C’è
sempre qualcosa di confortante nello svegliarsi
durante la notte, nella lenta risalita della mente dalle accoglienti
tenebre
dell’incoscienza ad un corpo ancora intorpidito, avvolto da
coltri
tiepide; è
piacevole ascoltare per qualche istante la quiete del palazzo,
osservare
l’oscurità attraverso le proprie palpebre chiuse,
contemplando la
rassicurante
certezza di poter a breve sprofondare nuovamente in un sonno
indisturbato.
Quella
notte, tuttavia, quando mi accorsi che il mio
sogno era svanito da qualche parte fra la mia anima e il cuscino, non
riuscii a
stringere a me le coperte con assonnata naturalezza; vi era qualcosa di
diverso
nella stanza, come un’attesa nel silenzio,
un’aspettativa nel buio.
Confusa,
riuscii a fatica a sconfiggere la pesantezza
che gravava sulle mie palpebre fino a socchiuderle appena per scrutarmi
intorno.
Sussultai,
perché conoscevo la figura che mi osservava
silenziosa e immobile fra le ombre della camera: non avevo bisogno di
guardarlo
per parlare della perfetta simmetria del suo viso, del taglio gentile
dei suoi
occhi azzurri, della nobile compostezza della sua postura; gli avevo
dato io
quell’espressione pacata, e sapevo che l’avrebbe
mantenuta anche in
preda alla
più passionale delle emozioni, lo sapevo con la stessa
esattezza con
cui
conoscevo ognuno dei suoi lineamenti. Nessuna delle sue fattezze,
tuttavia, era
mai stata tanto nitida nella mia mente quanto lo era in quel momento,
mentre
Sorot sedeva accanto al letto sulla seggiola presa alla mia scrivania,
nello
stesso punto in cui i miei genitori mi avevano vegliata da bambina,
quando ero
stata troppo malata per essere lasciata sola e troppo caparbia per
scambiare il
mio letto con il loro. Era lì ed era reale, come lo erano
stati mio
padre e mia
madre, e se avessi allungato la mano nel levarmi a sedere avrei potuto
toccarlo; confesso che non ne ebbi il coraggio. Mi strinsi, invece,
nella
trapunta, cercando riparo dall’impossibile fra le lenzuola di
flanella,
chiudendo e riaprendo gli occhi più volte con
l’ostinazione disperata
di chi
lotti contro la follia; lui, tuttavia, non svanì mai.
Lo
osservai in silenzio, desiderando vivamente che
dicesse qualcosa, Sorot, però, era per natura più
propenso ad ascoltare
che a
parlare, così continuò a scrutarmi intensamente
con severa meraviglia,
come se
fossi stata qualcosa che aveva desiderato vedere da sempre e avesse
stravolto
tutte le sue aspettative.
«Come
puoi essere qui?»
Mi
sorrise, sospirando leggermente e seppi prima di
sentirla che la sua replica sarebbe stata vaga e sfuggente,
più simile
a
un’enunciazione di principio che a una risposta vera a
propria. Era
quello che
faceva quando qualcosa lo tormentava, nascondersi dietro
verità
rilevanti solo
in parte, incapace di parlare apertamente del proprio turbamento quanto
di
celarlo del tutto.
«È
scritto nel Libro che quando moriremo incontreremo
Dio faccia a faccia.»
Dischiusi
le labbra per contraddirlo e negare con
veemenza di essere Dio, quando mi accorsi che, se lo avessi fatto,
avrei mentito:
se l’uomo dinnanzi a me era reale, lo avevo creato io; se era
reale il
suo
mondo, io ne ero l’alfa e l’omega, e non vi era
altro Verbo di quello
che aveva
preso forma nella mia grafia minuta.
Non
avevo mai desiderato tanto scappare da un’idea.
«Non
sei morto davvero, non sei mai stato vivo.»
La
più splendida e folle delle contraddizioni
performative: “tu non esisti”;
anche se l’avessi pronunciata
sino in
fondo, comunque, non avrebbe potuto darmi alcun conforto.
«Eppure
sono qui. Eppure Galoth mi ha colpito con il
bastone della lancia da caccia, sorpassando il mio cavallo a briglia
sciolta, e
il legno ha sfondato le ossa della mia nuca. Eppure il mio corpo si
è
accasciato in avanti, appoggiandosi al collo del mio stallone prima di
scivolare verso il suolo, le articolazioni delle mie ginocchia si sono
scomposte e il mio cadavere è stato trascinato per metri, lo
stivale
incastrato
nella staffa, il cranio e il sottobosco a sporcarsi a vicenda di sangue
e
terriccio.»
Non
era un’accusa, ma un’amara constatazione, una
rievocazione dolente e pervasa di stanchezza che mi colpì in
profondità.
Sarebbe stato più facile se mi avesse affrontata gridando;
l’avrei
aggredito a
mia volta e sarei stata capace di chiudere gli occhi di fronte alla sua
sofferenza. Al dolore sommesso e dilaniante di quelle parole, invece,
mi era
impossibile rendermi sorda: perché quelle parole erano mie,
erano
quelle che
avevo scelto di non usare per descrivere la sua morte, preferendo loro
la
drammaticità del fatto compiuto; le parole erano mie, ma la
sofferenza
era la
sua e in quella pena straziante espressa con pacatezza rassegnata mi
parvero
acquisire una forza nuova, una verità che io non ero
riuscita a dare
loro.
Visti da vicino, la sua morte e il suo dolore mi sembrarono meno
romantici e
lirici, più crudeli e ingiustificabili; mi parve gridassero
vendetta al
cospetto di Dio e fu terribile realizzare che non l’avrebbero
mai
avuta, perché
era Dio, perché ero io, ad essere colpevole.
«Mi
dispiace.»
«Tutto
qui?»
Galoth
avrebbe urlato così forte da farmi rimbombare
la propria disperazione nelle orecchie, Sorot sussurrò
soltanto e il
suo
bisbiglio si diffuse per la stanza, impregnando di sé il
silenzio.
«Cosa
vorresti sentirmi dire?»
Lo
sapevo, ovviamente, perché non chiederemmo tutti la
stessa cosa al cospetto di Dio?
«Perché?»
La
domanda delle domande, rigettata dalla scienza,
ripetuta dai bambini, gridata dai nostri cuori: perché la
vita, perché
il
dolore, perché le persone che amavo mi hanno tradito,
perché non sono
riuscito
ad essere felice, perché sono morto, perché il
mio migliore amico mi ha
ucciso?
«Non
saprei risponderti.»
Era
squallido e volgare, eppure era anche tutto quello
che avevo da offrirgli: la confessione della mia finitezza, della mia
ignoranza, la condivisione dell’imperfezione che ci era
connaturata in
quanto
esseri umani. Sapevo, tuttavia, che lui non l’avrebbe capito
né
accettato, non
dal proprio creatore, io non avrei mai potuto.
«Non
era una domanda dappoco, non meritava una
risposta dappoco.»
Gli
avevo dato occhi dell’azzurro tiepido del cielo di
maggio, talmente concepiti per sguardi benevoli e compresivi da
enfatizzare il
suo disappunto sino a renderlo un peso insopportabile.
«Non
era una risposta dappoco, era una risposta
sincera.»
Raccolsi
le gambe al petto, stringendole fra le
braccia, con l’inevitabile risultato di permettere
all’aria fredda che
da un
pezzo mi intirizziva la schiena di insinuarsi sotto le coperte. Forse
rabbrividii, perché Sorot iniziò a slacciare i
bottoni del farsetto con
la
chiara intenzione di sfilarselo e pormelo; erano bottoni
d’osso
intarsiato,
fissati con filo dorato alla migliore seta di Darme e non potei che
immaginare
l’orrore con il quale l’intera sartoria che si era
affaccendata intorno
all’abito del proprio sovrano ne avrebbe accolto
l’accostamento con il
mio
pigiama scolorito e macchiato di varechina.
Cercai
un modo cortese per rifiutare, sopraffatta
dall’impressione che accettare la sua giacca sarebbe stato
come
riconoscere
sino in fondo la sua esistenza, tuttavia, prima che potessi dare voce
al mio
diniego, Sorot si alzò con compostezza e me la
posò sulle spalle in un
gesto
fluido, pieno della galante eleganza di un nobile del Varices: era
morbida e
calda e profumava di bucato. Era da tanto tempo che qualcuno non faceva
una
cosa simile per me.
«Sei
un uomo buono, Sorot di Besali.»
Rimase
interdetto per un istante, l’espressione
dubbiosa e incerta, le labbra piegate in un’involontaria
smorfia.
«Sorot
il Buono.»
Scandì
le parole deliberatamente, enfatizzando l’epiteto
con distacco, quasi soppesandolo, certo di trovarlo mancante.
«Quando
vi trovate dinnanzi a re chiamati “il buono”
e “il pio” potete stare certi di trovarvi di fronte
ad un sovrano
debole.»
Rimasi
sbigottita nel sentirglielo dire, perché non
ricordavo di aver inserito in alcun modo quella particolare citazione
nella sua
storia, eppure, sforzandomi appena, riuscii a immaginare un anziano
precettore,
non troppo dissimile dall’ordinario di Storia medievale che
aveva
pronunciato
quella frase con annoiata sufficienza in una sonnolenta mattina
d’autunno; un
istitutore severo e intransigente incline a ricondurre ogni
generosità
alla
mancanza di fermezza e ogni concessione
all’incapacità di non farsela
estorcere.
«Da
un certo punto di vista può essere vero,
c’è una
debolezza che viene spacciata per bontà, ma
c’è anche molta bontà che
non ha
nulla a che vedere con la debolezza. Sei stato un uomo buono e un buon
imperatore.»
Sedette
lentamente, un sorriso sarcastico a
deformargli il volto, posò le mani sulle ginocchia
stringendole con
forza.
«Un
buon imperatore. Allora perché tutti pensano che
Galoth sarebbe stato migliore? Hanno scelto me perché non
potevano
eleggere
lui; se suo padre non fosse stato vivo e in declino, se il mio non
avesse a suo
tempo arrangiato ogni cosa, avrebbero votato per lui. Io avrei votato
per lui.»
Deglutì
e abbassò lo sguardo, gravato dal fardello di
quell’ammissione e io non potei fare a meno di domandarmi
quanto vi
fosse in
essa di vero: se davvero il mio mondo sarebbe stato tanto diverso
qualora fosse
stato Galoth e non Sorot ad essere eletto imperatore, se davvero
sarebbe stato
migliore. Accarezzai l’idea per un attimo, figurandomi
l’ascesa al
trono dorato
del giovane conte del Sirenmat; lo immaginai, splendido e maestoso
nella sua
armatura da cerimonia, salire lentamente la Grande Scalinata dinnanzi
alla
cattedrale di Naska, udii il plauso degli elettori e
l’ovazione di una
folla
esultante, vidi sua moglie sorridergli timidamente dalla tribuna, suo
fratello
minore battere le mani entusiasta, Sorot scuotere il capo divertito,
infine
scorsi sua madre, severa e arcigna nel suo abito a lutto, accusarlo in
silenzio
della morte del proprio primogenito e la scena perse
all’improvviso
ogni
traccia della sua patina dorata. Galoth sarebbe rimasto Galoth: un
trono d’oro
non avrebbe cancellato le percosse di suo padre, né
l’odio di sua
madre, la
dolce Isolle di Indekel sarebbe morta lo stesso e così il
loro bambino
non
nato, fra lui e Sorot le cose non sarebbero potute restare le stesse e,
nella
solitudine del suo palazzo, il titolo di Eren non gli avrebbe impedito
di
diventare un violento, un alcolista, un assassino.
«Galoth
ha molti pregi: è un grande guerriero, un uomo
generoso con coloro che lo servono fedelmente, nutre un amore sincero
per il
suo popolo che lo ricambia con passione; soprattutto, lo sappiamo
entrambi,
esercita su chiunque lo incontri un incredibile fascino.»
Levò
il capo di scatto per fissarmi, forse perché per
la prima volta avevo utilizzato quel tono sicuro e giudice che ci si
aspetta da
un creatore, forse perché intuiva, da come avevo formulato
la frase,
che questa
non fosse che il preambolo di un colossale
“tuttavia”.
«Quelli
che lo amano sono quasi sempre ciechi ai suoi
difetti. Tu eri l’imperatore migliore, eri anche
l’uomo migliore.»
Un
stupore infantile pervase il suo volto,
illuminandolo di un’innocenza sollevata, della totalizzante
gratitudine
di chi
abbia ricevuto acqua nel deserto; era un’espressione
meravigliosa, ma
non
rimase sul viso che per un istante, perché, per quando
intensamente
avesse
bramato udirle, quelle parole non potevano cambiare la
verità per cui
non
trovava consolazione .
«Allora
perché tutti lo amano più di quanto abbiano
amato me?»
Aveva
disperatamente bisogno di una risposta e mi
trovai a pormi la stessa domanda; Sorot era stato un buono e un giusto,
eppure
tutti gli avevano preferito il suo migliore amico: lo avevano fatto le
persone
più importanti della sua vita, dalla prima
all’ultima, lo avevano fatto
quelli
che avevano letto la loro storia, lo aveva fatto chi mi aveva ascoltata
mentre
la creavo; era ingiusto e irragionevole, nondimeno innegabile, e non
potevo
darmi che un’unica spiegazione. Gliela confessai in un
sussurro
colpevole.
«Perché
io l’ho amato di più.»
Si
ritrasse appena sulla sedia come se l’avessi
colpito, poi giunse le mani e sorrise stancamente.
«Non
dovresti amarci tutti allo stesso modo?»
Risi
e tutto il senso di colpa che provavo non riuscì
a nascondere la mia acredine: Dio ci ama tutti allo stesso
modo,
la
bugia più difficile da credere, a cui tuttavia desideriamo
aggrapparci
con
cieca disperazione.
«Dio
dovrebbe. Dubito lo faccia davvero.»
Similmente,
pensai, a come non lo avevo fatto io.
Distolsi lo sguardo.
«Perché?»
Avrei
voluto saperlo, ma non potevo rispondere per
Dio, così cercai di rispondere per me stessa, sopportando
l’inquietante
consapevolezza che per Sorot non vi fosse alcuna differenza.
«Potrei
dirti di averlo amato più degli altri perché
ha sofferto più degli altri, non sarebbe una menzogna. Non
del tutto.»
Posai
la testa sulle ginocchia e presi un profondo
respiro, ricordando un’antica accusa, accorgendomi di come,
almeno in
parte,
non fosse altro che la verità.
«Forse,
però, se non avessi provato quell’amore, non
gli avrei mai inflitto quella sofferenza.»
Una
piega d’orrore increspò la linea bionda delle sue
sopracciglia, il resto del suo corpo prigioniero di una sconvolta
staticità.
«Come
può essere?»
Avevo
provato, una volta, a spiegare la mia
predilezione per i finali tragici, ma, sopraffatta dal mezzogiorno
rovente di
una spiaggia Greca, mi ero limitata a professare la
superficialità del
lieto
fine, la sua banalità ottundente, senza ottenere altro
risultato che
offendere
l’amica che mi ascoltava senza capirmi. Forse non sarei mai
stata in
grado di
spiegarlo davvero; tentai comunque di nuovo, poiché, almeno
a Sorot,
pensavo di
doverlo.
«C’è
qualcosa di più profondo e catartico in una
storia piena di dolore. È per il dolore che siamo davvero
capaci di
empatia, il
dolore esalta la nostra umanità.»
Sgranò
gli occhi e nelle sue iridi chiare non fui in
grado di scorgere alcuna comprensione, solo una profonda offesa.
«Ed
è
per questo che dobbiamo soffrire? Per la bellezza
di una grande armonia tragica?»
Stavo
per dirgli che non aveva capito, quando mi
accorsi che, sino a quel momento, neppure io l’avevo fatto e
la
grandezza di
quell’incomprensione reciproca mi colpì come
un’epifania spaventosa. Un’eterna
armonia.
«Sai,
mi hai fatto tornare in mente una storia che
conosco. Due fratelli sedevano in una trattoria, mangiando conserva di
ciliegie
e forse anche the e zuppa di pesce; non erano mai stati molto vicini e,
nel
bisogno di svelare l’uno la propria anima
all’altro, finirono per
parlare di
Dio.»
Sorot
continuava a fissarmi e la perplessità della sua
espressione mi fece desiderare di potermi tendere verso di lui, per
trasmettergli quello che volevo dire senza ricorrere al tramite
svilente delle
mie povere parole, senza recare offesa alla più grande e
lacerante
opera mai
scritta. Era oltre la mia portata, ma mi pareva così
importante che
continuai,
abbracciando il mio limite.
«Il
fratello maggiore affermò che l’armonia eterna non
rende giustizia alla sofferenza sulla quale viene edificata, che la
verità non
vale un simile prezzo, che anche se la gloria e la grandezza per la
realizzazione della quale la sofferenza era stata necessaria gli fosse
stata
dispiegata davanti, lui non l’avrebbe magnificata.
Domandò al proprio
fratello
minore se avrebbe acconsentito ad essere l’artefice di una
simile
armonia al
prezzo della sofferenza di un solo bambino. Tu cosa avresti
risposto?»
Scosse
il capo con una decisione.
«No,
non acconsentirei.»
Non
mi era mai parso perfetto come in quel momento,
mentre proclamava, con parole che appartenevano a un altro uomo,
un’integrità
che io sentivo di non possedere più.
«Anche
lui l’ha detto e anch’io l’ho pensato. E
ora tu
sei qui, a rendermi rispettosamente il biglietto.»
«Rendere
il biglietto?»
Mi
trovai a sogghignare di me stessa; quella citazione
che mi era parsa finale e rivelativa al punto da essere dolorosa da
pronunciare, non significava nulla per lui.
«Non
accusi la mia grande armonia tragica di
non valere il dolore che la genera?»
Annuì
soltanto.
«Anch’io
ho creduto che fosse giusto e degno innalzare
i vessilli della rivolta contro un Dio che permetta un mondo dove un
bambino
possa essere sbranato da una muta di cani da caccia, ma ora, mentre tu
mi
accusi del male che io ho permesso, vorrei solo non
ricordare
che in una
storia anch’io ho lasciato che un ragazzino venisse squartato
dai cani,
che nel
raccontarlo non ho pensato tanto al suo strazio, quanto al lirismo di
quello
strazio.»
Codardamente
desiderai nascondere il volto fra le mani
e fuggire dal suo giudizio, tuttavia mi costrinsi a guardare le
emozioni che si
affastellavano rapide sul volto avvenente di Sorot: ripugnanza, rabbia,
condanna, ma anche smarrito sgomento, devozione, bisogno di risposta.
Resistendo alla tentazione di riempire con la mia voce la bara di
piombo di
quel silenzio, attesi che tutte le sue inquietudini precipitassero
lentamente
nel risultato calmo di una domanda.
«Perché
dici “in una storia”?»
Non
era l’interrogativo che mi aspettavo e la sua
risposta era surreale quanto la situazione in cui mi trovavo, tuttavia
non mi
tirai indietro.
«Perché
per me non era altro che una storia. Non ho
mai inteso creare un mondo, se non come un grande racconto e non nel
senso
comune per cui Dio crea tramite la propria parola: ho parlato di te, ne
ho
scritto e attraverso la mia narrazione altri ti hanno conosciuto, ma
non ho mai
pensato che un giorno ti avrei incontrato, che saresti stato vero,
vicino.»
Forse,
mi trovai a pensare, era quella la ragione per
la quale avevo potuto raccontare storie tanto crudeli, trovarle belle e
non
sentirmene responsabile; mi chiesi se non fosse quello il segreto del
divino,
un’assenza, una distanza, un diverso livello di esistenza che
permetta
di amare
le proprie creature e portare avanti disegni che prevedano il loro
tormento.
Forse, se fossimo apparsi all’improvviso dinnanzi a Dio,
anche lui si
sarebbe
sentito sporco e mostruoso come mi sentivo io in quel momento: un
pensiero
blasfemo, per il quale sarei stata punita al mattino.
Il
viso di Sorot era contratto in una maschera
d’orrore, pietrificato nell’immagine della perdita
di ogni certezza e
speranza;
la bocca spalancata in un muto grido di raccapriccio, lo sguardo
tradito,
vinto, spezzato. Nell’ansia che mi causava quella vista
notai, forse
per la
prima volta, le piccole rughe ai lati dei suoi occhi, i segni sottili
dei
sorrisi che gli erano stati negati intorno alle labbra, i capelli
bianchi
mescolati fra le ciocche biondo grano: sapevo che erano lì,
ma mi ero
sempre
rifiutata di vederli e, osservandolo in quell’istante,
constatando come
le sue
imperfezioni non ne intaccassero la bellezza, riuscii davvero ad
ammettere a me
stessa che era reale, che era presente, che lo amavo.
Scostai
le coperte e lasciai che il suo farsetto mi
scivolasse dalle spalle, posai un piede sul tappeto e allungai la mano.
Sorot
sussultò quando carezzai la sua guancia; era calda e ruvida
e la tenni
nel mio
palmo per un istante prima di insinuare le dita fra i suoi capelli.
Scesi
lentamente dal letto e avvicinai il mio volto al suo; era bello e
sofferente e
il suo dolore era il mio e io lo amavo; lo amavo dell’amore
incondizionato di
una madre, mentre i miei polpastrelli sfioravano la sua nuca bagnandosi
del
sangue umido sul suo cranio fracassato. Lui chiuse gli occhi e io
singhiozzai,
abbracciandolo, una lacrima passò silenziosa da una gota
all’altra e
tutte le
cose che volevo dirgli si persero nel suono spezzato dei nostri
respiri. Lo
baciai dolcemente sulle labbra; era tutta la mia risposta.
C’è
sempre qualcosa di confortante nello svegliarsi
durante la notte, nella lenta risalita della mente dalle accoglienti
tenebre dell’incoscienza
ad un corpo ancora intorpidito; quella notte, tuttavia, quando mi
accorsi che
Sorot era svanito da qualche parte fra la mia anima e il cuscino, il
risveglio
non portò con sé alcun piacere, solo la
consapevolezza di aver perso un
sentimento, uno stato dello spirito, qualcosa che avevo conquistato a
fatica.
Piansi.
Note:
Questa
storia partecipa al concorso “ Io ti ho creato e
io…ti incontro”
indetto da Slappy che non aveva classifica, quindi
non
chiedetemi come mi sono piazzata, e lo splendido banner ( un
po'
inquietnte per chi riconosca l'attore) è stato realizzato da
lei che
ringrazio sentitamente.
Oltre ad essere un’analisi (povera, giacché non è che io sia tutto questo intelletto sopraffino ^^) della figura del creatore, questo racconto è anche la mia personale professione d’amore per I Fratelli Karamazov, e a quest’opera (in particolare ai capitoli I fratelli fanno conoscenza, La rivolta, Il grande inquisitore) la storia è piena di richiami, anche se il mio beta, a cui ho posto la domanda, mi ha assicurato che anche non avendoli letti la storia fila lo stesso. Se qualcuno che non ha letto i Karamazov volesse vedere questi elementi esplicitati non ha che da chiederlo e verrà sommerso dal mio amore spassionato per Dostoevkij (sciocco!)
Altra nota: la scelta di un dialogo notturno, presso un letto mi è parsa quasi obbligata, essendo motivo comune alla maggior parte delle mie storie.
Spero non serva chiarificare che non ho nella vita normale deliri di onnipotenza tali da pensare a me stessa come un Dio.