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Autore: Lady Selvaggia    09/11/2007    7 recensioni
Harlock e Maetel da soli su di un lontano pianeta, avvolto nella notte. L'incontro con misteriose creature disposte a tutto pur di generare una nuova razza umana ed un bambino che assomiglia ad entrambi...
Genere: Malinconico, Science-fiction, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Harlock
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Luci dell'astroporto


Le luci dell'astroporto illuminavano a tratti la facciata del grattacielo, scuro contro la notte nera e senza stelle. La camera dell'albergo era pregna dell'odore vago delle stanze sempre chiuse ed una luce incerta vi penetrava dalle saracinesche abbassate.
Lei posò la sua scura valigia sul pavimento, mentre il lungo cappotto nero ondeggiava ai suoi passi di bionda silfide. Si guardò attorno, esplorando la piccola stanza che avrebbe condiviso con lui. Udì i suoi passi quasi metallici e sentì richiudere la porta. Allora si volse.
- Ho addosso l'odore dei fumi di tutte le astronavi. - esordì subito Harlock, avanzando verso di lei.
- Anch'io. - la pallida voce di Maetel si diffuse nella camera. - Fai una doccia. Io ti aspetto...
Harlock gettò il lungo mantello frusciante su di una poltrona, togliendosi poi il fodero con la pistola e gettando la spada sul letto, che risuonò d'un triste rumore d'acciaio.
- Faccio subito... così potrai sistemarti anche tu. - le disse soltanto, senza guardarla, aprendo la porta del bagno.
Quando udì il rumore dell'acqua corrente Maetel si avvicinò al letto, levandosi il basco nero, che appoggiò sul comodino. Poi prese a sbottonarsi il cappotto, sciogliendo il nodo dei pon-pon. Accese la piccola lampada alla sua destra, mentre il cappotto scivolava languido sul pavimento: era proprio vero! Sotto quello scuro indumento Maetel non indossava altro: il suo corpo sottile e pallido risplendeva dolcemente alla luce della lampada.
I fari gialli e azzurri penetravano con insistente ritmicità in quella camera all'ultimo piano dell'immenso palazzo. L'acqua della doccia scrosciava instancabile, mentre Maetel, in piedi davanti alla finestra, continuava ad aspettare.
D'un tratto una pattuglia volante passò sfrecciando a pochi metri dal vetro. Maetel si ritrasse: che m'abbiano visto? No... non può essere.
Abbassò la pistola, ritornando alla finestra. Il suo corpo era pervaso continuamente dai lampi ineguali che provenivano dall'astroporto. Perché mai Harlock l'aveva trascinata lì, su quel pianeta lontano e periferico, in quel paese di fumo e macchine? Era troppo strano! E poi quell'insistenza per avere una camera sola... E chi erano quegli uomini pallidi e magri, così alti, avvolti in quei lunghi cappotti di un'altra epoca, che li avevano inseguiti appena sbarcati? Che stava succedendo? Harlock era troppo strano. Sì, strano era la parola esatta. E se...
L'acqua aveva smesso di scorrere. Un denso vapore avvolgeva il corpo di Harlock, nudo sotto la doccia. Poggiò una mano al muro e rimase in ascolto. Maetel era così silenziosa... Dalla stanza accanto non proveniva alcun rumore.
Sapere che c'era lei di là gli procurava un'insolita sensazione: in un'occasione normale si sarebbe sentito tranquillo, ma quella notte tutto era diverso! I grandi occhi di Maetel erano diversi: lo spiavano, lo frugavano con insistenza! E non capiva. No, Harlock non riusciva a capire quell'insolita richiesta di aiuto arrivatagli da così lontano. Maetel non aveva mai chiesto il suo aiuto a quel modo. E poi perché lo aveva supplicato di venire solo?
- Vengo con te, Harlock! - erano state le parole di Tochiro. - Questa faccenda mi puzza di bruciato.
- No, Tochiro, andrò solo... Maetel è una vecchia amica. Non avere paura!
- Ahaha! Il capitano non si fa mica prendere per il naso da una donna! - aveva riso Yattaran, con il suo solito fare scherzoso. - E poi può chiamarci in qualsiasi momento e noi saremo lì in un baleno!
Chiamarli? Già, e come se l'orologio col quale avrebbe potuto comunicare con l'Alkadia sembrava in tilt da quando erano sbarcati. Forse erano state la miriade di campi elettromagnetici che pervadevano il pianeta, forse le pericolose radiazioni della stella Komra-x, che illuminava di una spettrale luce rossa quel remoto sistema solare. Comunque, da qualsiasi causa dipendesse, ora ad Harlock era impossibile stabilire una qualunque comunicazione con la sua astronave.
E poi perché Maetel aveva insistito perché si fermassero nel primo albergo incontrato, anzi nel più vicino all'astroporto, dal quale emanavano i fumi soffocanti delle astronavi che ad ogni minuto arrivavano e partivano con i loro rombi assordanti?
- Qualcosa non quadra... - mormorò tra sé, mentre i caldi vapori del bagno andavano svanendo.
La porta, col piccolo vetro offuscato, si aprì lentamente, con un cigolìo fastidioso. Harlock si voltò di scatto, ma si fermò appena vide la pallida figura di Maetel stagliarsi nell'oscuro vano della porta.
- Che fai qui? - domandò Harlock, con voce strozzata, senza poter distogliere gli occhi da quel corpo così armonioso, con i suoi piccoli seni sodi e i fianchi sottilissimi.
- Era da molto che... non sentivo scorrere l'acqua. - rispose la donna, abbassando per pudore lo sguardo.
- Io ho finito...
Scivolandole accanto Harlock si avvicinò alla porta, dove prese l'accappatoio. Soltanto allora Maetel entrò nella doccia e, senza attendere che Harlock fosse uscito, aprì il rubinetto lasciando che l'acqua scrosciante la bagnasse tutta.
Infilati i pantaloni Harlock prese fra le mani la cosmogun e vi innestò il rivelatore. Il rumore dell'acqua sembrava invadere la stanza e coprire ogni altro suono. Si voltò. Dal vetro del bagno giungeva una luce gialla, densa e soffocante come i fumi che salivano dalle centinaia di basse strade di cui era disseminato il pianeta.
Alzò la pistola puntandola con decisone verso quel vetro e quella porta. Lampeggiò, emettendo il ritmico suono che Harlock aveva già sentito tante volte. Sbarrò gli occhi: Non è possibile! Qui! Ora? Dopo tanto tempo?
Si precipitò sulla porta, l'aprì con violenza, gridando:
- Maetel!
Il vapore saliva calmo, in dense volute sonnacchiose ed, oltre, nulla... nessuno.
- Maetel! - gridò con forza, una, due, tre volte.
Il lento vapore saliva con piccole spirali su... su... Harlock lo seguì con lo sguardo, finché giunse ad un piccolo lucernario a pochi centimetri dal soffitto: il vetro era aperto!
Maetel era uscita di lì. Completamente nuda?
- Maetel! - gridò di nuovo, certo che le fosse accaduto qualcosa.
Montando sul bordo della vasca, Harlock si affacciò al lucernario, così stretto da potervi passare a malapena un bambino.
- Come avrà fatto lei ad uscire di qui? - si chiese istintivamente, mentre i fumi di scarico di alcune fabbriche gli passavano davanti al viso col loro inconfondibile odore di solfuro e zolfo. Oltre quei vapori si distinguevano a malapena le tetre luci della città, mentre, in basso, era tutta una nebbia uguale e densa.
Dove mai poteva essersi aggrappata Maetel, per scendere di lì, dall'ultimo piano di quell'altissimo albergo, con la facciata consunta dai gas?
Si guardò ancora attorno. Una nuvola di fumo lo avvolse per un momento, nascondendo ogni cosa attorno a lui, poi si dileguò. Allora comparve la silhouette di un robusto tubo di scarico che percorreva l'intera lunghezza dell'edificio, fino a terra. Distava da Harlock circa un metro e mezzo.
Harlock sbarrò gli occhi: poteva davvero Maetel essere scesa lungo quel tubo, a mani nude, senza alcun appiglio? E perché, poi?
Senza più pensarci il pirata corse fuori dal bagno, si rivestì in fretta, prendendo fodero e pistola. Sbattendo la porta uscì dalla buia stanza, nella quale la lampada che Maetel aveva acceso mandava ancora il suo debole chiarore.
Prese uno dei rapidissimi ascensori dell'albergo ed attese, con impazienza, che la sua corsa finisse.
L'interno era a malapena illuminato da un tubicino fosforescente che mandava dal soffitto una debole luce intermittente. A quella luce Harlock si accorse di non essere solo. Nell'angolo opposto un'alta figura, di cui poteva distinguere a malapena gli occhi allungati, sembrava fare tutt'uno con le tenebre e con l'acciaio.
Harlock fissò i suoi occhi tenebrosi su quell'individuo ed anch'egli lo guardò.
- Che cos'ha di famigliare? - si chiese.
Fu un lampo: d'un tratto la memoria gli riportò davanti quegli uomini così alti e magri, vestiti con lunghi cappotti che, all'uscita dall'astroporto avevano seguito lui e Maetel. Si ricordò che Maetel li aveva osservati lungamente, mentre gli camminava al fianco e che, solo allora, essi erano spariti.
Rapidamente, come una tigre che balza sulla preda, Harlock si mosse verso di lui, estraendo contemporaneamente la pistola: non poteva essere un caso se, proprio adesso che Maetel era sparita, quell'essere si trovava lì. Ma in quello stesso istante la porta dell'ascensore s'aprì e, scivolando come un'onda sui fluidi confini del mare, l'uomo sgusciò fuori, allontanandosi rapidamente lungo i corridoi, avvolto nel suo frusciante cappotto color della notte.
- Fermati! Dimmi dov'è Maetel! - gli gridò Harlock, rincorrendolo invano, lungo i corridoi e le sale che s'aprirono davanti a lui.
Quell'essere misterioso era dotato d'una velocità non comune. In un attimo era sparito dal suo sguardo. Harlock corse ugualmente, attraversò stanze, scese scale, nell'inutile tentativo di rivederlo. Nel petto il cuore era un cavallo imbizzarrito e sembrava che, scalpitando, volesse fuggire da quel recinto di ossa e carne. Arrivato nell'immenso salone della hall, tappezzato di matelassé in tinta blu, Harlock si fermò. Ansimando si guardò attorno: dietro l'alto bancone della reception un uomo vestito di scuro sembrava scrivere su qualcosa, mentre ai tavolini, in fondo alla sala, pochi clienti consumavano le loro ordinazioni immersi nel silenzio più completo. Dalla grande porta automatica che dava sulla strada non proveniva alcun segno di vita: né luci, né suoni, né forme umane.
- Maledizione! - mormorò tra sé, avviandosi alla porta. - Se fossi riuscito a raggiungere quell'uomo forse mi avrebbe condotto da Maetel! Non mi resta altro che cercarla da solo... anche se così sono senza alcun indizio.
Due occhi d'un uniforme e pallidissimo azzurro lo fissavano con insistenza da un angolo remoto della stanza. Due occhi, soltanto due occhi e nient'altro.
Harlock uscì in strada dove l'accolse subito l'acre odore dello zolfo. Esalazioni rosse vagavano nell'aria, senza avere la forza di raggiungere il cielo. Un'atmosfera umida e pesante le costringeva a risiedere nelle regioni della terra, simile alla pesante condanna che grava sulle anime dell'Inferno. Ebbe fatto soltanto pochi passi quando udì la porta dell'albergo aprirsi, si voltò subito ma non fece in tempo a vedere chi ne era uscito. Un'ombra nera gli scivolò accanto, oltrepassandolo in fretta.
- Fermati! - gli gridò Harlock, riconoscendo quell'uomo. - Questa volta non mi scapperai!
Lo rincorse per un centinaio di metri, finché vide una Flyspeed, una moto volante, che un giovane stava parcheggiando. Lo spinse di lato e vi saltò sopra.
Con un sibilo sordo si alzò in volo, spezzando la massa scura delle dense nubi rosse, mentre quell'essere strano correva ancora con la sua andatura serpeggiante lungo la strada buia. Da lontano le sirene dell'astroporto segnalavano l'arrivo di una grossa nave da carico.
Harlock accelerò al massimo e si gettò all'inseguimento di quell'uomo. In pochi istanti la moto acquistò una folle velocità e lo raggiunse. Gli era ormai a pochi centimetri: avrebbe potuto sentire il rumore del suo respiro! Harlock allungò una mano per agguantarlo al bavero del cappotto, ma in quell'istante la creatura con un guizzo rapidissimo si distaccò da lui e, scivolando sul nero asfalto come su una lastra di ghiaccio, lo distaccò di almeno un centinaio di metri.
- Com'è possibile!? - Harlock sbarrò gli occhi, incredulo.
La Flyspeed accelerò, accelerò ancora. Ma non bastò. Quell'uomo, quell'essere venuto da chissà dove, era troppo veloce. Sembrava volare e, in pochi istanti, sparì.
Da solo, in sella alla sua Flyspeed, Harlock si ritrovò di fronte ad un lungo, lunghissimo vicolo buio. Una bassa nebbia rendeva impenetrabili quelle tenebre. La notte più cupa sembrava scesa su Ixmahèd.
La moto rombò sordamente, ferocemente, galleggiando nell'aria. Sembrava il lamento di una tigre ferita.
- Maetel... - mormorò Harlock, scrutando l'oscurità.




Fumo, fumo, soltanto un denso fumo rosso cadmio riempiva le vie buie e soffocanti della cupa notte su Ixmahèd.
I passi nudi di una donna pallida e magra solcavano il cemento nero di quelle strade strette. Lunghissimi capelli biondi e sottili fianchi di cerva. E due occhi dolcissimi e vuoti, stranamente vuoti ed inespressivi.
Le strade erano deserte. Le notti popolate soltanto da ogni sorta di alieni, gente di passaggio, condannati sfuggiti alla deportazione, contrabbandieri di Co-xy, il nuovo carburante spaziale, miraggio di folle di disperati e fuorilegge, disposti a tutto pur di entrarne in possesso.
Vapori caldi salivano dal sottosuolo attraverso le ampie grate, vapori di zolfo e anidride carbonica. E fra questi vapori passava Maetel, con gli occhi persi e lo sguardo vuoto.
Percorse chissà quanta strada in quelle condizioni, nuda sotto lo sguardo dei rari passanti, insensibile ai getti d'aria bollente o ai fiotti d'acqua ghiacciata che uscivano dalle fabbriche.
Misteriosi occhi allungati seguivano il suo cammino, suoni mostruosi sembravano trasportare sconosciuti messaggi in lingue ignote. Forme striscianti, molli e azzurrognole serpeggiavano ai suoi piedi, lasciando una scia bagnata al loro passaggio.
In fondo ad una strada, più nera e stretta di tutte le strade di Ixmahèd, Maetel si fermò. Di fronte a lei solo il buio più completo, il nulla assoluto. Soltanto voci, voci assurde e incomprensibili, sottili e acutissime, cupe e rantolanti.
Finché un suono, simile a qualcosa di umano, articolò la notte e il nulla.
- Guarda tua madre... Eccola che viene!
A quelle parole gli occhi di Maetel si colorarono della loro luce consueta, le lunghe ciglia si alzarono e si abbassarono e la bionda testa si voltò prima a destra e poi a sinistra. Infine il suo sguardo dolce e profondo si posò sull'uomo alto e magro, avvolto in un lungo cappotto d'altri tempi che le stava di fronte.
- Chi sei tu? - mormorò la donna. - Come hai fatto a condurmi qui?
- Non sono stato io a portarti qui... no... E' stato il tuo stesso sangue.
- Il mio... sangue?
- Sì... - come un'eco metallica seguiva le parole che lo strano essere andava pronunciando. - Il tuo sangue... e l'uomo che ha guidato il tuo cammino su questa opaca stella dimenticata.
- Harlock! - un lampo baluginò negli occhi di Maetel. Un corteo di immagini, subitanee: l'uscita dall'astroporto, quegli uomini così alti e magri, con quei grandi occhi terribili e poi l'insistenza di Harlock per avere un'unica stanza all'albergo e lui stesso così strano... Maetel iniziava a capire qualcosa, o forse non riusciva più a comprendere nulla. Cosa voleva Harlock da lei? Perché portarla lì senza darle alcuna spiegazione? Quali erano le sue reali intenzioni e, infine, era veramente Harlock?
- Ma non hai nulla di cui temere, da me... - bisbigliò quell'essere, tendendo verso Maetel una mano ossuta. - Vieni, avvicinati! Voglio mostrarti una cosa...
Maetel, diffidente, mosse alcuni passi. L'uomo scostò una falda del suo cappotto nero ed apparve il volto splendente di un bambino, che fissava Maetel con due occhi enormi, d'un intenso color nocciola.
Maetel indietreggiò, esterefatta: quei grandi occhi, quei lunghi capelli d'un castano quasi biondo appena arricciati sulle punte che incorniciavano un piccolo volto serio, così pallido... tutto, tutto in quel bambino parlava di lei e di Harlock! Sì, questa era la cosa più assurda: lei e Harlock, Maetel e Harlock uniti in un'unica creatura, nel volto dolce e spaventoso d'un bambino!
- Com'è possibile!? - mormorò Maetel. Com'era possibile, si chiedeva, che una creatura fosse nata da loro senza che essi si fossero mai uniti? E Harlock... Harlock come poteva saperlo? Sì, Harlock doveva saperlo già! Per questo aveva voluto condurla qui!
- Ti stai chiedendo molte cose, ora, non è vero, Maetel? - le disse lo strano individuo, con una voce acuta ma rantolante, che sembrava provenire da un altro tempo, da un altro spazio.
- Come conosci il mio nome? - Maetel indietreggiò ancora. Percepiva qualcosa di strano, qualcosa di terribile che gravava tutt'attorno a lei, a loro. Aspettava: aspettava soltanto l'occasione per andarsene. Doveva andarsene! Cercare Harlock, cercarlo e chiedergli spiegazioni! Forse era l'unica cosa da fare.
Ma l'uomo disse alla donna:
- Vieni con me! - un'eco vasta rimbombò all'intorno al suono di quelle flebili parole, appena sussurrate. - Io ti condurrò dove saprai! Io ti porterò all'origine di ogni tuo dubbio: saprai! Nessuno potrà più ingannarti.
Gli occhi di Maetel incrociarono gli occhi del bambino, un muto scambio di sguardi. Poi i piedi di Maetel si mossero, le sue anche ondeggiarono, e seguì quell'essere e la piccola creatura.

Fra il rombo assordante dei motori, le alte ciminiere delle fabbriche di metalli, i palazzi immensi e il fiume della gente più varia, non c'era alcuna traccia di Maetel. Harlock aveva percorso ormai moltissime strade, in sella alla flyspeed, alla ricerca dell'amica, ma nulla, né un indizio, né un minimo segnale gli avevano fatto sperare di trovarla. Sapeva che non poteva essere sparita! Maetel aveva affrontato mille difficoltà, incontrato ogni sorta di persone nello spazio infinito e aveva sempre saputo cavasela. Eppure... eppure ora tutto era diverso! Maetel e lui stesso, erano diversi!
D'un tratto, fra la gente, vide qualcosa, qualcuno di famigliare. Rallentò. Si fermò per un momento, con la flyspeed che rombava silenziosa e voltò la testa per cercare tra la folla un volto.
Un lungo vestito nero con un'ampia scollatura, fluenti capelli notturni ed un corpo bianchissimo e poi... quel volto!
- Non è possibile! - mormorò tra sé Harlock, sbarrando gli occhi. Dopo tanto tempo! Cosa ci faceva qui, sola! Fra queste strade intossicate e perverse, su questo lontano pianeta dimenticato che odorava di morte!
- Raflesia! - gridò, quando gli fu vicino.
Il volto della donna incontrò quello del pirata, gli occhi dell'antica regina quelli dell'uomo. Un'espressione di stupore li percorse entrambi.
- Tu? - mormorò lei.
- Dovrei dirlo io, di te... - la flyspeed, che volava a circa mezzo metro da terra, toccò il suolo. - Cosa ti è accaduto?
- E' una storia tanto... tanto lunga.
- Non posso credere che la terribile regina delle mazoniane sia qui, tutta sola, a vagare su di un simile pianeta!
- Eppure sono qui... ma non sono più regina!
- Non sei... - Harlock ne fu sconcertato. - Vieni! Sali: non ho tempo di fermarmi a parlare con te, ma possiamo farlo strada facendo!
- Tu... che dai un passaggio a me? - la regina non potè trattenere un sorriso.
- Non siamo più nemici. La guerra è finita.
- Sei sempre stato un uomo strano!
Con la consueta agilità mazoniana, Raflesia saltò sulla moto, accomodandosi dietro ad Harlock. Il vestito lasciò ampiamente scoperte le lunghe gambe sottili e i piedi scalzi.
La moto riprese la sua corsa fra le strade di Ixmahèd, con quel rombo sordo e cupo di animale a caccia. Raflesia stringeva lievemente i fianchi di Harlock, mentre i loro volti si sfioravano.
- Cosa sei venuto a fare quaggiù? - gli chiese.
- Me lo sto chiedendo anch'io!
- Sei solo?
- No... - all'improvviso Harlock si ricordò che, poco prima che Maetel sparisse, aveva rilevato la presenza di una mazoniana nella stanza d'albergo. Istintivamente rallentò la corsa.
La notte era soffocante e cupa, come l'interno d'una cripta chiusa da millenni. Per le strade non anima viva. Soltanto fumi carminii e arancio, come sottili spettri errabondi, percorrevano i vicoli e l'aria tutt'attorno.
- Voglio farti vedere dove vivo ora. - mormorò la donna, improvvisamente.
- Vivi qui? - Harlock era stupito.
- Non c'è altro posto per una regina in esilio... che venire a morire su Ixmahèd!
Raflesia stese il braccio e, senza aggiungere parola, indicò la buia strada che si stendeva davanti a loro, fra le fabbriche e i palazzi.
La moto rombò, aumentò la distaza tra lei e il suolo e prese a volare con una folle velocità. Sfrecciava fra i palazzi e i vapori acri che venivano dal sottosuolo. Si diceva che strane bestie lo abitassero, mostri nati dai veleni e dalle scorie tossiche delle fabbriche. Per questo la notte era sempre deserta. Talvolta si sentiva qualcosa grattare alle robuste inferiate che pavimentavano, in certi tratti, le strade buie. Un rumore che pareva quello di unghie d'acciaio.
Non parlarono più. La moto divorava la strada, come il predatore affamato la sua preda dopo notti d'appostamenti.
Chilometri di strada. Il nulla ed una strada buia. Ed anche questa, alla fine, terminò. Davanti a loro un'oscurità senza stelle ed un deserto inabitabile che si stendeva a perdita d'occhio. Il vento, solamente il vento, cavalcava notte e giorno su quel deserto, come un pazzo che vada cercando di dissotterrare chissà quali segreti.
Raflesia stese di nuovo il braccio davanti a sé ed Harlock non fermò la moto.
A tratti strani vapori azzurri si levavano fino al cielo, mentre dei fuochi si accendevano qua e là ad indicare la via a smarriti fantasmi. Poi... apparve qualcosa: una cupola semisferica, alta forse una ventina di metri e larga altrettanto. Era divisa in spicchi da costoloni neri che si congiungevano alla sommità e, tra questi, una sostanza verdastra e luninescente, che sembrava impenetrabile ma, al contempo, estremamente fluida.
Harlock fermò la flyspeed alla base della strana costruzione ed alzò gli occhi fino alla sua sommità. La fissò a lungo: improvvisi bagliori attraversavano gli spicchi d'un verde fluorescente. Sembravano scariche prodotte dall'urto di particelle. Fu distolto dalla sua contemplazione solo perché s'accorse che Raflesia non sedeva più dietro di lui. La cercò con gli occhi e la vide, pochi metri più avanti, di fronte ad uno dei settori che componevano la cupola: poggiò una mano su di esso e, lanciando un ultimo sguardo ad Harlock, lo oltrepassò, quasi risucchiata da quella sostanza viscida.
Harlock smontò rapidamente e corse nel punto in cui Raflesia era scomparsa. Cercò di guardare all'interno ma non si poteva distinguere nulla. Allora alzò una mano e la poggiò contro la parete: era molle ed estremamente mobile, come se fosse composta da una sostanza viva. Esercitò una pressione più forte e penetrò all'interno con il braccio, poi con la spalla, con la testa ed, infine, con tutto il corpo.
- Che cos'è questo posto? - si domandò, appena fu dentro.
Un non-luogo, uno spazio infinitamente grande ed infinitamente piccolo allo stesso tempo ed un rumore sordo, un suono inarticolato riempiva ogni dove. E quella sostanza, così viscida e così solida si estendeva ovunque: in alto, in basso, a destra e a sinistra, senza sosta. Formava degli archi che congiungevano il soffitto alla base o ad un punto della parete, eppure non si poteva distinguere con chiarezza né il soffitto, né la base. Si allungava a tracciare ponti, a disegnare abbozzi di strade, si avvolgeva su se stessa, si intricava e districava in un groviglio sempre più complicato, simile ad uno strano geroglifico.
- Che posto è mai questo? E Raflesia... dov'è? - si guardò attorno, ma non poteva distinguere nulla lì dentro, nulla di vivo, almeno.
Poi udì la sua voce:
- Harlock... Vieni qui, avvicinati! - suonava metallica e lontana, come se provenisse da un altro luogo e un altro tempo. Ma Harlock non ebbe timore e mosse i primi passi in direzione della voce.
Allora iniziò a scorgere qualcosa lì dentro, qualcosa che, se non era vivo, almeno lo era stato. Avvolti da quella materia fluorescente decine e decine di corpi riempivano la misteriosa costruzione. Si stendevano per metri, in ogni dove, su ogni altezza.
- Raflesia! che significa tutto questo? - gridò.
- Guarda, Harlock! Guarda il mio popolo!
- Il tuo... popolo? - Harlock si voltò di scatto, percorse con gli occhi l'intera estensione visibile di quell'immenso cimitero soffocante. Possibile? Possibile che tutti quei corpi fossero mazoniane addormentate per sempre, in attesa di chissà cosa!? Si ricordò, d'un tratto di aver veduto qualcosa di simile, molti anni fa, all'interno di una piramide, nascosta in fondo al mare.
- E' tutta qui... è tutta qui la tua gente?
- Sì! E' tutto quello che ne resta! Il viaggio interminabile e i pericoli dello spazio hanno fiaccato e annientato il mio popolo! Guardali, Harlock! Che ne è stato del fiero regno di Mazone? Che ne è stato di un popolo coraggioso che lottava per il proprio avvenire? Ci siamo dispersi! I pianeti del cosmo hanno saccheggiato una regina, l'hanno privata del suo popolo! Questo è tutto ciò che ne resta!
- Mi hai portato sin qui per mostrarmi questo?
- Sì... Volevo che tu sapessi! Perché è per causa tua che è successo! - Raflesia lo fissava al di là di un intrico di nervature che correvano da parete a parete. Il suo era lo stesso sguardo fiero e crudele che tante volte Harlock aveva incontrato. - Io ti ho condotto su questa stella morta...
- Sei stata tu?
- Sì, io.
- Allora Maetel...
- Maetel... è qui.
- Dov'è? Dimmi dov'è, Raflesia! - Harlock balzò su di lei, ma li divideva una fitta muraglia, non più molle, ora, ma dura e fredda come le ossa di un antico gigante.
- Guardala! E' sopra di te! - gridò Raflesia con una voce sconosciuta, alzando in braccio destro, l'indice teso.
Harlock si voltò di scatto ed alzò lo sguardo: fu una vertigine. Alcuni metri più sopra del suo capo stava Maetel, ancora completamente nuda, il corpo avvolto da elastiche fasce di materia fluorescente, che sembrava pulsare ed illuminarsi come una creatura viva, come un'immensa lucciola di fango che divora uomini.
- Maetel! - gridò Harlock. - Che cosa hai intenzione di farle? Che vuoi da lei, se la colpa dello sterminio del tuo popolo è soltanto mia?
- Non voglio ucciderla, non temere. E non voglio uccidere nemmeno te.
Harlock rimase in silenzio, fissando in volto colei che era stata una terribile regina.
- Ma voglio una cosa da te... me la devi!
- Che vuoi, sentiamo!
- Il mio popolo stremato ha bisogno di nuova energia... La nostra razza è troppo pura e non ha capacità d'adattamento. Le dure condizioni di vita degli altri pianeti non ce lo permettono! L'unico pianeta che fu nostro, che è nostro, ci è stato interdetto per sempre. Soltanto lì avremmo trovato le giuste condizioni per vivere!
- Che cosa c'entra Maetel con tutto questo?
- Il tuo sangue e il suo, il vostro sangue unito assieme darebbe vita ad una nuova creatura, una creatura dalla quale sarebbe possibile ricavare il fluido necessario al mio popolo! Creare una nuova razza, più forte, in grado di sopravvivere ovunque.
- Il nostro sangue...
- ...Unito assieme, sì. Non puoi rifiutarti! Guarda che cosa hai fatto! Sei responsabile di uno sterminio!
- No, non lo posso fare! - decretò Harlock voltandosi, tanto da dare le spalle a Raflesia. Alzò gli occhi ed incontrò il corpo immobile di Maetel. - Maetel non accetterebbe mai, e neppure io... - riprese con più vigore nelle parole. - ...neppure io posso accettare!
- Che cosa ti chiedo, infondo? Soltanto un po' di sangue per salvare il mio popolo!
- Non mi chiedi soltanto il sangue, Raflesia! - Harlock si girò, per guardarla di nuovo in viso. - Mi chiedi di più! Non credevo che la natura umana ti fosse tanto sconosciuta da non comprendere neppure una cosa così semplice!
- Non c'è altro modo, Harlock! Soltanto questo! Vuoi condannare un popolo per il tuo stupido egoismo!?
- Egoismo? Credi sia soltanto egoismo?
- Che cos'è allora? Maetel è bella, è giovane, il suo corpo è caldo, le sue membra sono sottili e vigorose, le sue anche ben formate, il suo grembo accogliente per una nuova vita!
Harlock inarcò le sopracciglia: davvero, non riconosceva più la donna che gli stava dinanzi. L'avevano così cambiata gli anni e le sofferenze del suo popolo? Una regina tanto forte, impavida e indomita, poteva ora umiliarsi fino a questo punto? Strano...
Harlock si voltò, dando di nuovo le spalle a Raflesia ed estrasse fulmineamente la pistola, puntandola contro le fibre gelatinose che imprigionavano Maetel. Una frazione di secondo. Ma non bastò, perché in un istante gli furono addosso decine di tentacoli verdastri: gli bloccarono la mano che reggeva la pistola, poi i fianchi, il torace, le gambe e il braccio sinistro.
- Che cosa... Non posso... muovermi! - no, non poteva fare più alcun movimento. Qualcosa di mostruoso si agitava alle sue spalle, qualcosa che aveva creduto umano. - Raflesia! Tu... non sei Raflesia!
- No... - bisbigliò una voce roca e bassa, che sembrava provenire da un altro tempo e da molto lontano. - Se tu avessi accettato non saremmo arrivati a questo!
Harlock taceva. Cercava di vedere, almeno con la coda dell'occhio, l'essere che stava a pochi metri da lui. Ma era troppo buio e fra loro si frapponevano troppi ostacoli. Fu solo per un istante, una frazione di secondo, che poté distinguerlo: era composto da una sostanza molle, forse la stessa che formava la costruzione in cui si trovavano. Non aveva né bocca, né braccia o mani, ma solo due piccoli occhi e quella sorta di tentacoli verdastri che ora stritolavano Harlock. Iniziava a mancargli il respiro. Ogni movimento gli era impedito, persino quello del torace che si allarga per la respirazione.
- Se non sei Raflesia... dimmi chi sei! - ebbe la forza di ordinargli, con la voce strozzata.
- Non sei nelle condizioni di ordinare nulla! - fu la sola risposta. - Saprai quello che vuoi sapere solo quando noi avremo ciò che vogliamo. E poi... guarda! Non vorrai che quella splendida creatura non nasca mai!
Dapprima Harlock non capì a cosa si riferisse, poi vide qualcosa fra gli archi e i ponti di quella strana materia verdastra, là poco lontano da Maetel.
- ...Un bambino?
- Sì. Il tuo bambino!
- Che dici?
- Il vostro bambino... tuo e di Maetel. Non è bellissimo?
A quelle parole Harlock ammutolì. Con gli occhi sbarrati osservava quella piccola creatura seria e dolce, dall'aria un po' smarrita.
- Non è possibile! - pensava il pirata, senza distogliere lo sguardo dal bambino. - Mi sta mentendo... Probabilmente anche il bambino non è altro che uno di quei mostri camuffato da essere umano, come è stato per Raflesia!
Ma il fanciullo si mosse, oltrepassò Maetel, si fece strada tra il groviglio inestricabile, si avvicinò ad Harlock e posò infine su di lui una piccola mano calda. Raflesia, quella falsa Raflesia che si era stretta accanto a lui sulla flyspeed, non era così calda! Allora non ci aveva fatto caso: il su pensiero era tutto rivolto a Maetel. Ma ora, ora soltanto si rendeva conto che quella creatura così dolce ed innocente era viva, vera!
Harlock poteva soltanto fissarlo, esterefatto, senza riuscire a pronunciare una sola parola. Anche il bambino, infine, lo guardò, posando su di lui due occhi d'un dolcissimo color nocciola, velati di una sottile, triste malinconia. Prese una delle mani di Harlock tra le sue e se la accostò alla guancia tiepida.
In quel momento le tenaci spire che avvolgevano Harlock in un groviglio soffocante si sciolsero.
- Lo vedi com'è bello? - gli domandò, con falsa dolcezza, la mostruosa creatura che si agitava alle sue spalle. - Non vorrai... ucciderlo?
- Io non ho mai ucciso un bambino! Sono creature innocenti, senza colpa alcuna del male degli uomini! Ma questo bambino non è né mio, né di Maetel!
- Eppure vi somiglia, non lo puoi negare! E' nato da voi... E' vivo. E se tu ti rifiuti di aiutarci... morirà!
Harlock trasalì, fissando negli occhi la sua creatura e si sentì mancare. L'aveva appena visto, ma gli sembrava di conoscerlo da sempre e non riusciva a pensare di poter fare senza di lui d'ora in poi. Non aveva ancora udito la sua voce, eppure ne conosceva già ogni accento e la sua argentea risata gli vibrava nell'anima.
- Che cosa devo fare? - si chiese. - Che devo fare?!
Non poteva distogliere lo sguardo dai grandi occhi di quel bambino e non sapeva trovare alcuna risposta alla sua angosciante domanda: cosa fare per non perderlo, cosa per non cedere a quel vile ricatto?
- Voglio parlare con la mamma! - mormorò d'un tratto il fanciullo. La sua voce era davvero la stessa che risuonava nella mente di Harlock prima ancora che l'avesse udita una sola volta. La stessa, identica, voce.
Subito i lunghi tentacoli che avvolgevano Maetel si allentarono. Delicatamente il suo corpo fu posato a terra ed Harlock corse da lei. Si inginocchiò, prendendola tra le braccia.
- Maetel... - la chiamò. - Maetel... come ti senti?
Maetel serrò prima più forte le palpebre e poi, lentamente, le dischiuse. Ansimava come una giovane cerva sfuggita ad una carneficina. La pelle umida luccicava, cosparsa di minute goccioline. Sotto la luce vitrea che penetrava in quell'immensa cripta, tutto il suo corpo sembrava rivestito da un fiume di piccolissimi diamanti.
Quand'ebbe aperto gli occhi si trovò davanti il volto serio e triste del bambino, che la fissava con quello sguardo penetrante ed indagatore che hanno sempre i bambini.
Maetel fece per alzarsi, ma subito un lunghissimo tentacolo la afferrò per la gola. Informe e gigantesca, la mostruosa creatura li osservava ora con i suoi piccoli occhi fluorescenti. Un sordo rumore, simile al rantolo d'una bestia affamata, proveniva da quella direzione. Solo talvolta e, pareva, con molta fatica, si articolava in parole:
- Finché non avrò la risposta che attendo non ti lascerò andare!
Harlock posò la mano sulla pistola, ma Maetel vi poggiò sopra la sua: aspetta! fu come se gli dicesse.
- Mamma... - una sola, semplice parola che contiene tutto l'affetto dell'universo. - Mamma... tu ami il mio papà?
- Ah... - Maetel sbarrò gli occhi, poi li abbassò.
- Ti prego: lo devo sapere! - insistette la piccola creatura.
- Io... io e Harlock siamo profondamente legati. Ma è un vincolo diverso... diverso dall'amore!
- Ho capito.
Il bambino si alzò in piedi. Le lunghe ciglia, che rendevano i suoi occhi e il suo sguardo così simile a quello triste di Maetel, si abbassarono. Poi guardò Harlock e, mutamente, gli rivolse la medesima domanda. Il pirata scosse soltanto la testa ed il bambino indietreggiò d'un passo.
All'improvviso Harlock capì che qualcosa di irreparabile stava per succedere. Allungò il braccio per afferrare quella piccola mano che pendeva, inerte, lungo i fianchi, ma il bambino indietreggiò ancora, con un balzo leggero.
- Andate via, subito!
- Non senza di te! Dammi la mano! - gli ordinò Harlock, per tutta risposta. Ma il bambino sfuggì nuovamente alla sua presa e, voltatosi, iniziò a correre, allontanandosi da loro.
Subito lunghissime spire li levarono per ghermire il fanciullo. Una, dieci, venti lunghissime spire lo sfiorarono, senza riuscire ad agguantarlo. Correva veloce ed agile, passava sotto le nervature che riempivano la cupola in ogni dove, vi balzava sopra, le saltava e correva, deciso, verso un punto oscuro, là, infondo alla vasta ed interminabile cupola.
- Non possiamo lasciare che vada, Harlock! - Maetel si alzò, ma si reggeva a malapena in piedi e fu costretta ad appoggiarsi al pirata.
Lui la strinse: diceva mille cose con quella stretta e non diceva nulla. Aveva l'Inferno dentro. Era come se un leone ferito a morte gli ruggisse nel petto, avventandosi contro la sua gabbia di carne e lacerandola con cento artigli disperati.
- Pensi di farcela? - riuscì solo a chiederle. - Pensi di farcela a seguirmi?
- Tu non pensare a me... ma a lui! Solo a lui!
Allora Harlock la lasciò e si gettò all'inseguimento del bambino e di quella sorta di mostruoso guardiano di morti dai lunghi tentacoli.
Li vide, dopo un'affannosa e velocissima corsa tra mille corpi sospesi e mille aggrovigliate nervature cupe, che sembravano vibrare e lamentarsi al suo passaggio.
Il bambino si dirigeva verso un punto preciso della costruzione, che a tratti mandava bagliori intensi, d'un rosso vivido.
- No! Non lo fare! - gli gridò Harlock. Era la porta dell'Ade, lo sentiva. Il nulla, il vuoto, il non tempo venivano da là. Ma come fermare una rondine? O l'acqua di un torrente, o il fulmine che colpisce e scompare?
Era troppo lontano per afferrarlo, troppo lontano per stringerlo forte tra le braccia e non lasciarlo andare! Gli uscì soltanto un grido disperato, un ruggito di belva furiosa.
Ma ecco che, all'improvviso, proprio mentre stava per varcare quella soglia infernale, uno dei viscidi tentacoli lo afferrarono alla gola. Subito un acutissimo grido trionfante si alzò dall'orribile creatura.
- Sei mio! Non mi scappi più, piccolo, stupido intrigante! Se solo la tua vita non fosse così preziosa... - sibilò, articolando a fatica le parole, mentre stringeva, stringeva di più la sua presa. Sembrava ridere, dell'oscura risata degli orchi che riempiono le favole dei bambini. Ma quella non era una favola e l'orco non sarebbe scomparso chiudendo il libro.
Pur sentendosi soffocare il fanciullo cerva disperatamente di oltrepassare, almeno con una mano, quella porta sottile, quel varco per un altro spazio e un altro mondo.
- Ah! Vuoi sfuggirmi? Credi davvero di sfuggire al Custode? - i suoi piccoli occhi luminosi brillavano ancora più intensamente, godendo di quella fragile vita che teneva in pugno. Iniziò a trascinarlo indietro, senza riguardo alcuno. Il bambino resisteva, si divincolava, stringeva con tutta la sua forza il tentacolo gelatinoso che lo soffocava nel gigantesco sforzo di liberarsi.
- Non andrai da nessuna parte! Tu resti! Finché non avremo ciò che... - ma le parole gli furono troncate da un solo, preciso colpo della cosmogun. Un rantolo acutissimo si levò dalla creatura morente. I suoi terribili tentacoli rientrarono e, inerte, rimase al suolo solo un globo pulsante, verde e luminescente. Harlock lo calpestò, avanzando verso il bambino che stava a terra, privo di forze.
Lo prese tra le braccia. Era solo una piccola cosa spaventata.
- Non avere paura! Adesso andremo via di qui. - gli disse in un soffio. - Ti fa male? - il collo era segnato dai lividi dei tentacoli.
In risposta scosse soltanto la testa. Poi indicò il piccolo varco, dai sinistri bagliori infuocati.
- No... Non vai di là!
- Devo andare... - mormorò. - Devo! Io... esisto solo qui.
- Che dici? Tu sei vivo, respiri!
- Questo... questo posto è l'unico luogo in cui posso vivere. E' un non-tempo. Passato e futuro coesistono e sono tutt'uno col presente: io, qui, sono vivo. In nessun altro posto...
- No! Troveremo una soluzione. C'è un mio carissimo amico che senz'altro potrà fare qualcosa per te. Sai, lui è quello che ha costruito l'Alkadia. E' la mia astronave... una bellissima astronave. Ti piacerà senz'altro.
Il bambino sorrise. Era il sorriso triste dei bambini che muoiono.
- Mi piacerebbe tanto vederla. - mormorò.
- Allora la vedrai.
Lo prese tra le braccia e fece per allontanarsi ma, ecco, davanti a loro stavano quegli strani uomini, dagli occhi allungati, avvolti in lunghi cappotti di un'altra epoca. Uno di loro reggeva una pistola T300 vecchio modello. Non se ne vedevano da decenni, nello spazio, pensò Harlock. Era in grado di emanare potenti scariche paralizzanti, oltre che normale raggio laser.
- Metti a terra il bambino! - ordinò colui che teneva la pistola.
- Perché altrimenti... - lo sfidò Harlock, mentre una luce furiosa e determinata gli lampeggiava negli occhi.
- Non puoi andare da nessuna parte con lui. E' nostro: noi l'abbiamo creato! E, se lo vuoi...
- ...C'è un solo modo! - terminò un altro di quegli uomini misteriosi, avanzando di un passo verso Harlock. Gli tese l'ossuta mano, così bianca, illuminata soltanto dai vividi bagliori del varco che gli stava di fronte. Per tutta risposta Harlock si scostò, allontanando da quegli esseri la piccola creatura che reggeva tra le braccia.
- Sei testardo... e stupido, capitan Harlock! Noi, soltanto noi, possiamo far vivere quel bambino, che ami già... più della tua stessa vita. - parlava con una voce roca che sembrava non appartenergli.
- Non vi darò mai questa soddisfazione!
Fu un attimo: vide al di là delle intricate nervature, ad una decina di metri di distanza, la sottile figura di Maetel. Lo fissava, non diceva nulla, ma aspettava. Allora Harlock capì! Con una rapidità felina si slacciò il mantello, gettandolo sul viso agli uomini che lo tenevano sotto tiro. Nello stesso istante, posato il bambino a terra, gli disse:
- Vai! Corri da lei! Non ti fermare, qualsiasi cosa accada!
Questi gli lanciò una rapida occhiata, indefinibile, penetrate... strana! Un'unica occhiata che Harlock non poté scordare mai più.
Maetel aprì le braccia e strinse a sé il bambino.
- Andiamo via, adesso! Corri! - gli disse in un soffio. Lo prese per mano, ma lui non si mosse. - Che c'è? Forza: Harlock ci raggiungerà subito! Non temere!
- Mamma... io non posso venire. - la guardava con gli occhi di un uomo. - Vai tu.
Maetel fece per sollevarlo, ma lui, tirandola per un braccio la costrinse a chinarsi, nascondendola così dietro ad una sorta di ponte formato da robusti costoloni verdastri.
Sopra di loro pendevano, avvolti da materia gelatinosa, numerosi corpi inerti. Sonno? Morte? Che cosa gravava sopra quegli esseri, dei quali era impossibile scorgere il volto? Era davvero un enorme cimitero. Un silenzio soprannaturale doveva solitamente riempire quel luogo, così grande e vuoto, come gli occhi di un cieco. Ora, invece, gli spari della cosmogun riecheggiavano, dilatandosi, in ogni direzione. Sembrava che qualcuno si lamentasse e piangesse, ad ogni sparo. Era un'eco umana e terribile.
- Perché vuoi che ce ne andiamo senza di te? - la guancia calda di Maetel sfiorava quella del bambino. Erano stretti l'una accanto all'altro. La giovane donna non aveva la forza di incontrare di nuovo quegli occhi.
- Li vedi? - le domandò, indicandole i corpi che li sovrastavano. - Sai... queste persone... sono tutte morte.
- Sono morte?
- Sì... Quegli uomini dagli occhi grandi le hanno uccise. E ci sono altre cupole come questa, con altre persone dentro... morte.
- Ma perché?
- Perché poi ne prendono il corpo. Lo indossano, come un vestito. E' una brutta cosa indossare una persona, come un vestito...
- E' terribile! - mormorò Maetel.
- Però adesso... qualcosa non funziona più. Qualcosa che sta... scritto dentro. - ed indicò con la sua piccola mano il centro del petto.
- Parli di quegli esseri strani, vestiti coi lunghi cappotti? E' in loro che qualcosa non funziona più?
Annuì: - Loro non ce l'hanno un corpo proprio. Così si prendono il corpo di un altro, però è un lavoro difficile e occorre che tante e tante cose coincidano.
Rimase in silenzio per un attimo, poi, fissando negli occhi sua madre, disse:
- E' come quando fai un nodo per legare assieme due corde. Se il nodo è fatto male... si scioglie e le corde si separano.
- Ho capito. - Maetel si sentiva commossa. Con le sue parole semplici il bambino cercava di schiuderle un grande mistero dell'universo e lo faceva con la dolcezza e la serietà che hanno i bambini quando spiegano qualcosa agli adulti.
- Io... io, invece, sarò per loro il nodo nuovo. Quello che non si scioglie.
Maetel lo fissò atterrita: ora capiva ogni cosa! Avrebbero prelevato da lui una parte del DNA per creare nuovi esseri, più forti, in grado di prendere possesso di altri corpi, di quei corpi! Sì... dei corpi che stavano lì, in attesa, da chissà quanto tempo, orribili decorazioni di una casa di spettri!
Istintivamente lo afferrò per le spalle, guardandolo dritto negli occhi, come se così facendo avesse potuto proteggerlo, sottrarlo al Male e agli uomini che volevano approfittare di lui. Era uno sguardo che abbraccia.
- Per questo vi hanno portati qui! Vogliono che io nasca davvero, da voi e poi... e poi, non so come, ma loro si prenderanno una cosa da me e io...
Maetel lo strinse a sé, in un gesto disperato. Ora sapeva che sarebbe successo! Si sentiva smarrita, perché lo stava perdendo e non poteva fare nulla, assolutamente nulla. Era come una cavalla chiusa nel recinto a cui strappano a forza il puledro. Sottostava ad una legge superiore, a qualcosa che non aveva contribuito a scrivere e alla quale non poteva sottrarsi. Al Destino. Alla Necessità. O al Dovere.
- Ma non è indispensabile che tu...
Il bambino le chiuse dolcemente le labbra, con un dito.
- Prendi con te il mio papà e uscite di qui. Crollerà tutto, tutto invecchierà e morirà. Ma voi vi salverete... se uscirete di qui. Nessuno vi cercherà più, nessuno saprà più di voi. - fece una pausa. Gli occhi di Maetel brillavano come le stelle che su Ixmahèd non splendono mai. - Io... però... non vi scorderò più.
Sono felice... di avervi conosciuto.
Si chinò sul volto di Maetel e le baciò la bocca dischiusa. Fu come l'ultimo battito d'ali di una farfalla d'autunno.
- Danne uno tu, a papà, da parte mia.
La sua piccola mano scivolò tra quella di Maetel. I suoi grandi occhi seri e tristi la fissarono per l'ultima volta. Poi si girò e corse via, senza fermarsi, senza voltarsi indietro.
- Aspetta! Non te ne andare, ti prego! - Maetel balzò in piedi e lo rincorse. Sapeva che era tutto inutile, tutto già scritto, eppure... Sentiva dentro di sé un fuoco sconosciuto: il grande fuoco che arde nel petto ad una madre.
D'improvviso uno sparo le tagliò la strada col suo lampo azzurro. Balzò all'indietro e si nascose. Udì un fruscìo, un rumore di passi sconosciuto e capì che erano loro! La stavano cercando: non avrebbero mai permesso che uscisse di lì. E di Harlock che ne era stato?
Tentò di sbirciare tra le fitte nervature sotto le quali si era accovacciata. Ne vide tre: tre uomini alti e pallidi che avanzavano guardandosi attorno. Non parlavano. Sembrava agissero guidati da un'unica mente.
Tutto il suo essere era proteso in quell'attenzione vigile e pronta. Ogni muscolo, ogni fibra del suo corpo era tesa e tutti i sensi all'erta. Respirava piano, restando immobile, come la preda che spia il suo cacciatore.
Col guizzo di un serpente qualcosa l'afferrò alla gola. Maetel non lanciò neppure un grido, ma strinse subito, saldamente quella mano lunga ed ossuta che la tirava all'indietro, soffocandola.
Come ha fatto a vedermi? Quando ha potuto udire il mio respiro? Si chiedeva.
Intravide avvicinarsi anche gli altri uomini. Sgusciavano rapidi nel fitto labirinto che popolava la cupola.
Erano già lì!
- Ora sta' buona e non sentirai dolore! - le disse uno di loro, il più vicino, mentre alzava la pistola contro di lei.
Lo sparo ferì l'aria ed un lamento orribile si levò alto, riempiendo ogni dove.
Cadde in ginocchio, spalancando la bocca, sbarrando gli occhi allungati. Poi sprofondò col volto a terra, senza un lamento: un mucchio di cenere sotto il lungo cappotto di un'epoca lontana e nient'altro.
Per un istante immenso nessuno si mosse. Gli altri esseri misteriosi osservavano increduli quel che restava del loro simile.
Bastò un attimo perché un nuovo colpo della cosmogun, divorando lo spazio, perforasse il corpo di un secondo uomo, trasformandolo in cenere.
- Harlock! - gridò Maetel. Sentì allentarsi la presa alla gola e subito, balzando in avanti, si slanciò su una delle pistole caduta accanto al corpo del suo proprietario. L'afferrò e, buttatasi con la schiena a terra, sparò al suo ex carceriere. Nello stesso istante un altro colpo alle sue spalle poneva fine alla battaglia.
Stanchi ed ansimanti i due guerrieri, l'uno di fronte all'altra, si guardavano negli occhi. Tutt'attorno nulla di vivo. Solo un silenzio spaventoso e lo sguardo vuoto della Morte.
Maetel aprì le labbra, ma non ne uscì alcun suono. Riprovò ad articolare i pensieri dolorosi che le incalzavano nel petto, nella mente ma, di nuovo, non vi riuscì.
- Non dire nulla, Maetel! - la supplicò Harlock. - Non dire nulla...
Maetel abbassò la testa, lasciò cadere la pistola ed ogni cosa prese a crollare.
La decrepitudine era entrata in quel luogo. Il Tempo faceva scempio d'ogni cosa: nulla sarebbe rimasto intatto!
L'uscita era là, di fronte a loro. Lontana forse una decina di metri. Era un punto blu, un varco luminoso che si deformava sotto le spinte della Distruzione e del Tempo.
Le volte della cupola si piegavano verso Harlock e Maetel, tentando di impedire la loro fuga, la loro corsa. Urlando la cripta moriva, col suo cumulo di cadaveri.

Brillavano le stelle quella notte, su Ixmahèd. Dopo secoli e forse per l'ultima volta, brillavano le stelle.
Un uomo e una donna, soli, contemplavano quel che restava della vasta costruzione verdastra dalla forma di semisfera. Il vento ansimava sui loro volti, distendendosi con ampie spirali sul corpo nudo di Maetel.
Insensibile l'Universo li osservava, adagiato come sempre sulle stelle e le galassie palpitanti. Soltanto un cumulo di macerie luminescenti e azzurrognole attestava la tragedia.
Possibile, si chiedeva Maetel, possibile che nessuno, proprio nessuno su tutto il pianeta avesse udito il timido rumore d'una piccola vita che si spezza? Davvero nessuno s'era fermato un istante, colpito da un dolore sconosciuto, eppure insopportabile, nel momento stesso in cui si era compiuto un sublime sacrificio?
Non c'erano e non ci sono mai state risposte a simili domande. Soprattutto per una madre. Sola col suo dolore, ma impassibile come una statua millenaria di duro marmo, lasciava vagare lo sguardo su tutto quanto si stendeva davanti a lei. Era davvero il Nulla.
Il vento le sussurrò all'orecchio, passando le sue mani vuote tra i suoi capelli biondi. Indispettito e furioso come un amante li agitò, li avvolse su se stessi e, stringendoli, li tese nell'aria, lungamente, piangendo.
Ma Maetel non si curò di lui.
Il freddo della notte le graffiava la pelle. Piccolo ma feroce drago luccicante l'avvolgeva nelle sue spire squamose. Guardandola dritta negli occhi rideva di lei e con le sue minuscole mani crudeli le tormentava i bei seni e il ventre nudi.
Ma Maetel non si curò di lui.
Le stelle, insensibili, distanti, luminose nella loro reggia di perle, la bagnavano d'una luce fredda, d'un azzurro malinconico.
Ma Maetel non si curò di loro.
Poggiò la testa sulla spalla di Harlock e mormorò:
- Aveva il tuo stesso coraggio... - due vivide lacrime le corsero lungo le guance per morirle, in silenzio, sulle labbra.

  
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