidi riemergere dal vapore tossico che mi aveva sparato addosso. Avrei tanto voluto dirle che in quel frangente la cotonatura perfetta alla Lita Ford era davvero l’ultimo dei miei problemi, ma non ne ebbi la forza.

Ecco, il momento era arrivato e le luci si accesero sulla folla che ci accolse con un boato. Gli altri erano ben coscienti che avrei potuto cedere da un momento all’altro, eppure non avevano detto nulla, avevano retto il gioco anche coi manager, se se ne fossero accorti loro delle mie condizioni, probabilmente avrebbero fatto saltare il concerto, se non un paio di tappe, facendomi ricoverare d’urgenza in ospedale con la forza scatenando un putiferio non solo organizzativo ma anche mediatico. Nessuno di noi desiderava che si concretizzasse un simile scenario, perciò avevamo una spiccata tendenza ad indulgere nell’omertà, ciò che succedeva in casa nostra restava in casa nostra, perché noi meglio di chiunque altro sapevamo cosa era giusto fare per noi e per la nostra musica. Questo non implicava che non ci fidassimo abbastanza dei nostri collaboratori, però, si sa come sono loro, freddi calcolatori, già tante brutte vicende erano accadute per colpa di un management che metteva zizzania tra i membri di una band, quindi avevamo fiducia in loro, ma non troppo.

Dunque eccomi barcollante sul palco: silenzio estatico, occhio di bue puntato su di me e la mia chitarra. Era arrivato il momento del mio assolo, senza neanche accorgermene. Lo suonai a quello che pensavo fosse il mio meglio in quelle condizioni, che speravo tanto non coincidesse col mio peggio abituale. Non so nemmeno come sia riuscita a resistere, mi ci volle più energia di quello che pensassi per fingere di essere al top. In realtà non so nemmeno se qualcuno se ne accorse, ma non sentii né fischi né urla di dissenso, perciò nel mio stordimento supposi che tutto fosse filato liscio e il pubblico fosse comunque soddisfatto.

La luce si spense e calò nuovamente il buio in sala, finalmente l’agognato momento della pausa era arrivato, magari avrei fatto in tempo a prendere la mia medicina, se fossi mai arrivata all’armadietto. Potevo chiedere a Joey di prenderla per me, sicuramente l’avrebbe fatto, non mi avrebbe mai lasciato nella merda, forse qualcun altro avrebbe potuto ma non mia sorella. In quel momento Chris stava pestando sulla batteria e le vibrazioni scuotevano tutto il palazzetto fino alle fondamenta. Persino io mi sentivo vibrare dentro, e non solo per il mio tremito. Amavo quella sensazione di sentire i bassi vibrare nel mio sterno, mi davano una sensazione di potenza, di pervasione della musica, di essere trascinata in un altro mondo, un posto migliore fatto solo di gioia e note. Mi appoggiai stancamente ad una colonna di cemento a lato del palco, asciugandomi la fronte dal sudore, togliendomi i capelli dal viso raccogliendoli disordinatamente in una coda. Mi sentivo soffocare. Le mie gambe gelatinose stavano per abbandonarmi ma mi imposi di resistere. Dovevo stare meglio, dovevo. Iniziai a fare respiri profondi e lenti, cercando di trovare la concentrazione che non avevo. Mi appropriai di una bottiglietta d’acqua abbandonata e la bevvi d’un sorso. Avevo sete, la mia gola era arsa come la terra desertica seccata dal sole e quasi facevo fatica a scandire delle semplici parole con la bocca impastata che mi ritrovavo. Il piccolo circolo di amici che da un po’ di tempo ci seguiva mi fece il segno dei pollici alzati che con un sorriso estatico stavano a significare che tutto andava alla grande. Cercai di sorridere in risposta, ero stata sufficientemente convincente? Non credo. Ma chi se ne importava.

Ero un forno, se qualcuno mi avesse toccata avrebbe pensato che stessi per prendere fuoco, continuavo a sudare senza riuscire a ristabilirmi, ma dentro ero gelida. L’istinto principale era quello di annichilirmi su me stessa, rannicchiandomi in posizione fetale e restare ferma, immobile finché tutto non fosse passato. In mezzo al capannello di gente che costituiva il nostro pubblico d’eccezione lì a due passi dal palco, distinsi con fatica una nuvola di capelli neri mossi, un ragazzo sovrastava tutti i presenti, al suo fianco un’altra massa di capelli lunghi neri e lucidi. Non potevano che essere loro. Nikki e Tommy stavano parlottando nervosamente tra loro, scoccandomi occhiate piuttosto agitate. Avevano capito, loro sapevano. Era scontato, dopotutto, con quello che avevano passato tra rehab e droga party vari era impossibile che proprio quei due non capissero che c’era qualcosa che non andava in me. E forse stavano anche cercando di capire cosa fosse esattamente, ma sicuramente avrebbero sbagliato. Almeno, in quel caso, con me, avrebbero sbagliato. Era buio, non vedevo bene il labiale, non vedevo affatto ad essere sinceri, ma sicuramente Tommy in quel momento stava dicendo a Nikki che ero completamente wasted, mi drogavo di certo. Come dargli torto, per come ero conciata, anche io mi sarei data della drogata se non avessi saputo che in realtà avevo solo la febbre a 40° e ero a un passo dall’iniziare a delirare in modo sconnesso. Speravo solo che Nikki avesse il buon senso di non convincersi anche lui di un’assurdità del genere, io che mi drogavo era una cosa fuori dal mondo. Mi piaceva bere ma nulla più, avevo visto già troppe persone a cui tenevo rovinarsi con eroina, cocaina ed affini, e non ci tenevo affatto a fare la loro grama fine.

Era tempo di ritornare a suonare e feci appena in tempo ad incrociare lo sguardo preoccupato di Nikki che mi si era avvicinato prima di rientrare nell’arena. Idioti, come possono pensare che proprio io fossi caduta in quella trappola. Mi pareva quasi offensivo, sembrava che loro non avessero fiducia in me, che non mi conoscessero abbastanza da potere giurare che non sarei mai e poi mai entrata in un tunnel del genere. Cercai di focalizzare la mia scarsa concentrazione sulla chitarra, quando la testa iniziò a girarmi vorticosamente, la musica si fece sempre più lontana e le energie mi abbandonarono di colpo. Svenni a terra come un sacco di patate proprio nel bel mezzo di una canzone, tra lo stupore generale delle persone che credevano fosse un nuovo numero inserito nello spettacolo per creare suspance. Le luci si erano spente del tutto, blackout totale. Nessun pensiero. Silenzio totale. Finalmente fluttuavo nella mia vuota solitudine. Era tutto così rilassante e sereno, il torpore che mi avvolgeva caldo come una coperta d’inverno mi faceva sentire bene. Avevo trovato quello di cui avevo bisogno, il mio posto nel mondo. Poi all’improvviso un colpo terribile come un terremoto fece crollare tutta la mia tranquillità per riportarmi bruscamente alla realtà. Avevo ricevuto una martellata potentissima al petto, così forte che mi risvegliò e mi tolse il fiato allo stesso tempo. Non stavo capendo più niente, sentivo urlare, un frastorno incredibile che mi travolse. Davanti a me c’era Tommy con un pugno alzato nell’atto di sferrarlo, probabilmente era lui che mi aveva dato quella botta incredibile. Poi c’era Nikki al mio fianco, lo stava insultando pesantemente urlandogli se era diventato cretino di punto in bianco. Mi avrebbe potuto ammazzare tirandomi pugni del genere, ma Tommy non ne voleva sapere, come al solito. Lui era convinto di avere fatto una cosa giusta, perciò doveva essere giusta, aveva agito per il mio bene e dimostrazione che avesse avuto ragione era il fatto che mi fossi risvegliata. Erano sempre così quei due, scemo e più scemo. Ma erano due scemi a cui volevo immensamente bene. Quello fu l’ultimo ricordo prima di perdere nuovamente i sensi.

Mi risvegliai in ospedale. Non avevo idea di che giorno o di che ora fossero, poteva essere passata un’ora o una settimana dall’ultima volta che ero stata cosciente. Mi sentivo debolissima, una larva incapace di muoversi, ma almeno ci vedevo di nuovo. Dalle mie mani e dalle narici partivano tubi e tubicini che mi facevano tanto sentire una via di mezzo tra una cavia da laboratorio, un mutante e un super eroe. Ero impressionata dagli aghi che avevo infilati sottopelle. Io che temevo più quei piccoli spilli di acciaio di ogni altra cosa, ora ne ero piena. Provai un’improvvisa fitta di dolore psicologico e il primo istinto fu quello di strapparmeli di dosso per lo spavento e il disagio. Ma non appena mi mossi una fitta molto reale partì dalla mia mano correndo rapida lungo tutto il braccio, bloccandomi. Forse non ero poi così convinta di togliermi niente. Ero molto suscettibile al dolore. In quel momento, mentre mi massaggiavo il palmo della mano, mi accorsi che non ero sola in quella stanza.

Nikki era seduto scompostamente su una poltroncina accanto al mio letto, caduto in un sonno profondo. Chissà se era sempre stato lì. Fui felice di vederlo. Ero sempre estremamente felice quando lo vedevo, mi infondeva allegria come nessun altro, ed era strano da dire per uno come lui che notoriamente non era l’uomo più burlone del mondo. Eppure quando era con me, io vedevo la vie en rose. Non era uno scherzo o una semplice metafora, era davvero così, tutto mi sembrava migliore. In fondo al mio cuore speravo che anche per lui fosse uguale ed in parte lo credevo davvero, ma non mi volevo convincere troppo di qualcosa che ancora non mi era stato detto a chiare parole. Era bello, bello e ancora più bello perché era mio. Sorrisi stupidamente davanti a quel principe in nero addormentato davanti a me, e forse quell’insistenza del mio pensiero lui la percepì, perché si svegliò. Che immenso piacere fu vedere quegli occhi verdi aprirsi alla luce. Ho sempre amato specchiarmici dentro sapendo che erano esattamente come i miei e mi deliziavo ogni volta che lui stesse facendo la stessa cosa con me: gettarsi nella profondità dello smeraldo. Accolse il mio ritorno allo stato cosciente con un sorriso sghembo, stropicciandosi il viso per riprendersi più rapidamente. Era paradossale vivere quella situazione, perché fino a quel momento i ruoli erano sempre stati invertiti, lui protagonista della tragedia, legato in un letto a lunghe catene di plastica e medicinali, ed io accovacciata sulla poltrona, in attesa del suo ritorno alla vita.

Mi raccontò che era già un una settimana che ero lì, mi avevano ricoverato subito dopo lo svenimento al concerto, pensando in chissà quale brutto guaio mi fossi cacciata. I primi giorni li avevo passati a delirare pesantemente, come in preda a una forza oscura. Mi immaginai la scena e sorrisi debolmente, pensando che fosse stata una gran fortuna che i bigotti dei miei vicini non mi avessero vista in quello stato, altrimenti, cattolici devoti quali erano, avrebbero sicuramente chiamato un esorcista. Si lasciò sfuggire che ad un certo punto si era seriamente preoccupato per la mia salute, visto che non accennavo a riprendermi in tempi brevi. Per non parlare di quando mi vide cadere a peso morto sul palco. Vedermi in quelle condizioni gli aveva dato una concreta sensazione di déjà vu: aveva rivisto in me l’apice dei suoi giorni bui e il terrore che io avessi iniziato a drogarmi lo aveva travolto con la stessa prepotenza di un tir. Benché Tommy insistesse sulla validità dell’idea, (Non vedi com’è ridotta? Guardala, è uguale a te quando eri in astinenza!), lui non voleva crederci. Non io, non io.

Non era normale per Nikki avere timore per gli altri, lui che di norma era sempre stato menefreghista, incurante ed egocentrico sin dall’età di 10 anni. Ma questa volta era diverso, forse qualcosa stava cambiando seriamente, migliorando. Mi concessi di cullarmi brevemente nell’idea che si fosse affezionato a me per davvero, che la sua preoccupazione fosse dovuta ad un sentimento che provava per me, reale e non solo un’illusione della mia fantasia. Non avrebbe detto nulla altrimenti, no?

“Sei stato un matto a pensare una cosa del genere, lo sai, sì?” riuscii ad dire flebilmente, tra un colpo di tosse e l’altro, la bocca disidratata dai giorni senz’acqua. “Non avrei mai tradito la tua fiducia” aggiunsi mentalmente. Vidi uno sguardo colpevole e rammaricato nei suoi occhi, quasi avesse capito anche quel piccolo non detto. Poi si inclinò verso il letto, sfiorandomi una mano, vicino all’ago, con leggerezza, per non farmi male. Fu estremamente dolce, lui non era mai dolce.                           
Forse allora…

Improvvisamente ricordai che qualcuno mi aveva dato una botta al petto, Tommy credevo, non ne ero sicura, probabilmente era anche quella una delirazione da febbre, però mi ricordavo troppo bene quel colpo e l’apnea, era troppo vero per essere finto. Ma poi vidi Nikki scoppiare a ridere e capii che non avevo sognato. Quel pirla mi aveva tirato una martellata allo sterno, direttamente sul cuore, perché aveva visto fare la stessa cosa in Pulp Fiction su Mia Wallace che era andata in overdose. L’insignificante differenza era che Vincent Vega le aveva fatto un’iniezione di adrenalina, non l’aveva presa a pugni. Ma credendo che potesse essere d’effetto lo stesso, ci aveva provato e ancora si gongolava di avere avuto un’intuizione geniale e di essere riuscito nel suo intento di risvegliarmi, nonostante nessun medico gli avesse riconosciuto il merito della sua abile manovra. Tommy riusciva sempre a sorprendere tutti, in un modo o nell’altro.

Ora che era già da qualche minuto che mi ero svegliata, mi ero anche ambientata a sufficienza al ritorno alla vita reale, tanto che i primi stimoli corporei iniziarono a farsi sentire: necessità di muovermi e di andare in bagno in primis. Cercai di sollevarmi, volevo alzarmi. Incredibilmente anche se ero sveglia da poco già ero stufa di stare ferma. Ero una persona irrequieta e la stasi non si addiceva molto bene al mio spirito in constante subbuglio. Mi bullai di essere a posto, di non avere bisogno dell’aiuto che Occhi Verdi mi stava offrendo, ben consapevole che non ce l’avrei fatta nemmeno a stare in piedi senza supporto, ero troppo debole, ma non ne volli sapere. Così non appena cercai di tenermi in equilibrio da sola, testarda ed ostinatamente indipendente qual ero, caddi a terra. Non mi ressi nemmeno 5 secondi, sembravo fatta di gomma. Nikki fu rapido a recuperarmi, intavolando qualche ammonimento su ciò che dovevo e non dovevo fare.

“Da quando sei diventato responsabile?”

Non mi rispose, eludendo abilmente la domanda con un profondo silenzio, mentre mi prendeva pazientemente in braccio ed aspettava che afferrassi la flebo a cui ero attaccata prima di indirizzarsi verso il bagno. Mi sembrava di essere tornata bambina, quando il mio fratellone mi sollevava semi addormentata ed in coma dal divano a sera tarda per portarmi su in cameretta e mettermi a letto. Era già bello grande quando nacqui io, quindici anni in più, un’eternità quasi, ma era sempre presente nel momento del bisogno. Era stato il mio eroe. Quasi d’istinto, memore di una gestualità insita nella mia lontana abitudine, appoggiai il viso nell’incavo del collo di Nikki, come facevo sempre da piccola, quando a prendermi in braccio non era lui ma mio fratello. I suoi capelli neri mi solleticarono il naso così li soffiai via, sbuffando leggermente sulla sua pelle, facendolo sorridere. Era lui il mio eroe adesso.

Prima di lasciarmi da sola in bagno, dandomi la giusta intimità che meritavo, mi aiutò a riprendere stabilità, non lasciandomi andare fino a quando non vide che ce la potevo fare da sola. Sembrava che mi stesse insegnando a camminare ed era piuttosto insolito avere lui come maestro. Eppure dimostrò accortezza e pazienza. Pensai che sarebbe stato un buon padre.

Finalmente mi trovai da sola davanti al lavandino e mi guardai allo specchio. Mi vergognai di come fossi conciata, domandandomi come diamine Nikki fosse riuscito a guardarmi in faccia senza schifarsi. I miei capelli erano diventati piatti a furia di stare schiacciati sul cuscino per giorni, non c’era ombra delle belle onde che li caratterizzavano di solito, ogni tipo di cotonatura era scomparsa. Ero pallida e col viso smunto. Dovevo essere sicuramente dimagrita di qualche chilo in tutto quel tempo. Probabilmente dovevo avere la medesima espressione sfatta anche quella sera, ecco perché tutti si erano convinti ancora di più che fossi in astinenza da droga. Aprii il rubinetto dell’acqua fredda e usai tre quarti del sapone che trovai con l’intenzione di darmi una lavata sommaria, giusto per rendermi presentabile. Ma non appena iniziai ad insaponarmi le mani l’ago che avevo nel polso si staccò malamente con uno strappo. Mi fece un male del diavolo perché fu una cosa repentina, nonostante avessi cercato di usare accortezza quello era uscito di netto, all’improvviso, lacerandomi la pelle. Un rivolo di sangue iniziò a sgorgare rapido dove prima c’era quel pezzo d’acciaio e mi trovai ad osservarlo in uno stato di paralisi. Ero ipnotizzata dal fiumiciattolo rosso che usciva dal mio corpo con una rapidità insolita. Scuro e denso. Sangue venoso. Allungai la mano sotto l’acqua fredda, sapevo che aiutava a rallentare la sua fuoriuscita, ma pareva non succedere nulla, anzi, sembrava che si fosse aperto un altro rubinetto, stavolta dal mio corpo. Avrei dovuto essere nel panico, eppure ero insolitamente tranquilla, quasi in trance, come se non stesse succedendo a me. Chiamai Nikki ripetutamente, “Nikki, Nikki c’è un problema”, gli dissi con intonazione monotona. Quando entrò e trovò davanti a sé il lavandino pieno di sangue pensai che si sarebbe allarmato e che sarebbe corso a chiamare qualche infermiere o dottore, invece si mise a ridere mentre mi prendeva il polso per vedere meglio da dove stesse fuoriuscendo quella valanga di sangue. Mi misi a ridere anche io e ci trovammo in quella situazione insensata in cui ridevamo come due imbecilli davanti ad uno spettacolo orrendo come quello, come due ubriachi o, peggio ancora, due lobotomizzati. Eppure ci sembrava una scena così comica che ridere era davvero inevitabile! Ero così divertita che quasi arrivai alle lacrime e mi faceva male la pancia. Intanto Occhi Verdi mi aveva avvolto un asciugamano bianco intorno al braccio e mi disse di aspettare un attimo, stavolta stava andando a chiamare l’infermiera. Mi misi pazientemente ad aspettare seduta sul water, come da ordini ricevuti. Non credo mi sarei mossa in ogni caso. Data la situazione avrei dovuto essere già senza sensi per terra, o in fin di vita probabilmente, invece continuavo a sentirmi bene, come se quella scena la stesse vivendo un’altra persona. Vidi ricomparire i capelli neri di Nikki alla porta, aveva l’aria piuttosto scocciata dall’inefficienza del personale di quell’ospedale, sembravano tutti introvabili, scomparsi, gli unici due piano eravamo noi. Così, seccato, mi sollevò nuovamente di peso per andare a cercare un dottore, da qualche parte doveva pur essercene uno, no?  

Ci trovammo a vagare per i corridoi vuoti, assomigliava terribilmente ad una situazione apocalittica da post esplosione nucleare, tutto bizzarramente abbandonato, come se la gente fosse scappata all’improvviso per colpa di qualche terribile evento. Il paradosso era accentuato dal fatto che noi rientravamo tranquillamente in quel quadro per come eravamo conciati, due sopravvissuti ad un incidente che procedevamo lasciando una scia di sangue sul pavimento lucido dietro di noi. Di punto in bianco vedemmo una sagoma slanciata e magra delinearsi qualche metro più avanti. Man mano che ci avvicinammo la persona di Tommy prese forma in maniera più chiara e distinta. Quando ci riconobbe fece un balzo verso di noi e ci salutò con grande affabilità. Era contento di vedermi di nuovo cosciente e in forma, non notando che intanto l’asciugamano intorno al braccio si era quasi completamente colorato di rosso. Si scusò di avermi colpito, era rammaricato di avermi fatto del male, ma dovevo sapere che era stato per una giusta causa. Mi disse di nuovo che stavo molto bene, che ero estremamente bella, al che pensai che o non ci vedeva, o si era ubriacato, o a furia di perdere tutto quel sangue stavo probabilmente mutando e diventando un vampiro, quindi la mia bellezza aveva una causa reale. Eravamo fermi davanti ad una finestra e riuscii a cogliere il mio riflesso nel vetro. Mi sorpresi nel constatare che effettivamente Tommy aveva ragione, ero bella, i capelli erano tornati alla solita forma, vaporosi e mossi, e la mia faccia non era più sciupata. Forse mi stavo trasformando seriamente.  

Finalmente incappammo in un’infermiera, una biondina con l’aria arcigna che mi fece paura. Il mio sesto senso mi fece capire che non volevo avere a che fare con lei, ma d’altronde era l’unica che avrebbe potuto aiutarmi in quel deserto. Subito ci aggredì malamente chiedendoci che ci facessimo in giro da soli, e Nikki le rispose illustrandole il problema: avevo un’emorragia che non si bloccava. Per rinforzare con evidenze pratiche la sua affermazione, sventolai il braccio davanti alla faccia della donna, mostrandole orgogliosamente il mio asciugamano zuppo. Come due idioti scriteriati, mentre stavamo parlando, ridevamo di gusto. Anche Tommy si unì al coro, trovando la scena estremamente ilare. L’aria di quel posto doveva sicuramente essere zeppa di elio, le nostre risa non si sarebbero spiegate altrimenti.  L’infermiera, seria come non mai, non prese parte al gaudio generale, invece ci riprese, ordinandoci perentoriamente di tornare in camera, lei e il dottore sarebbero arrivati a sistemare le cose. Che donna antipatica e triste che doveva essere, almeno una risata poteva concedersela!

Nonostante lo sdegno, tornammo tutti e tre nella mia stanza ad aspettare. Non nego che stavo iniziando ad avvertire un certo disagio al pensiero di quello che mi avrebbero fatto. Non sapevo di che si sarebbe trattato, ma temevo l’uso di altri aghi. Stavo addirittura iniziando ad avvertire un incipiente senso di nausea, ma poi incrociai lo sguardo rassicurante di Nikki e mi rincuorai un poco. Non mi avrebbero fatto del male con lui vicino, si sarebbe assicurato che tutto andasse bene senza che io soffrissi. Ci potevo contare, lui era il mio eroe. E poi c’era anche Tommy che mi voleva bene e non avrebbe permesso che mi accadesse qualcosa di male. No ero in una botte di ferro con loro.
Finalmente l’infermiera antipatica e il medico arrivarono portandosi dietro una valigetta di metallo. Era una di quelle 24 ore che si vedono sempre nei film quando delle fialette molto delicate devono essere trasportate senza danni, quelle con l’interno iper protetto. In realtà non capii quale fosse lo scopo di una borsa simile nel mio caso, non dovevano fare altro che mettermi dei punti, non mi sembrava che dovesse servire qualcosa di più. Guardai con sospetto i due mentre confabulavano ed annuivano tra di loro, in attesa di sapere quale sarebbe stata la mia sorte. Sperai che non sarebbero stati troppo malvagi con me. Finalmente aprirono la borsa di metallo e ne estrassero uno dei più grossi aghi che avevo mai visto. Aveva un diametro di 1 centimetro abbondante ed era più simile ad un punteruolo gigante che ad uno strumento medico. Davanti a quella vista poco non svenni. Poi subentrò la paura e il raptus di fiondarmi giù dal letto e scappare il più lontano possibile. Non mi sarei mai fatta infilare nel braccio quell’affare, non volevo morire! Non appena anche Nikki e Tommy videro cosa si stava accingendo a fare il medico, si slanciarono subito verso di lui. Nikki era furioso e iniziò ad insultare prepotentemente quell’uomo, era un coglione, se mi avesse infilato quell’ago nel braccio avrei iniziato a perdere altro sangue, non mi avrebbe risolto il problema. L’uomo in camice però non sembrava essere ricettivo alle sue proteste e si avvicinò a me deciso, come se si trattasse di un automa con un compito da portare a termine, i suoi occhi erano quelli di un pazzo furioso. Dovevo andarmene, ma non feci in tempo a muovermi che mi trovai bloccata dalla presa ferrea dell’infermiera.
Offuscata dal panico iniziai a divincolarmi furiosamente, non avevo mai avuto così tanta energia e determinazione come in quel momento, dovevo trovare una via d’uscita al più presto. Tommy intanto era saltato sulle spalle del medico e gli stava stringendo il collo, cavalcandolo come un cowboy quando tenta di domare un cavallo selvaggio, urlandogli di lasciare andare quell’ago, mentre Nikki era intento a cercare di strapparglielo. Mi sentii sopraffatta dalle mani dell’infermiera, le sue unghie mi stavano lentamente penetrando la pelle e pensai che ci stesse provando un certo gusto sadico nello stringermi in quel modo. Così in un gesto frenetico e disperato decisi di fare l’unica cosa che in quella situazione potesse provocarle del dolore tale da costringerla a lasciarmi: le morsi con furia l’avambraccio. Ricordo il sapore leggermente salato del suo sangue, le sue urla, il liquido vischioso nella mia bocca, poi…mi svegliai.

Ero talmente agitata che ancora stavo sudando dalla paura. La luce debole del neon rischiarava a malapena la sterile stanza d’ospedale in cui mi trovavo. Doveva essere notte fonda a giudicare dal buio e dal silenzio. Aghi e tubicini erano infilati nel mio povero corpo scarno, legandomi a una flebo, una macchina respiratoria e ad un elettrocardiogramma. Ricordavo di essere svenuta sul palco in preda alla febbre, non mi sentivo per niente bene ma avevo taciuto, facendo prendere sicuramente un bello spavento a tutti, pubblico compreso. Ricordavo che in un attimo di coscienza avevo visto che Nikki era vicino a me in quell’occasione. In tutta onestà non sapevo da quanto fossi lì distesa, il senso di stordimento era leggero, sopportabile quasi. Ma che sogno orrendo avevo fatto. Per fortuna era finito. Osservai con curiosità i battiti del mio cuore segnati a numeri verdi neon su sfondo nero, stavano rallentando. Poi mi girai e vidi Nikki accovacciato sulla poltrona, addormentato. Era ancora accanto a me, non mi aveva lasciata. Forse stava cambiando. Forse davvero qualcosa stava cambiando.
 
N.B. Questa storia, come è scritto nella trama, è stata costruita su un sogno che ho fatto realmente che ha costituito lo scheletro del racconto. Ecco spiegato quindi il delirio e il caos generale menzionato nel titolo. Ci ho messo un po’ a trovare il modo di raccontarla, spero vi sia piaciuta.
Mars  

   
 
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