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Autore: Setsuka    16/04/2013    6 recensioni
“Triste, è la natura dell'uomo”.
“Non è triste. Non per noi. E' disgustosa”.
“Non sono io quello che il Sabato va a lodare Dio”.
Genere: Angst, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Eric Cartman, Kyle Broflovski
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Don't take offence at your innunendo

Questa Fanfiction è quella che ormai considero la mia “opera magna” del fandom, in quanto a contenuti c'è tanto - forse tutto - quello che vorrei dire sul rapporto tra Eric e Kyle, in quanto la forma è finalmente quella giusta, adeguata ai contenuti e... non preoccupatevi: avrà un finale.
Le mie ff senza finale sono ff che non mi sento di continuare per la loro immaturità artistica e quelle che scrivo a due mani, abbiate pazienza, non dipendono solo dalla mia volontà, ma da una certa serie di fattori, per tanto non significa solo che bisogna portare pazienza. Però ci sono delle ff, qui, in questo fandom, che avranno un finale, alle quali sto silenziosamente lavorando e - con questa pubblicazione - colgo l'occasione così di rasserenare qualcuno, mentre ne approfitto anche per tendervi la mano e chiedervi fiducia per questo lavoro: se riscontrerò fiducia dai lettori il mio lavoro a questo progetto sarà più celere, ma vedendo disinteresse, tante letture e pochi commenti o prossimi allo zero, beh... lavorarci allora diventerebbe demotivante, difficile e un'esperienza negativa, in quanto il pensiero di ogni autore che non riceve feedback (e non parlo di recensioni positive, ma di qualsiasi tipo di opinione) è “cosa scrivo a fare? Tanto nessuno la legge, non piace e non so neanche perché” ed essendo noi semplici fanwriter, non abbiamo un'autostima tale da credere il contrario, quindi sì, ho la responsabilità - e tutta l'intenzione - di versar sangue su questo lavoro, ma chiedo cortesemente a voi di lasciarmi una recensione, positiva, negativa, neutra che sia, perché anche solo una di esse può diventare il più grande stimolo per un fanwriter.
Nella speranza che apprezzerete, vi lascio alla lettura, ringraziando tutti coloro che supportano sempre i miei lavori, che hanno fiducia in me e non mancano mai di esprimere un loro pensiero su quel che scrivo; questa fanfiction ha luce grazie a queste persone che mi hanno incoraggiata a scrivere una long da sola, che erano curiose di leggerne una e... ora c'è questa storia ed è solo grazie a voi - che sapete bene chi siete - e per tanto ve la dedico, con amore. Grazie
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Don't take offence at your  innuendo




“...triste è il destino dell'uomo...”

Non comprese, stordito dalla violenza riservatagli per... alcun motivo.
Insensato. Pazzo. Gli aveva sputato quel vaffanculo così gratuito e spinto contro la porta, come fossero nel mezzo di una rissa, quando - in realtà - per tutta la sera si erano parlati e guardati appena.
Ora però Kyle lo vedeva bene Cartman, ora che gli sussurrava con dramma quella frase insensata. Lo vedeva bene perché gli aveva gelato il sangue, perché immobile rimaneva quando investigava sui suoi comportamenti più eccentrici alla ricerca di una ragione, nella speranza - forse - di non avere davanti una persona puramente irrazionale, potenzialmente pericolosa.
Eppure la conclusione era sempre la stessa: pazzo. Totalmente e pericoloso, come lo era sempre stato in fondo.

triste è il destino dell'uomo” sussurrato con quegli occhi da rettile spenti, freddi... Erano color ambra e a Kyle, ricordavano sempre quei pezzi di ambra che conservavano fossili, scheletri di qualcosa estinto nell'ambra stessa. Gli occhi di Cartman sembravano esattamente così.

A certe distanze si dovrebbe arrossire e sentire le farfalle nello stomaco.

Kyle era pallido e nauseato. La sua mano destra tremava anche un po'.

Sussultò e desiderò affondare un pugno quando sentì il naso di Cartman strisciare sulla sua guancia. Il respirò gli mancò, ma sentì quello di Cartman dritto nel suo orecchio.
Non lo avrebbe mai detto, ma le parole che pronunciò dopo erano inequivocabilmente una preghiera: “rimani Kahl”.
Chiuse gli occhi per figurare il senso di tutto quello. Era stato solo uno dei loro soliti Sabato sera a casa Cartman, una serata di videogiochi e stronzate, in cui tutti e quattro si degnavano ben poco di attenzioni per darle allo schermo, mentre sopra al soundtrack del gioco regnavano le stronzate di Kenny sulle tizie che conosceva e sul sesso, mentre Stan cercava di portare la decenza in quella casa con qualche stronzata di natura politica, e il tutto orchestrato dai brevissimi commenti critici di Kyle e dai “cazzo” o altre volgarità di Cartman. Era stata così anche quella sera, niente di più e niente di meno, però... tutto trovò un senso, nel trovare un dettaglio. Cartman aveva perso.
L'adrenalina lo rianimò, spintonando stavolta lui con violenza Cartman.
“Cresci!” Gli urlò prima di sbattere la porta ed esser fuori.

Stan e Kenny tanto presi dalle loro chiacchiere non lo notarono nemmeno, ma quanto lo sentirono a pochi passi da loro camminarono. Il vento era pungente e la neve alta, affondavano bene i passi e bruciava il volto dell'ebreo assieme le mani che forzava in tasca; aveva dimenticato i guanti e ne stava pagando le conseguenze. Ma bruciava per lo più lo stomaco, sovraccaricato di rabbia.
Bruciava, dentro e fuori, una fiamma silenziosa che si avvelenava nel respiro e nel pensiero.

Quando arrivò davanti casa salutò appena i suoi amici che proseguivano nel rientro, come salutò appena sua madre e suo padre, presi dai preparativi per Hannuka.
Cercò solo il suo letto, aveva bisogno di morbidezza, di caldo, di coperte che impedissero ai mostri che vivono nel buio di prenderlo.
Ma quando chiuse gli occhi il mondo si aprì su nuovi mostruosi orizzonti. Erano sogni che dovevano parlare per tutti quei silenzi e risposte in acido, per quello che non ammetteva, per quello che accadeva all'ombra della sua ragione.
Non era la prima volta che si trovava nel nulla, in cui l'unica cosa visibile fosse se stesso.

“Triste, è la natura dell'uomo”.

Sussulta, perché compare, lui.
Vicino, fastidioso, ingombrante; gli occhi non sono freddi, ricordano ora il colore del miele. Gli piace il miele, anche se il suo diabete gli impedisce di esserne ghiotto, ed è piacevole la sensazione di averlo in bocca, senza dover masticare, ingoiare a forza, come fa sempre per tutte le parole ed i gesti che hanno origine da Eric Cartman.
Preferiva il ragazzino obeso forse, anche se perdeva di fascino e di intelligenza, mentre il Cartman quattordicenne ha perso in grande abbondanza stupidità e grasso. Potrebbe essere quasi un essere umano accettabile, accettabile per avere una certa distanza con lui, eppure è proprio questo e il peso degli anni e l'accorciarsi delle distanze che hanno cambiato le carte in tavola e le posizioni sulla scacchiera, e il nero e il bianco non ricorda più a chi appartengano, sicuro però che è stato Cartman a fare la prima mossa e lui costretto a rispondere. Ed ora tutto è confuso, tante le perdite, di neri quanto di bianchi, e c'è una Regina prossima al Re, ma ha dimenticato a chi appartenga la pedina e il colore, sa soltanto che la distanza non gli piace, che qualcuno potrebbe essere mangiato e lui non vuole essere toccato né toccare.
Ma questa è la natura dell'uomo.

“Non è triste. Non per noi. E' disgustosa”.

“Non sono io quello che il Sabato va a lodare Dio”.

Diventa bestiale, salta come una tigre sulla sua preda, ma non ci sono i canini alla gola, bensì le mani.
Cartman è immobile, il suo sguardo è fisso su di lui e gli dà i brividi, per... tante cose che sigilla con i denti, lasciando le labbra sanguinare. E forse anche un po' il suo cuore.
Non vuole sentire pronunciargli il nome di Dio, dargli lezioni, criticarlo, rimproverarlo... non vuole sentirlo parlare, né vedere, né avere consapevolezza di quello che gli provoca, lì, tra le gambe e sottopelle, all'altezza dello stomaco e del petto.
Voleva vomitare, perché naturalmente è più facile vomitare che digerire, basta uno stimolo e in pochi secondi ci si può svuotare di tutto, mentre digerire costa, è fatica e pazienza e Kyle ha messo bandiera di resa con Cartman: non è più in grado d'esser paziente con lui.

Vuole soffocarlo, ma gli tremano le mani.

Vuole che la sua forza prevalga su quella dell'altro, ma è debolezza.

Vuole che venga inghiottito dall'oscurità e tornar solo, ma sa quanto la solitudine sia spaventosa.

Gli occhi di Cartman non sono più caldi, di nuovo ricordano quelli di un rettile. E lascia la presa.
Riporta la mente al giorno in cui Cartman aveva realizzato che Jack Tenorman era suo padre, ricordava le lacrime di quel bambino, ricordava d'aver provato una fitta e poi disgusto: Eric Cartman era disperato per esser figlio di un pel di carota.
Dov'era il confine tra realtà e bugia in Eric Cartman?
Era confuso, non sapeva individuarlo e si comportava di conseguenza come un porcospino, o meglio un'istrice i cui aculei si rivelano velenosi però.
Meglio attaccare di veleno, corrodere, che lasciarsi plagiare, che credere in colui che di umano aveva ben poco.

“Forse, in fin dei conti, ho paura di perdere la mia umanità”.

“...perché sei solo uno stupido ebreo che vuole rimanere uno stupido ebreo e non andare al di là di quello che vede uno stupido ebreo”.

E' ancora lì, sopra di lui, e potrebbe portargli di nuovo le mani alla gola e stringere per farlo tacere definitivamente, ma non ha forza ora, solo il coraggio di mostrare la propria debolezza a quello che sa - ma non è rassicurante - essere solo un'altra parte di se stesso.

“Non sappiamo che farci del male, che usare violenza, con parole o azioni. Perché dovrei desiderarti?”.

E scoppia a ridere, risate grosse, gli sembra come nei fumetti che diventino onomatopeiche, enormi, fastidiose, pesanti, che violino il suo spazio e il suo onore; vorrebbe fuggire, ma risponde solo con i pugni, per farlo tacere, per non ferirsi, perché anche quella è violenza e si ferma solo nell'istante in cui realizza: è masochismo.

“E' più facile odiarti...” ammette con amarezza, fermo, svuotato, demotivato.

“No, non lo è. E' semplicemente più facile per te metterti le mani dentro le mutande che tirar fuori le palle”.

“Cos-?” il sorrisetto compiaciuto è l'ultima cosa che vede prima che la realtà - a suon di sveglia - non lo riprende a se.

Sembravano appena pochi minuti, invece era stato il sogno di un'intera notte. Una spiacevole conversazione con la sua coscienza.
Esce dai boxer la mano, è appiccicosa e non vuole vederne il frutto. La sinistra spegne la sveglia, è Domenica ed è ancora presto e buio nella sua camera.
Chiude gli occhi e chiede perdono mentre torna all'oblio. Vomiterà tutto nel cesso, laverà tutto via, ma ha bisogno di sentirsi sporco per almeno un'altra ora.







   
 
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