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Autore: Delirious Rose    26/04/2013    1 recensioni
Avevo dodici anni quando dovetti assumermi la responsabilità di mio fratello. E adesso che devo assumere quella di Cephiro, avrò per sempre dodici anni.
Ecco una storia diversa dalle altre, in cui sono narrati gli eventi che precedettero l'ascesa di Emeraude e dove Cephiro non è il mondo di fiaba cui ci hanno abituato le Clamp
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Emeraude, Ferio, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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ATTENZIONE! : In questo capitolo si tratta di una tematica delicata.




1. Dialoghi della Bambina e la Serva

 

Emeraude sbuffò, guardando corrucciata la sua immagine riflessa nello specchio: il vestito che la balia le aveva infilato con la forza, fra piagnistei e piedini sbattuti sul pavimento, non le piaceva per niente. Prima di tutto c’era il colore, un viola purpureo talmente scuro da sembrare nero (e a lei i vestitini piacevano bianchi, così facili da sporcare di rena e di fango), e poi era così scomodo, ma così scomodo che a malapena riusciva a camminare pian pianino ( e per una bambina che era come l’acqua del mare, sempre in movimento, si trattava di una vera tortura). Certo, sapeva che suo zio, il re, era morto e che non poteva giocare con suo cugino Payze come le sarebbe piaciuto, ma non capiva perché dovesse mettere un vestito così brutto se non sarebbe stata presente alla cerimonia funebre.

 

«Sei pur sempre una principessa reale, Emeraude, anche se non abitiamo a Adamantina,» le aveva detto sua madre, «e questo ti impone dei doveri: per cui smettila di fare i capricci, metti quel vestito e poi vai a fare compagnia al Principe Teijo di Fahren.»

«Azure, spero che questa vostra idea non abbia secondi fini…» aveva sibilato Fiero, guardando la donna di tralice.

«Voi avete un’idea strana della Ragion di Stato: vi siete sempre opposto all’intenzione di mio fratello di rinsaldare l’alleanza fra Cephiro e Fahren.»

«Con tutto il rispetto dovuto ad un defunto, vostro fratello poteva concludere tutte le alleanze che voleva, ma senza barattare la felicità di mia figlia con un pezzo di carta!»

«Avete detto barattare? Gallardo aveva offerto a mia figlia il trono di Fahren, e voi, con le vostre assurde idee, avete sempre creato dei problemi! Per fortuna l’Imperatore è della medesima idea di Gallardo e non è troppo tardi per concludere questo… matrimonio, come lo chiamano su Fahren.»

«Emeraude è ancora una bambina, non ha neppure otto anni.»

«Meglio, avrebbe più tempo per imparare l’etichetta di corte e di apprezzare il Principe Teijo.

Emeraude, esigo che tu trascorra più tempo possibile con il principe di Fahren e che ti comporti come si confà ad una futura imperatrice,» aveva concluso Azure con tono autoritario, prima di ritirarsi nelle sue stanze.

Fiero aveva seguito la donna con lo sguardo e, dopo aver ordinato alla balia di occuparsi anche di Ferio, s’era inginocchiato davanti a sua figlia, i loro occhi allo stesso livello.
«Non badare a quello che dice la mamma, Emi-hime: non sei obbligata a giocare con quel Teijo se non vuoi e, soprattutto, se non ti piace. Ma questo non significa che puoi fargli i dispetti, capito?»

La bambina aveva annuito con vigore, ma poi aveva guardato incuriosita suo padre e l’espressione stranamente seria e pensosa sul suo volto.

«Emi-hime, c’è un’altra cosa…»

«Se vuoi che non mi metto a correre e a saltare per i corridoi, non ti preoccupare: lo so che non sta bene, perché lo zio è morto.»

Fiero aveva sorriso a quella risposta giudiziosa, e aveva arruffato i ricci biondi della bambina.
«So che quando vuoi sai essere una brava bambina, ma non si tratta di questo. Ascoltami bene, Emeraude: per nessuna ragione al mondo devi restare da sola con zio Alfgang e, se per caso ciò dovesse accadere, devi immediatamente raggiungere Chota. Me lo prometti?»

Emeraude aveva aggrottato le sopracciglia.
«Perché non vuoi che resto da sola con lo zio? È gentile e mi regala sempre una caramella.»

Fiero aveva stretto le labbra.
«Dicono… dicono che Alfgang ami molto i bambini, soprattutto le bambine carine come te: di solito sono tranquillo, perché so che non sei da sola, ma in questi giorni tutti hanno la testa un po’ altrove e non vorrei che quel… Emi-hime, promettimelo e quando torneremo ad Austina andremo a pescare i gamberi!»

«Promessa solenne!» aveva risposto la bambina con solennità.

 

«Ma se allo zio Alfgang piacciono tanto le bambine carine come me, perché papà non vuole che resto da sola con lui?»

«Che cosa avete detto, altezza?» chiese la balia, spostando sull’altro braccio Ferio.

«Niente, Chota, pensavo solo ad alta voce. Oh! Ecco Velie!» esclamò, facendo qualche passo di corsa e poi camminando normalmente dandosi un pugno leggero alla testa.

Velie di Cizeta era l’altra cugina del principe ereditario di Cephiro: era un poco più grande di Emeraude, i capelli castani raccolti in una lunga treccia e l’incarnato olivastro. Ad Emeraude piaceva tanto, era una bambina molto divertente e allegra con cui era facile andare d’accordo: certo, le volte che s’erano incontrate si potevano contare sulla punta delle dita, ma per entrambe era sempre una gioia trascorrere qualche ora a giocare insieme.

Appena la vide, Velie corse incontro ad Emeraude, nonostante i rimproveri della sua governante, e coinvolse l’altra bambina in un breve girotondo.

«Emi-hime, come ti avevo promesso, ti ho portato una bambola di Cizeta!» esclamò Velie, tirando fuori da una borsa un pacchetto. «Pensa, le ho fatto fare apposta dei vestitini uguali e spiccicati a quelli della zia Supra che ti piacciono tanto.»

Emeraude strinse il pacchetto con gioia, iniziando a saltare come una cavalletta, ma un’occhiataccia di Chota la bloccò.
«Ops, è vero: ho promesso che non avrei né corso né saltato e né gridato perché… come ha detto la mamma? … perché siamo in lutto,» disse, un po’ a se stessa e un po’ all’altra bambina, poi sedette sul bordo della fontana e prese a scartare il regalo. «Grazie tante, Velie, quando verrai a trovarmi ad Austina, ti farò vedere tutte le mie bambole e poi andremo a giocare nella baia… wow! È BELLISSIMA!»

«E guarda, ha anche gli occhi che si chiudono e le gambe che si piegano, così resta seduta tutta da sola,» spiegò l’altra.

«Non c’è bisogno di parlare così forte, Vostra Altezza,» la rimproverò la governante, «qui a Cephiro non si usa fare festa quando qualcuno muore.»

Velie fece spallucce. «Perché? Forse non sono contenti che una persona va nei Campi dei Beati, dove si fa sempre festa e si possono mangiare tutti i dolci che si vuole senza farsi venire il mal di pancia?»

«Ma cosa dici! Quando una persona muore, il suo spirito vola via e i vermi gli mangiano la faccia, le mani, la pancia… pure i piedi, anche se sono puzzolenti,» ribatté Emeraude, con aria da sapientona, «e tutti sono tristi perché quella persona non c’è più e se il suo spirito non è volato via diventa un fantasma che fa i dispetti.»

«No, i fantasmi sono gli spiriti delle persone cattive che i Guardiani non fanno entrare nei Campi dei Beati: è per questo che fanno i dispetti.»

«Principessa Velie, se aveste studiato gli usi ed i costumi degli altri paesi, sareste a conoscenza di tali differenze fra Cephiro e Cizeta!» la rimproverò nuovamente la governante, con un sibilo, e poi aggiunse, facendo un cenno verso un sentiero. «E spero che non vogliate fare sfoggio di tanta ignoranza dinanzi al Principe Ereditario di Fahren!»

Velie roteò gli occhi e poi diede una gomitata a Emeraude, sorridendo maliziosamente. «La zia Supra ha detto che sposerai il principe Teijo…»

La bambina fece spallucce, lanciando un’occhiata furtiva al bambino che avanzava verso di loro. «Anche la mamma ha detto la stessa cosa, però non mi ha mai spiegato che cosa significa…»

«Non lo sai?!» Velie sgranò gli occhi nocciola, e poi scoppiò a ridere. «Significa che andrai a vivere nel suo castello, che vi darete i baci sulla bocca e che poi avrete tanti bambini!»

«I baci sulla bocca?! Che schifo!»

Emeraude fece un’espressione disgustata e cercò di allontanare Velie, che le si era gettata addosso e non finiva di far schioccare le labbra: alla fine, la governante e Chota dovettero intervenire per riportare all’ordine le due bambine.

Emeraude e Velie aggiustarono le pieghe dei loro vestiti, l’una facendo un’espressione offesa e l’altra cercando di non ridere e dando delle gomitate alla prima. La governante si schiarì la gola, guardando entrambe di tralice: le due bambine si scambiarono un’occhiata, dandosi un cenno d’intesa e ricambiando l’inchino del giovane principe.

Teijo di Fahren guardò le due bambine con l’aria altezzosa di chi vuol sentirsi già grande: Emeraude non sapeva dire se gli piaceva o no, le dava l’impressione di essere un bambino un po’ antipatico, ma lei sapeva bene che a volte la prima impressione è sbagliata. Ricordandosi le raccomandazioni dei suoi genitori (essere gentile con lui e, soprattutto, niente dispetti), la principessina di Austina fece un altro, profondo inchino e ripeté la frase che sua madre le aveva fatto imparare a memoria.

«Il Principe Payze, mio cugino germano, non può, date le circostanze, adempiere ai suoi doveri di ospite e ha chiesto a me, Emeraude Xepphirine di Austina, di farlo in sua vece.»

Teijo la guardò dall’alto in basso, fece altrettanto con Velie e lanciò un’occhiata a Ferio, che seduto sul prato, aveva strappato dei ciuffi d’erba e li aveva portati alla bocca.

«Due femmine e un poppante: ci sarà da annoiarsi,» borbottò rivolto a se stesso.

Velie sbuffò, incrociando le braccia.

«Se non vuoi giocare con noi, sei libero di non farlo: Emi-hime, Ferio ed io ci divertiremo alla faccia tua.»

E gli fece una linguaccia.

«Velie, con un maschio non possiamo di certo giocare con le bambole o a truccarci, ma noi siamo femmine e di certo non giochiamo ai guerrieri,» ammise Emeraude, «però ci sono tanti altri giochi che possiamo fare! Che so, palla prigioniera, nascondino…»

«Nascondino mi sta bene, ma non voglio essere il primo a cercare,» rispose Teijo, annuendo.

«Non sei tu che decide, signorino Mi-do-tante-arie-da-grande-ma-sono-un-bambino: faremo una conta come si deve!»

 

Emeraude ridacchiò, coprendosi la bocca con le mani: lei e Velie avevano fatto apposta la conta, in modo che fosse proprio Teijo il primo a contare; inoltre, loro due conoscevano molto bene quel giardino, avendone esplorato gli angoli più segreti nei lunghi pomeriggi trascorsi a giocare insieme.

La bambina si guardò intorno, e dopo essersi assicurata che la via fosse libera per fare tana, si avviò di soppiatto verso la fontana facendosi largo fra i cespugli: ad un certo punto si fermò e si tolse le scarpe, ritenendo che in questo modo avrebbe fatto meno rumore. L’erba era morbida e fresca, le dava una sensazione piacevole fra le dita e sotto le palme dei piedi, ma preferiva di gran lunga la rena e le diverse percezioni che le dava a seconda della sua grana più o meno fine e della sua distanza dalla battigia. Proprio come suo padre, Emeraude non amava molto la capitale, tanto che, se non fosse stato per la prospettiva di giocare con Payze e Velie, avrebbe fatto tutto il possibile per restare ad Austina ogni volta che la sua famiglia doveva andarci.

Prese le scarpe e sollevò le gonne con ambo le mani, quindi riprese ad avanzare attraverso i cespugli: doveva solo attraversare un sentiero ed un’altra macchia d’arbusti prima di raggiungere la fontana e fare tana libera tutti (sempre che Velie non l’avesse preceduta) e ridacchiò pensando alla faccia di Teijo quando avrebbe saputo che gli toccava contare di nuovo.

Emeraude trattenne a stento un gridolino, vedendo che c’erano due persone sul sentiero: erano Glaspac e Alfgang, i fratellastri di sua madre. Parlavano a bassa voce, il primo non smetteva di guardarsi intorno come se avesse paura che qualcuno saltasse fuori all’improvviso, mentre il secondo stringeva spasmodicamente l’impugnatura della sua spada: avevano gli stessi lineamenti, Glaspac e Alfgang, ma se il primo era pingue -e le sue rotondità erano quasi accentuate dalla lunga tunica - il secondo era ben più atletico e sembrava più alto del fratello grazie alla particolare foggia della sua armatura.

Qualcosa nella testa di Emeraude la spronò ad avvicinarsi, che doveva sentire quello che i suoi zii si stavamo dicendo.

“Ma non è buona educazione origliare.”

Suo padre le aveva sempre raccomandato di fare quello che le diceva il cuore, perché su Cephiro era questo a comandare, e così Emeraude si avvicinò di qualche passo.

«… ah, gliela farò pagare a quella puttana cizietana di Supra! Sarà pure la madre dell’erede al trono, ma di qui a volersi accaparrare la reggenza…»

«È una madre che si preoccupa di suo figlio, Glaspac, è la debolezza di ogni donna, ma fossi in te agirei in modo più sottile e cercherei di usare questa sua debolezza a nostro vantaggio.»

«Che cosa vuoi dire?» borbottò Glaspac guardando l’altro di tralice.

«Vuoi infilare uno schiavo muto nelle sue stanze? Fai pure. Vuoi accusarla di adulterio per togliercela dai piedi? Perfetto! Ma pensaci e dimmi se sbaglio: non sarebbe meglio convincerla a partire per Cizeta con la scusa di evitare uno scandalo (quale colpo per un figlio, scoprire che sua madre non è migliore della più volgare delle meretrici!) e poi, durante il viaggio…» Alfgang si passò l’indice sulla gola. «I viaggi fra due pianeti non sono esenti di pericoli.»

L’altro batté le mani, sorridendo, quindi aggiunse con voce falsamente addolorata.

«La regina Supra perita in un incidente, lasciando come unica guida di suo figlio il Gran Consigliere Glaspac! E il Generale Alfgang.»

«Ti lascio tutto il merito, mio amato fratello, sai che in fondo tutto quello che voglio è…»

Un cenno dell’altro lo zittì: Emeraude sapeva che Glaspac aveva percepito la sua presenza: trattenendo il respiro e cercando di non fare alcun rumore, fece per riaddentrarsi nella macchia.

Con un gesto insolitamente agile per la sua stazza, il Gran Consigliere s’avventò su di lei, afferrandola per un braccio e strattonandola in malo modo la portò sul sentiero.

«Ah, piccola peste che non sei altro, che ci facevi lì? Non te lo ha insegnato tua madre che non è buona educazione origliare la gente?!»

«Lasciami, lasciami! Mi fai male!» esclamò la bambina, cercando di liberarsi dalla presa. «E poi non spiavo!»

«Ah, non ci stavi spiando, eh? E allora che ci facevi lì, nascosta fra i cespugli?»

Usando tutta la sua forza, Emeraude riuscì a tirare il braccio in modo da potersi liberare, e rispose come se fosse la cosa più ovvia.

«Che domanda stupida, zio Glaspac: giocavo a nascondino. E se il principe Teijo mi trova per colpa tua, non ti parlerò più!»

Il viso di Glaspac divenne rosso di rabbia: fece per alzare la mano, ma l’altro lo fermò. «Fratello, non è che una bambina… una bambina che sa che le bugie hanno il naso lungo: non è vero, mia piccola Emeraude?» concluse Alfgang, sorridendole.

Emeraude strinse le labbra e involontariamente fece un passo indietro. Non le piaceva il modo in cui Alfgang la stava guardando, come se la volesse mangiare in un boccone, né tanto meno il suo sorriso: non sapeva perché, ma le sembrava che avesse lo stesso sorriso del grande squalo impagliato esposto nella sala dei trofei di suo padre. Uno squalo famoso per aver divorato tanti pescatori e catturato molti anni prima della sua nascita, e che ancora le madri di Austina usavano come spauracchio con i bambini disubbidienti.

«Le bugie hanno anche le gambe corte, zio Alfgang,» disse infine, con un fil di voce.

L’uomo inarcò un sopracciglio.

«Una risposta saggia, mia piccola Emeraude, ti meriti un premio: ho sempre un po’ del tuo dolce preferito in tasca.»

Uno scambio di sguardi e Glaspac s’eclissò con una scusa, lasciando suo fratello da solo con la bambina.

Emeraude sapeva di aver paura, sapeva anche che doveva scappare via, sapeva che doveva correre da Chota, lo aveva promesso a suo padre. E più il tempo passava più Emeraude aveva l’impressione di trovarsi davanti al sorriso dello squalo impagliato, e che suo padre le aveva detto una bugia e che una persona che sorrideva in quel modo non poteva amare i bambini.

Alfgang s’era chinato verso di lei e le aveva porto la mano.

«E così stai giocando a nascondino, nevvero? Sai, mia piccola Emeraude, conosco un posto segreto dove, ne sono certo, il principe Teijo non potrà trovarti: vieni con me, te lo mostro.»

La bambina fece un altro passo indietro, cercando di non far vedere la sua paura.

“Chota, perché non sei qui con me? Un grande, uno qualsiasi!”

Come se si fosse scottato, Alfgang s’allontanò da lei, la mano destra scattò istintivamente all’elsa della sua spada: un animale che Emeraude non aveva mai visto, una specie di coniglio dal pelo candido e soffice e con una gemma rossa sulla fronte, era piombato fra loro ed aveva preso a saltellare intorno alla bambina.

«Generale, non dovreste essere nella camera ardente in questo momento?»

La voce del Pilastro era severa ed autoritaria, ma una vena di stanchezza tradiva la sua malattia.

Alfgang fece un profondo inchino verso di lei.

«Vostra Eccellenza sa bene che la regina Supra non ha molta simpatia per me: m’era parso irrispettoso…»

«È del vostro defunto fratello, che dovete aver rispetto, non della sua Prima Concubina.» Alfgang strinse le labbra in quello che voleva essere un sorriso cortese e con un altro profondo inchino ed uno svolazzo del mantello, andò via. il Pilastro lo seguì con lo sguardo, e quando quegli fu abbastanza lontano, i suoi lineamenti si rilassarono appena.

«Stai bene…?» Ma le parole le morirono in gola.

Emeraude la guardava con gli occhi pieni di lacrime, mordendosi il labbro inferiore.

«Ho… ho… ho avuto tanta paura…» balbettò infine, scoppiando a piangere. «E papà mi ha detto una bugia!»

Ginko sorrise dolcemente, inginocchiandosi davanti alla bambina e facendo comparire un fazzoletto con un gesto della mano.

«Perché tuo padre sarebbe un bugiardo?» chiese, mentre le asciugava le lacrime e le faceva soffiare il naso.

«Perché mi ha detto che lo zio Alfgang ama i bambini: non è vero, perché un grande che ama i bambini non ti guarda come se ti vuole mangiare in un boccone.»

La donna tacque a quelle parole: strinse le labbra, poi si rivolse allo strano animale.

«Mokona, potresti dare qualcosa a questa bambina per riconfortarla, per cortesia?»

Con un gioioso puuh la gemma sulla fronte di Mokona emise un bagliore, e dopo un istante davanti Emeraude era comparso un tavolino ricolmo di dolci e con una tazza fumante: la bambina singhiozzò un po’ prima di prendere la bevanda, quindi ringraziò con un sussurro il Pilastro e bevve un gran sorso. Ginko sorrise incoraggiante, invitandola con un gesto della mano a prendere anche dei dolci, e sedette sulla sedia che Mokona aveva fatto comparire per lei.

«Il Principe Fiero non ti ha detto una bugia,» cominciò Ginko una volta che Emeraude s’era tranquillizzata, «ti ha detto che il Generale Alfgang ama i bambini perché è un modo convenzionale per descrivere ciò che fa.»

«E che cosa è che fa lo zio?» chiese Emeraude, sedendosi sul selciato e stringendo Mokona a sé.

Ginko esitò un attimo per cercare le parole migliori per esprimere il concetto ad una bambina di quell’età.

«Fa coi bambini quel che fanno una mamma ed un papà quando vogliono avere un figlio.»

Emeraude spalancò occhi e bocca, poi esclamò severa.

«Non va bene! Papà mi dice sempre che certe cose le fanno solo i grandi. E mi ha detto pure che si fanno con la persona cui si vuole di più bene e che se per caso scopre che una persona ad Austina fa così, la manda a largo su una barca piiiccola piiiccola con un pezzo di pane secco ed una borraccia d’acqua, ecco!»

«È un crimine punito con la prigione, su Autozam. Non qui su Cephiro.»

«Ma non è giusto!»

«Lo so, e fino a qualche decennio fa avrei potuto imporre la mia decisione al Gran Consiglio, ma allora non c’era questa necessità: gli abitanti di Cephiro non avevano bisogno che il Pilastro o una legge dicessero loro cosa fosse giusto e cosa sbagliato.»

La bambina guardò la donna silenziosa: Sua Eccellenza Ginko mostrava la stessa età di sua zia Murciel, ma Emeraude sapeva che il Pilastro era molto, molto più anziano. E molto malato: ogni due o tre anni Sua Eccellenza Ginko ed il suo seguito andavano ad Austina per qualche settimana, poiché pareva che l’aria di mare e l’amore degli abitanti della contea la aiutassero a combattere contro il suo male.

«È perché sei ammalata, vero, che non puoi dire allo zio di smettere di fare certe cose e di metterlo in punizione?»

Ginko sorrise all’intelligenza della domanda e all’ingenuità fanciullesca con cui era stata espressa.

«Vero, perché devo pregare per il benessere di Cephiro e al tempo stesso combattere contro il mio male: è per questo che, quando divenni la Colonna Portante di Cephiro, decisi di scegliere un re che mi avrebbe rappresentato presso il Gran Consiglio.»

«Ma non fai prima a dire alla malattia di andare via per sempre? Chota dice che non si può pensare a due cose insieme.»

«La tua Chota ha ragione, sai?

«Avrei potuto pregare per la mia guarigione, vero, ma avrei trascurato Cephiro per chissà quanto tempo e sarebbe stato il primo di altri desideri egoisti.

«Questo mondo ed i suoi abitanti sono la cosa più importante per il Pilastro: può decidere di delegare alcune cose ad altri, come ho fatto io, oppure prendere sulle proprie spalle tutto il peso di Cephiro ed essere certo che il suo popolo sia felice e giusto, che la terra dia i suoi frutti in abbondanza e senza troppa fatica e che l’acqua più pura scorra nei fiumi, che non ci siano terremoti e tempeste, né troppi mostri che mettano in pericolo i villaggi.

«Ogni volta che mi dicono che da qualche parte c’è un mostro o che c’è stato qualche problema, mi rattristo: so che è colpa mia perché non ho pregato abbastanza forte, e questo succede ogni volta che sto male. Come per la morte di re Gallardo: se in quei giorni non avessi avuto la febbre alta, quei mostri non si sarebbero avvicinati troppo al castello e tuo zio non sarebbe andato a scacciarli assieme alle guardie.»

Emeraude strinse le labbra, la fronte un po’ corrucciata.

«Devi pregare forte forte così siamo tutti felici e non ci sono mostri cattivi, è questo che vuoi dire? Perché se non è così allora significa che non ho capito bene, forse perché sono ancora piccola e non riesco a capire tutto tutto quello che dicono i grandi. Anche se papà dice che sono taaanto intelligente.»

Ginko sorrise, arruffandole i capelli.

«Beh, il succo del discorso è questo, non preoccuparti. E adesso, torna pure a giocare, e se il principe di Fahren passasse di qui, gli dirò che non ti ho vista,» concluse con tono complice.

Emeraude ricambiò con un largo sorriso: fece per addentrarsi nuovamente fra i cespugli, poi si voltò e abbracciò di slancio la donna.

«Grazie tante,» mormorò, «e la prossima volta che vieni ad Austina ti farò giocare con il mio aquilone.»




AN: Ed ovviamente sono aperte le iscrizioni all'Alfgang Hate Club

   
 
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