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Autore: Shiki Ryougi    18/04/2013    3 recensioni
[Prima classificata al concorso "Original Scene 5: Il Puzzle e… la Citazione"]
Sapeva che stava sognando ma non riusciva a svegliarsi.
Se n'era reso conto dopo aver osservato degli eventi davvero insoliti ma non strani per essere un sogno. Piccoli dettagli molto comuni che però permettono di capire che non ci si trova nella realtà. Era bastato un singolo pensiero. Il seme di un'idea che mettendo radici gli aveva aperto gli occhi. L'opacità dell'inconsapevolezza era svanita, tutt'intorno s'era fatto limpido, come quando una fitta nebbia se ne va via all'improvviso, rivelando le assurdità.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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• Tipologia One-shot
• Lunghezza Circa 2500 parole
• Genere Drammatico, introspettivo, sovrannaturale
• Avvertimenti Nessuno
• Rating Giallo
• Credits La frase "Se corri come un fulmine ti schianti come un tuono" è tratta dal film "The Place Beyond the Pines" ed è proprietà dei rispettivi autori.
• Note dell'autore Il rompicapo che ho inserito assomiglia a quello che trovate in questo link: QUI.
[*] Riferimento a "Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò" di Lewis Carroll.


Link al contest: QUI.














 

Andrea odiava le persone.
La causa di quel sentimento era sepolta dentro di lui. Esso era istintivo e molto vivido. Pulsava come il cuore nel petto di un bambino che corre e gioca.
Per questo aveva sempre evitato di farsi troppi amici. Quei pochi alzavano ogni tanto il culo e si degnavano di chiamarlo. Usciva con loro per una pizza o un film al cinema.
Gli altri apparivano solo quando c'era bisogno del suo d'aiuto, dopodiché svanivano nel nulla.
Era qualcosa di matematico: più sei solo e meglio vivi. L'aveva imparato nel corso dei suoi ventuno anni di vita.
Fin da quando faceva le elementari gli piaceva sedersi sotto il sole, appena arrivavano le belle giornate, e osservare le persone. Dal loro comportamento, espressione del viso, modo di parlare e interessi, riusciva a interpretarne il carattere. No quello apparente, la maschera di tutti i giorni, ma il lato più scuro, quello che nascondevano gelosamente.
Con il passare del tempo quella passione s'era trasformata in una lotta per la sopravvivenza; aveva capito che le persone sono un gregge di pecore guidate dalla società, il loro pastore.
Pochi erano diversi. Pochi erano simili a lui; quindi destinati all'ombra. Da ragazzino ne aveva avuto la conferma. Se non sei come gli altri, se non sei circondato da centinaia di amici ipocriti, allora sei un'attrazione da circo. Un animale strano, novità sul bancone del divertimento, che gli altri osservano con curiosità. Pestano e sfottono, come si fa con le bestie chiuse dentro una gabbia.
Aveva sempre cercato di evitare tutto ciò, fuggendo alla velocità di un fulmine.
Un suo vecchio amico, quando faceva le scuole medie, era finito all'inferno. La sua unica colpa? Essere la pecora nera di quell'enorme gregge. La bestia rara.

«Tu sai solo correre.» le aveva detto l'ex-fidanzata un anno prima, nel momento in cui lo lasciava, «Fuggi così velocemente, senza farti problemi per gli altri. Non affronti il mondo, sei solo un codardo».
Dopodiché l'aveva abbandonato. Nessun ma e nessun se. Solo addio.
Aprì gli occhi nel momento in cui il telefonino cominciava a suonare. Per fortuna che aveva messo la sveglia.
Sospirò, osservando per qualche secondo il soffitto. Contò fino a dieci, si alzò, lentamente si recò in bagno e lavò via il sudore dal corpo. Profumato e ben vestito, uscì di casa, montò sulla decappottabile e partì.
Gli ultimi frammenti del sogno stavano abbandonando la mente e l'accecante luce sugli occhi – nonostante gli occhiali da sole – lo svegliò del tutto.
Guidava veloce; amava vedere il mondo sfrecciare dietro di sé. Lo faceva sentire stranamente bene.
Sai solo correre.

Scacciò quel pensiero. Era acqua passata, adesso doveva concentrarsi per non arrivare in ritardo.
Un suo amico dell'università gli aveva chiesto di accompagnarlo al cinema, per vedere un film di cui nemmeno ricordava il nome.
Quando arrivò vide che lo stava aspettando davanti all'ingresso. Il sole nel frattempo cominciava a tramontare, tingendo ovunque di arancione.
Mancavano circa cinque minuti all'inizio del film. Per fortuna che aveva recuperato il tempo perduto lungo la strada, nel punto in cui non c'era mai traffico.
Abitava in campagna, quindi il tratto che percorreva per raggiungere la città era quasi sempre deserto e lui poteva concedersi il lusso d'infrangere qualche limite.
Matteo, il suo amico, sorrideva e gli mostrava l'orologio incitandolo a muoversi. Accanto ci stavano la fidanzata e un ragazzo che non conosceva.
Sbuffò. Aveva sperato che fossero da soli, non con altra gente. Ma in fondo doveva aspettarselo.
Trovò un parcheggio mentre i pensieri gli vagavano velocemente nella testa e si apprestò a raggiungerli.

The Place Beyond the Pines, così si chiamava il film.
Il fatto che Matteo avesse pomiciato tutto il tempo – o quasi – con la ragazza e Luca, l'altro della compagnia, fosse muto come un pesce ma un divoratore accanito di pop corn – spargendo cibo ovunque – lo avrebbero convinto a tornare subito a casa. Ma il film era stato talmente bello da tenerlo incollato allo schermo – oltre che aveva pagato il biglietto e quindi sarebbero stati soldi sprecati – facendogli dimenticare per un paio d'ore tutto il resto.
Se corri come un fulmine ti schianti come un tuono. Quella frase, citazione del film, che ne racchiudeva il significato, gli era entrata dentro. Nella testa gli s'era per un momento acceso qualcosa. Possibile che fosse rivolta anche a lui? Poi aveva scartato quell'idea.
Sarebbero state due ore davvero terribili ma il film s'era rivelato una sorpresa e alla fine non s'era pentito di essere lì, in mezzo a quel trio di idioti.
Sorrise nel momento in cui cominciarono a scorrere i titoli di cosa. Poteva finalmente tornare a casa e l'amaro in bocca sarebbe stato meno intenso del solito. Alla fine c'aveva ricavo qualcosa di buono.
Quando uscirono dal cinema nessuno degli altri tre aveva capito qualcosa del film. Anzi, lo definirono davvero noioso. Andrea si trattenne dal rispondere male e sorridendo li salutò, annunciando che aveva passato una bella serata.
Appena fu dentro la decappottabile e fuori dalla città, nelle vuote strade di campagna, sotto il cielo stellato, lanciò un urlo liberatorio e aumentò nettamente la velocità.
Il vento gli smuoveva i folti capelli neri e gli sferzava il viso. Era una sensazione bellissima, dopo quella pessima compagnia.
Dire che era deluso sminuiva i suoi sentimenti. Qualcosa dentro lo stomaco lo pungeva, facendogli stringere le viscere. Era una sensazione che provava spesso e ogni volta, per farla passare, doveva correre in sella al suo unico mezzo di salvezza, la macchina. La sua via di fuga.
E correva, correva sempre più forte. Vigile, occhi aperti, adrenalina in tutto il corpo. Pura libertà. In questo modo dimenticava il resto. Era come un fulmine, che da solo solca le strade del cielo.
Sai solo correre.
Inebriato dalla rabbia, invaso dall'adrenalina, andando troppo veloce, fece una curva invadendo l'altra corsia. L'aveva fatto altre volte, non incrociava mai nessuno e in caso era bravo a ritornare in fretta al suo posto.

Il vento davanti a lui, le stelle che brillavano sopra, il mondo che gli scorreva dietro ad alta velocità. Troppa, la vista annebbiata dalle lacrime. Gli abbaglianti di una macchina della corsia opposta. Tutto si colorò di bianco. Andrea sterzo per evitarla e il nero lo avvolse.
Correva come un fulmine e si schiantò come un tuono.

Sapeva che stava sognando ma non riusciva a svegliarsi.
Se n'era reso conto dopo aver osservato degli eventi davvero insoliti ma non strani per essere un sogno. Piccoli dettagli molto comuni che però permettono di capire che non ci si trova nella realtà. Era bastato un singolo pensiero. Il seme di un'idea che mettendo radici gli aveva aperto gli occhi. L'opacità dell'inconsapevolezza era svanita, tutt'intorno s'era fatto limpido, come quando una fitta nebbia se ne va via all'improvviso, rivelando le assurdità.
Ciò che esisteva intorno ad Andrea non era reale.
Quel sogno non gli piaceva. Ma niente, non riusciva a uscirne.
Si era ritrovato in un enorme piazza che solo vagamente assomigliava a qualche luogo che aveva già visto. Nel momento in cui aveva realizzato di essere in un sogno tutta la gente intorno s'era dissolta.
Questa era la prima volta che gli capitava ma all'inizio non gli aveva dato importanza.
Mentre camminava sentiva il suono dei suoi passi che echeggiava, per il resto c'era il silenzio.
Palazzi dalle forme e proporzioni improbabili s'innalzavano sempre più in alto, delineando il perimetro. Il cielo era fin troppo azzurro. Poi all'improvviso era scoppiato a piovere. Un singolo boato aveva squarciato il silenzio e Andrea, alzando gli occhi, aveva assistito alla formazione di nuvole nere e pesanti, che nel giro di qualche minuto avevano oscurato il sole, tingendo la piazza di grigio.
Bagnato dalla testa ai piedi desiderava di svegliarsi, stanco e infreddolito. Per quanto si sforzasse ad aprire e chiudere gli occhi, ciò che gli si presentava davanti era sempre lo stesso scenario. L'enorme piazza grigia, inondata dalla pioggia che cadeva a catinelle.
Faceva freddo e il vento sferzava sul viso pallido e stranamente troppo freddo.
Andrea stringeva le palpebre e attraverso quelle due piccole fessure scrutava tutt'intorno. I palazzi lo circondavano e sembrano tutti chiusi e disabitati. Era solo in mezzo al nulla.
Prese a camminare cingendosi il petto con le braccia. Man mano che il cuore cominciava a battere più forte lui si mise a correre.
Che serve sapere di essere in un incubo se non riesci a svegliarti?
Questo, oltre a spaventarlo, lo faceva arrabbiare. Il vento e la pioggia gli inzuppavano i capelli neri, il freddo era terribilmente reale come la sensazione di essere bagnati fin dentro l'anima. Era tutto troppo assurdo ma anche troppo vero.
Più volte rischiò di scivolare, il cuore cercava di sfondare la cassa toracica e il fiato si faceva più corto. Stava per fermarsi quando vide un varco. Tra i palazzi, enormi parallelepipedi prima bianchi e ora grigi, c'era un vicolo che conduceva fuori da quella piazza desolata.
Aumentò la velocità, sentendosi rinvigorito, e s'infilò nella stretta stradina.
“Non entrare nei vicoli.” si disse “Non troverai mai belle sorprese”. Lo sapeva bene ma non aveva altra scelta. Quel sogno anomalo doveva pur avere una fine. Di tempo a disposizione ne aveva quindi tanto valeva camminare e trovare un posto riparato.
Solo mentre camminava pensieroso e con lo sguardo fisso sulla strada, ricordò.
Lui quella notte non era mai arrivato a casa, nel suo letto; qualcosa glie lo aveva impedito.
Il cuore perse un battito mentre una fitta lancinante gli attraversava il petto. Le orecchie cominciarono a fischiargli e coprendosele con le mani si piegò in due per il dolore. Gli si oscurò la vista e nella testa iniziarono a scorrergli delle immagini. Erano sempre più veloci e sconnesse tra loro; man mano che aumentavano la sua sofferenza cresceva d'intensità. Le lacrime presero a solcargli le guance, mescolandosi con le gocce di pioggia. Sentiva che stava per scoppiare.
Riconobbe il volto di quel suo amico alle medie, della ex-fidanzata, di Matteo e la sua ragazza, di Luca e molte altre persone. Poi sentì la rabbia, la paura e la tristezza che aveva accumulato negli anni. Sempre racchiuse nel cuore, quelle sensazioni esplosero all'unisono. Il vento, la pioggia e gli abbaglianti. L'impulso che era scattato per fargli evitare la macchina che trasportava una famiglia comune come le altre. La sua decappottabile schiacciata contro una vecchia quercia che s'era inclinata verso il lato opposto.
Le immagini si fermarono e il dolore svanì.
Andrea cadde a terra, sicuro che sarebbe svenuto. Il dolore non era mai stato così forte. Era talmente tangibile e concreto da poterlo toccare. L'aveva distrutto.
Quando riaprì gli occhi si chiese da quanto tempo era rimasto lì a terra, in mezzo al vicolo. Ma poi si rese conto che non aveva senso parlare di tempo che scorre. Non si trovava da nessuna parte; forse era l'altro mondo. Tutto sembrava sospeso.
Si alzò in piedi, appoggiandosi al muro. Le gambe gli tremavano, si sentiva troppo debole, ma decise di continuare a camminare, perché quella era l'unica strada da seguire.
Non riusciva a vedere il fondo del vicolo perché era scesa una nebbia talmente fitta da concedergli un raggio visivo di due o tre metri. Sfinito ma determinato proseguì per molto tempo senza meta, tenendosi all'inizio ben ancorato al muro e poi, nel momento in cui aveva recuperato le forze, correndo, stanco di vagare in quel modo.
Poi, spaventato dal suo riflesso, si fermò di colpo, dopo aver percorso almeno un chilometro. Non si sarebbe mai aspettato uno specchio enorme alla fine della strada. Che bella fregatura.

Era enorme e sembrava risplendere di luce propria. Restituiva il riflesso di Andrea in modo perfetto, come nessuno specchio aveva mai fatto. Ma qualcosa non quadrava.
Lui si trovava in un vicolo, mentre nello specchio vedeva se stesso dentro una stanza bianca, senza porte o finestre.
Incuriosito, si avvicinò ancora di più. Un brivido gli percorse la schiena nel momento in cui appoggiava la mano sul vetro ed essa ci sprofondava dentro.
Uno strano e confortante tepore lo avvolse e, stranamente tranquillizzato, attraversò lo specchio.
“Dopo tutto anche Alice l'aveva fatto e non le era successo nulla di grave [*] ” si disse, mentre la stanza bianca prendeva forma intorno a lui.
Rimase immobile a fissare quel piccolo spazio per molto tempo. Al centro erano stati posti i pezzi di un rompicapo che conosceva soltanto per sentito dire. Non amava quel genere di passatempo.
Sapeva che la risoluzione consisteva nel dover incastrare tutti i pezzi di legno in modo che non cadessero. Non era per niente facile.
Si mise seduto e si guardò intorno. Nessuna uscita, soltanto lo specchio dietro di lui che portava in quel vicolo lunghissimo e freddo, che conduceva a quella piazza enorme, fine. Era bloccato lì e davanti gli era stato lasciato quell'indovinello.
“Devo risolverlo!” si disse “Niente ha senso, magari sono morto, ma so di doverlo risolvere. Sennò cosa ci farebbe qui?”.
Così prese ad osservarlo, cercò d'incastrare i pezzi prima in un ordine e poi in un altro, ma nulla. Poco dopo gli si smontava e doveva ricominciare daccapo.
Era frustante, si sentiva appeso a un filo. Aveva la certezza che tutto dipendesse da quel cavolo di gioco.
Ci provò per moltissimo tempo, ma il risultato era sempre lo stesso. Non era in grado di risolverlo.
Ma, proprio quando stava per essere preso dalla disperazione, una voce risuonò nella stanza.
«Posso provarci io?» chiese un bambino, apparso dal nulla.
Era pallido, indossava il pigiama e aveva i capelli biondi. I vestiti gli andavano larghi per quanto era magro.
«Allora... posso?». Il tono di voce era fievole ma rispettoso.
Andrea, sorpreso e senza parole, si fece da parte e lasciò il rompicapo al bambino.
L'osservò tutto il tempo; aggrottava la fronte pensieroso, prendeva un pezzo e ne scartava un altro per poi usarlo in un secondo momento, annuiva e poi restava in silenzio.
Nel giro di dieci minuti l'aveva completato. Sorridendo raggiante si voltò verso Andrea, che invece aveva le lacrime agli occhi.
«Perché piangi?» chiese il ragazzino, tornando serio.
Andrea non rispose, non sapeva cosa dire. Soltanto che aveva paura.
«Ci ho provato tante volte, sai?»
«Non è... non è la prima volta che vieni qui?»
Scosse la testolina bionda e rispose: «No, no. Ci sono stato parecchie volte, ma è la prima volta che riesco a risolvere il gioco... Tu dovresti essere felice.»
Andrea lo fissò per un po' prima di domandare il perché.
«Perché tu puoi ancora vivere.»

Di quello che era successo dopo ricordava solo immagini sconnesse ma non avrebbe mai dimenticato il viso raggiante e in pace di quel bambino.
Nella stanza d'ospedale in cui era stato ricoverato, dopo essere finito in coma, c'era anche lui. Dormiva nel letto accanto. Il suo corpicino era attaccato a dei freddi macchinari.
Qualche giorno dopo morì nella notte.
Andrea invece rimase zoppo; non poteva più correre. Ma non ne sentiva il bisogno.
Dopotutto, lui poteva ancora vivere. 

   
 
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