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Autore: Malachia    22/04/2013    1 recensioni
Il freddo tagliente spezzava gli animi. Il suono delle osse che si rompevano sotto li stivali dei militari che calpestavano i corpi inanimati noncurantemente aleggiava nell'aria.
Fuoco dai fucili, le anime che si librano dai corpi.
Ai sopravvissuti non resta che disperazione e dolore
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Era una notte d'inverno; un vento freddo, gelido, tagliente come una lama portava con se l'acre odore di polvere da sparo, l'odore che annuncia morte, vendetta; un' odore che s'insinua nei vestiti, nella pelle, nell'aria; che resta lí, diventa una parte di te; un odore che rievoca ricordi, immagini: immagini che vorresti dimenticare, parole che vorresti non aver sentito; ricordi di quella sera che un semplice odore rievocherá per sempre.
Mi bruciavano gli occhi, avevo le mani rosse: un po' dal freddo, un po' dal sangue;  il suono dei fucili risuonava nell'aria, ormai ero abituata, non sobbalzavo piú come i primi giorni.
Avanzai nella lunga strada sterrata, piena di vetri rotti, spezzati, insanguinati, vetri di un biberon, di una finestra dalla quale una ragazzina piena di speranza osservava il mondo; ormai distrutti come l'anima della gente che viveva li.
Un boato echeggiò alle mie spalle, mi voltai di scatto; era il suono di un fucile che sparava, i miei occhi vagavano nel buio; tremavo di paura; qualcuno mi aveva visto? Era a me che sparavano? Se non ero io la "preda" ma era qualcuno nelle vicinanze ero anche io in pericolo?
Cercai di pensare in fretta, d'impulso mi andai a rifugiare sotto il portico buio di una vecchia casa abbandonata; come un animale impaurito me ne stavo rannicchiata ad aspettare, non sapevo cosa di preciso, eppure mi sembrava la cosa piú sensata da fare.
Mi guardavo le mani, come quando ero bambina e mi nascondevo dalle urla dei miei genitori scappando sotto il tavolo del salotto, rimanevo li a ore a fissarmi le mani e ad aspettare che tutto finisse.
Passarono pochi minuti, a me sembrarono eterni attimi di puro terrore; non potevo rimanere li a sperare in un miracolo, dovevo andarmene; mi alzai; le gambe mi tremavano, la mia fronte era imperlata di sudore freddo.
"Sta calma, raccogli tutto il tuo coraggio e corri; é semplice no?"  Dissi tra me e me.
Cercai di scorgere qualcosa nel buio della notte: una via, un punto di riferimento, qualsiasi cosa. Eccola: una figura nitida, illuminata dalla tenue luce della luna che filtrava attraverso il grigiore delle nuvole: un uomo giovane, lo sguardo perso nel vuoto; lo guardai accasciarsi a terra con la mano insanguinata sulla nuca, un enorme rivolo nero gli colava dalla bocca, sangue; cadde a terra, un'ultimo gorgoglio dallo stomaco: era morto.
"Un cecchino deve avergli sparato" pensai tra me e me.
M'innervosí, se fossi stata un metro piú a destra al suo posto avrei potuto trovarmici io io; quel corpo steso, stremato, divorato dalla guerra poteva essere il mio.
"eppure non lo é" pensai sarcasticamente; pentendomi quasi subito di quelle parole  serrai forte le labbra.
Ancora adesso ricordo l'odore cosí acre della morte, gli occhi aperti di un corpo senza vita, uno sguardo d'accusa verso il mondo, la smorfia che lascia la morte come un segno indelebile, come una presa ingiro.
I telegiornali parlano di guerra, la gente ci scherza, in pochi l'hanno vissuta veramente; solo i morti sanno cosa vuol dire combattere, solo chi ha dato l'anima per dare la libertá a qualcun'altro sa cosa voglia dire sopportare e andare avanti.
Sapevo che stavo per rischiare  la vita ma mi avvicinai lentamente a quel corpo; gli levai il fucile e i proiettili e cercai di andarmene; ma, prima di voltarmi, il mio sguardo si posó sulla pozza di sangue che continuava ad allargarsi; mi vidi riflessa, osservai il mio volto stanco, o meglio, osservai la parte illuminata del mio viso, un occhio, metá bocca, una lacrima rigó lentamente le mie guance distruggendo il riflesso; un lato del mio viso, quello ancora buono, quello non inquinato dall'odio sembrava come quello di una bambina, una ragazza giovane, lontana dalle atrocitá del mondo; l'altro, oscuro, brutale, nero: era la parte mostruosa di me; il lato piú egoistico, crudele, vanitoso; quello era il male.
 
Mi alzai, pestai la pozza rossa con un piede nel vano tentativo di distruggere qul mostro; cominciai a camminare,non c'era tempo per la paura, per la morte, dovevo raggiungere la casa; quell'uomo era morto ed io, io non volevo fare la sua stessa fine.
Non so quanto tempo trascorsi tra il suono dei proiettili e il freddo della notte; camminavo, mi ero abituata al buio, avevo imparato le strade a memoria, sapevo come non farmi vedere, avevo addosso l'odore della paura, nei miei occhi era imprigionato il terrore di essere vista, ad ogni minimo rumore avrei voluto urlare ma la ragione me lo impediva, e sicuramente era meglio cosí.
Ad un tratto il suono di passi che si avvicinavano si fece largo nelle urla dei fucili, una mano mi si poggió sulla spalla; smisi di respirare, chiusi gli occhi, mi avevano scoperto; lo sapevo, me lo stentivo che sarebbe finita quella sera, eppure dovevo provare a sopravvivere, non potevo mollare cosí; afferrai di fretta il fucile e mi voltai di scatto:  Jasmila.
Faticai a riconoscere i suoi lineamenti;  un raggio di luna le illuminó  il volto da bambina, la pelle bianca ,gli occhi azzurri; era lei, adesso ne ero sicura.
"Prima o poi ti spareró se continuerai a arrivarmi da dietro" Sussurrai.
"Mi spiace... Vai alla casa?" Domandó con un filo d'ingenuitá.
Annuii.
Ricominciai a camminare veloce con Jasmila alle spalle; mi guardava, sentivo i suoi occhi su di me e questo mi dava fastidio cosí rallentai e le andai di fianco.
"Come sei arrivata qui? Perché non te ne sei rimasta in Italia al sicuro?" Sbottò cosí, a bruciapelo.
Seguí un silenzio interminabile, non volevo parlare, non erano affari suoi; perché avrei dovuto raccontarle di me? Cosa poteva importargliene?
"Allora?" Insisté lei
Mi guardai le mani; sapevo che la sua curiositá era difficile da placare; cosí, con un fil di voce le raccontai la mia storia.
Ero arrivata grazie a  un aereo degli aiuti umanitari; uno di quelli su cui vengono messi centinaia di bambini che andranno lontano dalla famiglia per salvarsi, un'enorme macchina d'acciaio, precaria, spaventosa, sterile; milioni di anime fuggivano dalla guerra ed io le stavo andando incontro con una valigia piena di viveri e paura.
Volevo andare a Srebrenica per trovare mio fratello adottivo: Osmanovic;per mesi io e mio padre attendevamo impazienti le sue lettere.
 Si trovava lí, nel bel mezzo della guerra e quand'era possibile ci scriveva quel poco che serviva per rassicurarci anche se sapevamo eben che metá delle cose che diceva erano   bugie dette a fin di bene.
Dopo alcuni mesi  le lettere cominciarono ad arrivare sempre piú di rado fino a non vederne piú neanche una; chiamammo  i pochi telefoni del posto che avevano ancora una traccia di collegamento, ci affannammoogni giorno nelle sale d'attesa dei servizi esteri, cercammo di rintracciarlo finché dopo mesi, presa da sconforto raccolsi tutti i miei soldi e  viaggiai verso l'inferno.
Quando arrivai a Srebrenica nel Luglio del 95 la guerra era nel pieno dell'azione; ad ogni incorcio un cecchino, dentro ogni casa ancora in piedi una famiglia, una persona; decine di anime che non si erano mai degnate di uno sguardo erano li' a condividere il terrore.
Mi ci volle un po' per abituarmi alla poca acqua gelida con cui mi lavavo il viso; al pungente odore di morte e alle urla di donne disperate, avevo paura, non potevo fidarmi di nessuno, pur di vivere le persone si vendevano ai nemici, e  per rivedere mio fratello forse l'avrei fatto anche io se mi fosse capitata l'occasione.
 Dopo settimane quella diventó la mia normalitá, il mio istinto di sopravvivenza prevalse su tutto, imparai a piangere  nel cuore della notte crecando di non respirare e non emettere rumori temendo di svegliare qualcuno, capii cosa volesse dire abbracciare il vuoto in cerca di conforto.
Basta, non volevo piú parlare; mi dava fastidio il suono della mia voce, debole, fragile; anche lei mi avrebbe tradita se ne avesse avuto la possibilitá, quandi perché dirle tutto questo?
Seguii un altro silenzio: lungo, snervante;avrei voluto dirle qualcosa, ma non sapevo bene cosa.
"Se potessi tornare indietro rimarresti a casa?" Disse con un tono sommesso.
"No." Replicai secca.
"Se potessi io me ne andrei" Aggiunse lei.
Santo cielo aveva venticinque anni, la vita era cominciata adesso; non aveva intenzione di farsela stroncare cosí: da un fucile.
Doveva scappare per andare a riprendersi suo figlio, che ormai era rimasto solo, senza padre, con la madre lontana; voleva studiare, diventare infermiera; trasferirsi in Europa e dimenticare tutto.
"Ora cosa intendi fare?" Sussurrai.
"Andare alla casa " Rispose lei secca.
Camminammo per ore e poi finalmente arrivammo alla casa; quel posto era un enorme seminterrato in cui stavano decine di persone, era diventata una grande famiglia; gli aiuti umanitari arrivavano li vicini ; quel posto era un punto di riferimento per tutti, anche se di tanto in tanto  ne veniva scelto un altro per precauzione.
Quello era l'unico luogo sicuro eppure mi ripugnava; era la mia prigione, dovevo scegliere se stare li', rinchiusa come un'animale al buio, in una gabbia o se morire; spesso, presa dallo sconforto avevo preso in considerazione quest'ultima possiblitá, eppure non avevo mai avuto il corggio di uscire allo scoperto di giorno e farmi sparare.
Il tempo passava,i turini per la cucina si svolgevano regolarmente, le mine anti-uomo scoppiavano, i morti aumentavano e il sole calava alla fine di ogni giornata; qui c'era la guerra: le truppe schierate di fronte; a un ordine sparavano i fucili ,le prime file cadevanbo a pioggia, il fumo si addensava al sudore; mentre la vita delle persone che non la vivevano andava avanti senza cambiamenti, lavoro, scuola, cinema; tutto normale.
Quel giorno sarebbero dovuti arrivare i treni con gli aiuti umanitari; io,Jasmila i ragazzi della casa e una decina di uomini aspettavamo i rifornimenti di armi e viveri.
Tutto lo spiazzo era pieno di binari per i treni, Jasmila si avvicinó su  uno di quelli centrali; guardava il tramonto; chiuse gli occhi e respiró profondamente, la osservavo e lentamente mi avvicinai; avrei dovuto dirle di venire via, che era pericoloso, eppure quel suo senso di pace, quel velo d'ingenuitá che le faceva da scudo verso la crudeltá del mondo distoglieva la mia attenzione dal ció che accadeva intorno.
Sentí un fischio venire da dietro di noi, lungo, fastidioso, tagliente come le unghie di un gatto su una lastra di vetro; a una decina di metri l'enorme mostro d'acciaio si stava avvicinando, verde come un drago sputava fumo, gli occhi gialli si facevano largo nella polvere da sparo.
Urlai per avvertirla; cominciai a correre; non feci in tempo,  era troppa la distanza che ci separava, il treno le passó sopra fischiando; quel "richiamo" che doveva essere il segno che l'avrebbe portata alla libertá decise la sua morte.
Corsi verso di lei, per la prima volta piansi per un morto; per la prima volta sentí il vero dolore.
La presi tralle mie braccia e la trascinai sull'erba verde; rimasi li a terra con l'unica anima che aveva voluto sentire la mia storia tra le braccia.
Lacrime di cristallo scivolavano indisturbate sulle mie guance, lo sguardo si offuscava e cosí la mia mente; lei era morta, al posto suo dovevo esseci io; quella ragazza giovane e bella aveva una vita davanti, un figlio, io non avevo niente.
  
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