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Autore: MedOrMad    28/04/2013    18 recensioni
Med ha 24 anni e non ne fa una giusta. Porta avanti una relazione di sesso con un soggetto di discutibile fascino, è 2 anni fuori corso ad una facoltà che non ha intenzione di terminare, è sovrappeso ed è pure stronza. O forse è solo socialmente inadeguata.
Ma più di tutto è persa: nella collana di errori che l’hanno portata a questo punto, ha dimenticato chi voleva essere.
Con Med ci sono Bet e Jules, le persone che di lei sanno tutto. Un trio improbabile, con l’eleganza oratoria di un gruppo di scaricatori di porto, che passa la metà del tempo a prendersi in giro e parlare di sesso. L’altra metà del tempo, però, si completano a vicenda.
All’apice della stronzaggine di Med, arriva lui: un po’ arrogante, impiccione e con un’ossessione - a quanto pare - per il grosso culo di lei.
Una storia di affetti, ridicoli avvenimenti, sesso e parolacce: perché a 24 anni la vita è anche quello.
E anche le ciccione, stronze e infelici fanno sesso. A volte.
Dal Testo:
“Che...che...che cosa vuol dire?” balbetto inebetita.
“Vuol dire che da oggi io e te avremo tantissimo tempo per fare l’amore in ogni stanza della casa.” mi risponde lui, facendomi l’occhiolino.
Questo mi manda ancor più fuori di testa.
“Tu sei tutto scemo! Io starò con la Amish che non si lava, non con uno la cui priorità è il proprio pisello!”
Lui mi fissa smarrito e, suppongo, anche un po' divertito.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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IPTT cap 12 Pan per Focaccia



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Durante una dignitosa pomiciata per strada i nostri coinquilini vengono interrotti da una strana telefonata da parte di Adam, il fratello di Alex, che porta il nostro biondino a dover lasciare le braccia di Med per accorrere in aiuto del fratello. Nel frattempo la suddetta fanciulla si ritrova costretta a lavorare con Jack e Jules ad un servizio di catering che, per Sofia, si rivela un’impresa impossibile. Rispedita a casa per la sua incapacità e per essersi pure tagliata una mano, la nostra protagonista accoglie volentieri il ritorno di Alex che, tra una chiacchiera e l’altra, finisce col… ehm… deliziare Med dell’abilità delle sue mani. La situazione sembra prendere la piega giusta e i due paiono di proncito di… beh, ecco… insomma… darci dentro. Ma contro la sfiga non ci si può dannare: una inaspettata telefonata da Jules arriva a guastare l’atmosfera. La riccia in lacrime rivela di aver fatto un test di gravidanza che ha dato esito positivo.




CAPITOLO 12

Pan per Focaccia


Non sta succedendo davvero. La mia migliore amica non è gravida.
Non è possibile.
Insomma, è pieno il mondo di donne amorevoli che sono nate per essere mamme. Ma è impensabile che Dio - o chi per lui - abbia acconsentito a mettere un essere umano nel cantiere di Jules. La mia Jules. Quella che è materna come un sacchetto dello sporco.
Guido con l’agitazione che si spande nelle vene, chiedendomi come sia potuto accadere e rimpiangendo di aver dovuto abbandonare Alex con le sue succosissime labbra; abbassando il finestrino della Circe, con gli occhi piantati sulla strada, tengo una mano stretta con forza sul volante mentre con l’altra frugo nella borsa per estrarre una Marlboro e, con dita tremanti, la accendo, aspirando nervosamente.
Sono ormai a pochi chilometri da casa di Jules; avvicinandomi al suo palazzo, non posso non rimpiangere il fatto di aver abbandonato Alex nella nostra cucina, a petto nudo aggiungerei.

Ripensare alla mezz’ora trascorsa col mio coinquilino in una situazione di emergenza come questa mi fa sentire una persona orribile, ma non posso fare a meno di domandarmi se le costanti interruzioni non siano un modo dell’universo per farmi sapere che è il caso che lasciamo perdere. In fondo il mio desiderarlo con tutta questa costanza non fa che mostrare che razza di incoerente io sia: in poche settimane la mia intolleranza per Alex si è trasformata in lussuria. L’unica cosa che è rimasta invariata è l’intensità del sentimento. Per lo meno da quel punto di vista ho conservato credibilità.

Sono bravissima a rigirare le frittate, ma la verità è che non è solo il calore che mi provoca ogni volta che mi bacia a farmi sorridere: la sua strafottenza ora è diventata divertente, il suo senso dell’umorismo è ridicolo, il suo essere misterioso un costante stimolo. Ora Alex è una distrazione piacevole. Forse un po’ troppo, al punto che comincio a temere che potrebbe rammollire il mio spirito di stronza, ma non me ne importa nulla. Soprattutto non me ne deve importare ora: la mia testa deve restare concentrata su Jules e sul guaio in cui potrebbe essersi cacciata.
Ci sono momenti sbagliati per diventare mamma e questo non è decisamente l’anno giusto per Jules: lei e Cucciolo vivono in un costante stato di “ti-amo-ora-vai-a-farti-fottere”, la mia amica non ha un’indipendenza economica e non è ancora neppure una professionista riconosciuta dallo Stato. È troppo presto, è tutto troppo sbagliato.

Parcheggio l’auto dietro quella di Bet, proprio di fronte al cartello “Passo Carraio” del cancello di Jules e, contemplando la bizzarra idea di recitare il rosario in favore della mia amica riccia, mi attacco al campanello: pochi secondi dopo dall’altoparlante gracchiante esce la voce di Bet che mi apostrofa per il mio ritardo:
“Ce ne hai messo di tempo!”
“Aprimi, Bet.”

Lei esegue senza protestare ed io accenno una cosa che potrebbe essere classificata come corsa per raggiungere rapidamente la porta d’entrata. Aprendola, la prima immagine che mi si presenta davanti agli occhi è quella della mia amica riccia con il viso affondato nel collo di Bet.

Vedere Jules fragile non è qualcosa che mi capita spesso: proprio per questo, incontrando i suoi occhi scuri e lucidi di pianto, sento la gola contrarsi per la preoccupazione. Questa situazione è oltre le nostre possibilità: noi siamo tre ventiquattrenni - anzi, a dirla tutta Jules ne ha ancora ventitre - che giocano a fare le donne. Ma se la mia amica fosse davvero incinta?
“Che cosa faccio, ora?”
“Cerchiamo di stare calme.” le dico mentre Bet le sposta i ricci umidi di lacrime dal viso.

La mia richiesta non può che suonare ridicola, me ne rendo conto: nessuna donna al mondo di fronte ad un test positivo può mantenersi calma. Se poi la donna è una giovane legalmente adulta ma che della vita non ha ancora capito niente, il panico è la reazione più logica.
“Facile per te, non sei tu che porti in grembo il figlio di Cucciolo!” protesta giustamente lei, rabbiosa, asciugandosi una guancia.
“Questi test non sono sicuri al 100%!” cerca di tranquillizzarla Bet, ma la cosa non sembra rasserenare per nulla la nostra amica che, mettendosi a vagare per casa come un topo in trappola, puntualizza sconsolata:
“Lo sono per l’un sacco per cento, però.”
Ecco, io la percentuale precisa non la conosco, ma un sacco per cento mi pare accurato. O, quantomeno, sufficientemente accurato da rendere il terrore sul viso di Jules più che legittimo.

“Sì, ma solo perché è uscito positivo non vuol dire che non possa esserci un errore, giusto Med?” risponde Bet, voltandosi verso di me e, d’un tratto, mi sento una merda ancora prima di aprire bocca, perché quello che ho da dire non piacerà a nessuna delle due. Non piace neppure a me.
Non essendo dell’idea di ricevere un sicuro insulto, quindi, resto in silenzio, causando evidente fastidio ad entrambe.
“Giusto?”

Okay, io sono la scienziata delle tre, quindi è giusto che metta la mia ignoranza al loro servizio: sono la peggior biologa della storia e chiedere un parere a me su qualcosa di scientifico è come domandare a un neonato di non rigurgitare post-poppata. È stupido e inutile.
“Veramente mi pare di aver sentito che i test di gravidanza possono dare falsi negativi, ma che falsi positivi sono rari.”
“Che cosa?!”
L’urlo angosciato delle mie due amiche è assolutamente all’unisono e, se mi posso permettere, è anche piacevolmente armonizzato. Ma questo è meglio che non lo dica.
“Cazzo, perché devi sempre peggiorare le cose?” sibila Bet.
Mi sento vessata: viene richiesto il mio scarsissimo parere professionale per poi rimproverarmi per aver diffuso la conoscenza. Echecazzo!

“Spiegati meglio, Med.” mi supplica Jules.
“Io non sono un medico né sono una grande esperta ma, da quello che mi risulta, sono test che evidenziano la presenza nelle urine dell'ormone gonadotropina corionica, che non esiste in una donna non incinta, ed è l'ormone prodotto dal trofoblasto nel momento in cui l'embrione si impianta nell'utero...”
“Non parlare strano. Usa una lingua umana o non tratterrò il mio istinto di prenderti a pugni!” mi rimprovera Jules. Io sospiro aprendo il suo pc, digitando “test di gravidanza positivo”, mentre cerco di spiegarmi meglio:

“In parole povere i falsi negativi possono esserci per tanti motivi. Tipo se lo fai troppo presto.”
“Oppure?” mi chiede Bet accucciandosi alle mie spalle e facendo scorrere gli occhi sullo schermo “Dai, ma cosa fai?! Lo chiedi a Google?”
“Ti sembro una ginecologa? Cercavo conferma... Diciamo che in linea di massima, da quello che so io, è molto raro un falso positivo, perché le cause sono più complicate e meno frequenti.”

Faccio scorrere le dita sul touchpad del pc di Jules: ispeziono ogni link che trovo, sperando di capire anche solo qualche parola e di trovare qualcosa a sostegno delle mie affermazioni. Sono sicura che qualcuno mi ha spiegato perché i falsi negativi sono più frequenti, ma non ricordo proprio chi. Soprattutto non riesco a rimembrare i casi in cui era possibile avere un falso positivo. E noi ora avremmo davvero un sacco bisogno di un falso positivo!

Esaminando la seconda pagina del motore di ricerca, sento Jules bofonchiare:
“Ti detesto quando fai la saccente!”
Poi la mia amica mora torna triste, sussurra: “Non posso essere incinta!”
Il silenzio si diffonde denso come la paura: per me e Bet è l’apprensione di non poter aiutare una delle persone più importanti della nostra vita. Per Jules il terrore di dover prendere una decisione. O di non poterla prendere. L’inquietudine di non sentirsi la donna che la vita la chiama ad essere. L’angoscia di ritrovarsi da sola a portare questo peso.
È un silenzio protratto più a lungo di quello che io posso tollerare e allora, nella speranza di risvegliare la mia amica dai suoi pensieri, le appoggio una mano sul ginocchio, suggerendo piano:
“Proviamo a farne uno nuovo. Poi, in caso, lunedì chiamiamo il ginecologo, okay?”
Lei annuisce con aria un po’ assente; alzandosi in piedi, si avvia verso il bagno e noi la seguiamo.
Una volta chiusa la porta alle mie spalle, Jules prende la scatola del test e me la porge, estraendo prima il bastoncino bianco che potrebbe confermare i nostri timori.

Facendo girare la confezione tra le mani, mi stupisco di trovarla ammorbidita e umida: controllo il ripiano su cui era appoggiata, ma sembra perfettamente asciutto, il che mi confonde ancora di più.
Inizio ad ispezionare attentamente il contenitore, cercando qualche scritta che possa illuminarmi mentre le mie amiche cominciano a battibeccare sull’indecenza insita nel fatto che Jules faccia pipì quando noi siamo nel bagno.
“Ma pensi di farla con noi due qui dentro?”
“Beh, capirai, lo faccio sempre!” risponde Jules sbottonandosi i pantaloni senza farsi sfiorare dal disgusto che avvolge la voce della nostra amica bionda.

“Che schifo, non puoi farla in un bicchiere e poi intingerci il test?”.
“Cioè, vorresti che facessi la pipì in un bicchiere in cui un giorno tu potresti bere e che ci lasciassi dentro per tre minuti questo candido stick, mentre noi restiamo a osservare il colorito delle mie urine per il tempo necessario a confermare che sono gravida?”
“Oddio, potrei vomitare!”
“Quindi posso farla?” domanda Jules inarcando le sopracciglia.
“Se ti pisci sulla mano giuro che mi sento male.”

Durante la loro discussione però i miei occhi restano fissi sulla scritta grigia quasi illeggibile sul lato della confezione che Jules mi ha passato.
“Jules, dove hai preso questo test?” chiedo attirando l’attenzione su di me.
“In farmacia.” ribatte lei calandosi i pantaloni e fissandomi come se fossi stupida.
Bet continua a dare alla nostra amica della schifosa guardandola di sottecchi, ma Jules non si lascia sfiorare: si siede sul wc, poi scarta il test dalla busta in cui è conservato.
“Sì, questo mi era chiaro, solo...”
“Sta zitta, devo fare la pipì su un bastoncino, mi serve concentrazione.” mi fa notare lei, zittendomi.

Perché nessuno mi lascia parlare? In questa scatola ci sono molte cose che non vanno e se ho ragione io, Jules è una vera demente.
“Jules...”
“Med, taci, non riesco a farla se parli.”
“È che...” provo un’ultima volta, cercando di porre fine alla ridicola serie di avvenimenti che potrebbe essere in atto, ma Bet si spazientisce. Forse solo desiderosa di vedere Jules riabbottonarsi i pantaloni, spingendomi fuori dal bagno protesta:
“Okay, basta, Med esci. Questa cosa è già abbastanza lunga.”
Poi si premura di sbattermi la porta in faccia, intenta a comunicare a Jules che se non la fa entro tre secondi si procura un catetere e ci pensa lei.
Vomito.

Girando sui tacchi rassegnata, tento di capire il mistero nascosto dietro la scatola che ho in mano. Mi dirigo verso la cucina per procurarmi qualcosa da bere che aiuti le mie facoltà cognitive, quindi contemplo la confezione intravedendo dei numeri nella scritta sbavata: accarezzando il cartone umido mi rendo conto che dove c’è l’inchiostro i numeri sono anche incisi e, aprendo il frigorifero di Jules per prendermi una coca, muovo l’oggetto per capire cosa ci sia scritto. Spostando lo sguardo all’interno dell’elettrodomestico, la mia attenzione finisce dritta su una scatola identica a quella che ho in mano.

Che è in frigorifero. Lo ripeto: in frigorifero.

Lo stupore sul mio viso diventa disapprovazione quando, abbandonata l’idea della bibita, avvicino a me la confezione ancora intatta e trovo, nello stesso punto in cui è stampata quella sbavata sull’altra scatola, una scritta chiara e pulita.
Jules è una grossa, grossa testa di cazzo.

Le mie amiche spalancano la porta del bagno proprio mentre richiudo lo sportello del frigorifero, ormai più che certa della stupidità che ha invaso il cervello di Jules in questa circostanza.
“Allora?” domando incrociando le braccia e lasciando che sul mio volto troneggi un'espressione indifferente quando Jules biascica:
“Non è chiaro…”
“Ti spiace elaborare?”
“Dice non interpretabile…” ribatte lei avvicinando lo stick al viso per esaminarlo meglio.
“Che significa non interpretabile?! O c'è la linea del positivo o non c’è…”

Questa del non interpretabile mi giunge nuova: ma perché nel nostro secolo anche i Test di gravidanza si devono complicare? Una volta era una questione di linee: una o due. Positivo o negativo. Punto. Niente fronzoli e niente terze possibilità di discutere di massimi sistemi. Se anche il test di gravidanza deve mostrarsi dubbioso sulla sua capacità di analizzare la tua urina, una che lo fa a fare? Cioè, il caso di Jules è traviato dal suo essere un'inetta, ma a sentire non interpretabile sembra che abbia chiesto alla Magica Palla 8 di dirle se diventerà mamma.

“Palla, il mio utero s'è fatto casetta per un marmocchio?” “Concentrati e rifai la domanda.”

Per rispondere alla mia confusione, Bet fa girare il bugiardino tra le mani e lo dispiega con cura, leggendo ad alta voce:
“Se la linea compare a sinistra il risultato non è interpretabile.”
“Oh, ma sta venendo fuori anche la linea di destra!” la interrompe Jules con voce tonante che reca una comprensibile nota di panico assoluto; la mia amica bionda mi lancia in faccia il foglietto illustrativo prima di afferrare il test con forza ed esaminarlo come se lei fosse un membro della Scientifica.
“Come cazzo è che prima mi dice che non lo sa ma ora mi accusa di essere inguaiata?”
“Strano davvero, mi chiedo cosa sia successo…” sibilo io accartocciando il foglio e spostando gli occhi da Jules a Bet, consapevole che nessuna delle due si sia fatta un'idea del perché il test stia dando i numeri.
“Jules, l'hai rotto!”
“Ma cosa dici?!”
Cominciano a strillarsi in faccia l'un l'altra, ignorando la mia presenza e dando il via ad una delle loro delicate liti a base di insulti; per una volta mi posso godere lo spettacolo.
“Per forza, dai! Qui non c'è scritto da nessuna parte che può segnare sia positivo che non interpretabile!”

Ah, questo test non contempla neanche il negativo? O sei gravida, o lui non lo sa? Ma che cazzo di test è?

“Leggi bene… ci deve essere per forza! Sei tu che sei analfabeta: non sai leggere neanche le istruzioni."
“Almeno io so usare i contraccettivi!”
“Imbecille, non è un iPad… i test di gravidanza non si rompono!”
A questo punto Jules ha assunto una colorazione tendente al fucsia, mentre Bet si è messa ad agitare le sue dita porcelline come eliche; poi si blocca come se le avessero spento un neurone e, con lo sguardo perso, biascica:
“Ehi, magari c'è un’applicazione che funziona come test di gravidanza…”
Alla sua affermazione mi rendo conto che, se non intervengo, Jules potrebbe soffocare Bet ostruendole la gola con lo stick. Quindi senza esitazione, attiro i loro occhi su di me esclamando:

“No, non si rompono.” incrocio lo sguardo di Jules “Ma scadono, deficiente!”
Il silenzio diventa la miglior ricompensa che potessi sognare; unito ai loro sguardi da triglia, mi regala i miei 20 secondi di gloria: se non fosse per il fatto che il dubbio che Jules possa comunque essere incinta sussiste a prescindere dal suo test scaduto, a questo punto potrei assaporare il gusto della vittoria. Ma - in qualche misura - so che non abbiamo ancora esorcizzato il fantasma della gravidanza e, se provo a mettermi nei panni dalla mia amica, mi vengono le vertigini: ad essere onesta mi vengono in ogni caso. Jules non può essere incinta.

Guarda, Dio, non è davvero il caso, credimi.

“Che vuoi dire?” la voce della riccia di fronte a me vibra di una ritrovata speranza e i suoi grandi occhi nocciola mi fissano intensi e confusi.
“Voglio dire che questo test di gravidanza è scaduto nel 2008, vale a dire quattro anni fa, rincoglionita!”
“2008?” mormora Bet stupita.
“Sì. Jules, quando cazzo hai comprato questo test?”
“Chi se lo ricorda! Ho pensato che averne qualcuno a portata di mano fosse utile. Sai, nel caso ne avessi avuto bisogno.”
“Sì, idea fantastica. Peccato che questa idea tu non l’abbia rinnovata di recente. Il test è scaduto, quindi può essere che non abbia funzionato in nessuno dei due casi!”
“Ma io come facevo a saperlo?”
“Per esempio controllando la data di scadenza e soprattutto non conservandolo in fondo al frigorifero.” le faccio notare, sventolandole la scatola davanti al viso.

“In frigorifero?” si indigna Bet “Jules, quello non l’avrei mai fatto neppure io!”
“Mia madre tiene sempre le medicine in frigorifero!”
“Dipende dalle medicine... e questo è un test, non un fermento lattico.”
“Senti, è molto probabile che il primo test che hai fatto abbia dato un falso positivo, visto che questo test non è più valido, e dato il risultato del secondo.” dico sospirando. Bet si fa più vicina a me, piantandomi un dito accusatorio sulla tetta, mentre afferma:
“Med, tu non ne sai un cazzo di queste cose…”

Sì, beh, pensavo che la mia ignoranza fosse stata assodata durante i primi quaranta secondi della nostra conversazione, ma non credo che per leggere una data di scadenza sia necessario essere informati.
Jules sembra contemplare l'affermazione di Bet per qualche secondo e la cosa mi indigna non poco: insomma, non sono un genio della scienza, ma non sono certo io quella che ha pisciato su due test di gravidanza scaduti!
Bet si allontana in direzione della sua borsa, estraendone l'iPad di J, che lei, appena può, ruba.

“Chiamiamo Leo.”
“Perché?! Non serve Leo per capire che se un test è scaduto da quattro anni è il caso di rifarlo…” puntualizzo con voce scocciata, venendo prontamente zittita da Jules che, sollevando una mano, afferma:
“Sì, ma tu di queste cose non capisci niente. Ci serve un parere informato. E meno stronzo…”

Borbottando irritata, mi siedo accanto a Bet che nel frattempo si è appollaiata sul divano e ha acceso Skype, cliccando prontamente sul contatto di Leo, segnalato come online.
Due squilli più tardi il viso scompigliato del nostro amico compare in tutto il suo splendore sul display dell' iPad: ci fissa contorcendo il viso  avvicinandosi il più possibile allo schermo un paio di volte.
Poi si ritrae a distanza ragionevole, si leva gli occhiali e comincia a massaggiarne le lenti col bordo della sua maglia rossa, dicendo:

“Oh, guarda, ho aperto il pc per guardarmi un porno e mi sono ritrovato un horror. Avete delle facce mostruose.”
“Tu guardi i porno?”
Mi rendo conto che sia una cosa piuttosto in voga tra i ragazzi, ma questo è un particolare che non avrei voluto sapere; personalmente chiuderei qui la faccenda, ma le mie amiche sembrano essere di un parere diverso. Bet inizia un dialogo che ha del surreale, domandando:
“Con Skype acceso?”
“Ho anche la luce accesa, se è per questo…”

Io persisto nel provare un enorme senso di disgusto, ragion per cui lo paleso, borbottando:
“Che schifo, guardi i porno.”
“Li guardano tutti. Li guardo anche io.”
“Ovviamente, Jules…”
“Scusa ma se ti chiama qualcuno mentre sei lì col pipino…”
“Bet, smetti di parlare…” la minaccio, cercando di porre fine al dialogo delirante che si sta palesando di fronte a me, ma ottenendo in risposta solo un terzo dito, accompagnato dal solito Tu devi scopare di più.
Fortunatamente Leo sembra averne avuto già abbastanza di noi tre, quindi, inforcando gli occhiali, chiede spazientito:
“Che succede?”
“Cosa ne sai di test di gravidanza?”

“Perché?”.
Momento di silenzio.
“Ditemi che nessuna di voi si è fatta ingravidare…”
Noi tre optiamo per tacere, mostrandogli le nostre facce di bronzo.
“Chi è l'imbecille?”
Io e Bet additiamo prontamente Jules senza spostare gli occhi dal display.
“Chissà perché pensavo fosse Med…”
“Sei piacevole come uno sbiancamento anale, Leo…”
“Ti sei fatta lo sbiancamento anale?!”
“Che vacca!”
“Non mi sono fatta lo sbiancamento anale, Jules... possiamo tornare sul motivo della nostra telefonata?”

Senza perdere troppo tempo Bet inizia ad esporre la situazione a Leo che, con aria professionale, ascolta ogni dettaglio, annuendo ma lanciando occhiate di rimprovero verso Jules.
“Ho sempre pensato che la più scema tra voi fosse Bet” afferma il mio amico affondando le mani nei suoi capelli neri “Grazie per aver confutato la mia tesi.”

Poi, per aggiungere carne al fuoco, con grandissima nonchalance Jules rivela l’ennesimo particolare che invalida il primo test, confessando di averlo fatto la mattina prima del servizio di catering senza aver avuto il tempo di controllare il risultato: ovviamente ottiene in risposta da noi tre un corale “Testa di cazzo”.

“Non avevi tre minuti per una cosa del genere?” domanda Bet spazientita e sconvolta dall’atteggiamento di Jules.
“No, perché Jack è arrivato prima per andare a prendere Med...”
“E non potevi portartelo dietro?”
“Avevo paura di leggere il risultato. Ho preferito rimandare l’angoscia alla sera...”
Tutta questa storia sembra una grossa presa per il culo; se non fosse per il ritardo nel ciclo, a questo punto credo che uno di noi si sarebbe assunto l’onere di prendere a sberle Jules fino a riattivarle le sinapsi.
Restiamo tutte in silenzio per qualche secondo, attendendo il verdetto di Leo con gli occhi fissi sullo schermo dell’ iPad.

“Sentite, odio dare ragione a Med, ma non c’è un solo motivo per considerare il test attendibile. Suggerisco che cerchiate una farmacia di turno e troviate il modo di rassicurarmi sul fatto che non dovrò assistere al parto di Jules...”
“Non vuoi?!” chiede la mia amica riccia, indignata.
“Se vedo la tua vagina viro all’omosessualità.”
“Almeno potresti dire di averne vista una...”
“Travestito.”
“Segaiolo.”

Bet e io restiamo in silenzio ad assistere al momento di alta intelligenza per qualche secondo; poi la bionda al mio fianco piazza una mano sulla bocca di Jules mentre, con stizza, annuncia:
“Finitela prima che mi incazzi sul serio. Ora, tu - ordina indicando Leo - grazie per l’aiuto. Torna pure alla tua pornografia. Un giorno ti cadrà il pisello…” quando Bet decide di diventare autoritaria fa un po’ paura. “Voi due alzate il culo e andiamo a comprare questi cazzo di test. Mi sta venendo l’emicrania.”
La frase si conclude con la mia amica che, alzandosi di scatto, si dirige verso la porta, seguita da una parzialmente sconvolta Jules.

“Devo andare prima che si trasformi nel Babao!” dico a Leo alzandomi in piedi e accingendomi ad interrompere la chiamata, ma lui mi blocca, chiedendo impaziente:
“Aspetta, pranziamo insieme in settimana?”
La proposta mi lascia perplessa, sia perché noi due pranziamo da soli in rarissimi casi, sia perché penso che il nostro equilibrio sia ancora troppo precario per sopravvivere a un pranzo a due. Ma so di dover fare uno sforzo e che non ho ragione per rifiutare: lui ha già fatto la sua parte, ora tocca a me.
“Volentieri… Chiamami tu che decidiamo dove e quando.” Rispondo esagerando un sorriso. Poi, salutandolo, corro fuori dalla porta per raggiungere le mie amiche.

Un’ora più tardi mi ritrovo nuovamente intrappolata nel gabinetto rosa di Jules, con un sacchetto stracolmo di confezioni di test di gravidanza pieno di stick che, grazie a Dio, segnano “negativo”.
Io non so se capita a tutte le ragazze di chiudersi nel bagno con le proprie migliori amiche per fare test di gravidanza in serie, ma questo evento mi segnerà per la vita. L’esperienza si è svolta in sequenza, tipo catena di montaggio, in cui io e Bet lanciavamo i test con frenesia, mentre Jules ci faceva pipì sopra e li gettava alle sue spalle, urlando:

“Veloci però, perché una volta che apro i rubinetti io non riesco a fermarmi."

Inutile dire che nella mia testa il tutto era accompagnato da Momenti di gloria come sottofondo musicale.
 
“Il tuo utero è salvo.” le dico sospirando.
“Cazzo ragazze che paura! Non sono pronta a diventare madre!” esclama lei sdraiandosi sul pavimento del bagno con lo sguardo fisso sul soffitto. “Credo di aver imparato una cosa importante.”
“Sarebbe?”
“Che non voglio il figlio di Cucciolo.” l’affermazione è quantomeno criptica e sottintende un’implicazione che non vorrei dedurre per libera interpretazione; per cui, inginocchiandomi accanto a lei, la incoraggio a spiegarsi meglio.

“Forse è il momento che faccia due chiacchiere col mio ragazzo.”
“Jules, secondo me stai esagerando. Hai appena avuto un’esperienza stressante, secondo me ti stai facendo sopraffare dall’irrazionalità."
“No, invece. È proprio la mia testa che parla al posto del cuore: lasciate stare i problemi relativi all’età, al fatto che sono immatura e non ho un lavoro... Ciò che mi tormentava più di tutto era il pensiero di dover dividere la mia vita con una persona inaffidabile come lui. Pensavo che il suo bambino io non lo volevo... Non è un bel pensiero quando stai con qualcuno da così tanto tempo."

“Stai dicendo che non immaginavi il tuo futuro con Cucciolo?” domando confusa dall’improvvisa epifania che sembra aver attraversato la mia amica.
“Sto dicendo che sentivo di non volerlo. Oppure sto solo dicendo stupidaggini ed ero solo fottutamente terrorizzata.”
Jules si solleva da terra con uno sforzo sovrumano, dondolandosi sul coccige come se fosse una tartaruga ribaltata sul carapace.

“Una cosa è certa: non farò più sesso fino al mio trentesimo compleanno.”

“Che ne diresti di darti ai contraccettivi?” suggerisce Bet raccogliendo tutte le cartacce che abbiamo sparso per il bagno mentre io mi trascino verso la porta, seguendo Jules in soggiorno.
“Secondo me sarebbe più semplice se non comprassi test del paleolitico, se non li surgelassi e se non li facessi quando non hai modo di guardare il risultato per ore.”
Quando, lasciandosi cadere sul divano, la mia amica si limita ad annuire con aria assente, io capisco che sta già stilando una lunga lista di ragioni per cui è il caso di rivalutare il ruolo di Cucciolo nella sua vita. Jules è così: si porta dietro pesi morti e realtà controproducenti finché non ci sbatte il muso così forte che inverte la rotta.
Ma quando inizia a soppesare qualcosa non la fermi più e sembra che lo spavento di stasera abbia fatto scattare qualche interruttore nel suo cervellino.
Diventa irrequieta per qualche minuto, sollevandosi dal sofà e riordinando ogni soprammobile posato nel suo salotto mentre io e Bet la lasciamo fare in silenzio fino a che, una volta che sembra essersi calmata, ci chiede di restare a dormire, accantonando completamente il problema e rifugiandosi con noi nel caldo della sua camera.




Give me a Break

Alt! Livell numero 1, superato. Se avete resistito durante i test di gravidanza, siete delle grandi e avete vinto il passaggio al livello successivo. Caramelle da regalarvi la Direzione non ne ha, ma vi consiglio di sfruttare questo momento per procurarvi dell'acqua e, come sempre, per fare pipì. La strada che conduce alla fine è ancora bella lunga!
La Direzione ritiene opportuno che il lettore faccia anche un po' di rilassamento muscolare: ci tendiamo alla vostra salute.





Sollevarmi dal letto di Jules si prospetta una delle cose più faticose l’indomani mattina, ma è domenica: volente o nolente, oggi non posso nascondere la testa nella sabbia.
Perché è domenica. Quella domenica. La giornata in cui mi recherò a casa dei miei per pranzo e dovrò decidere se sono donna abbastanza da ferire consciamente la mia famiglia.
Ho paura, è inutile negarlo: fino a ieri potevo comportarmi come se il tempo si fosse preso una pausa dallo scorrere, ma oggi non c’è più modo di rimandare a più tardi i pensieri.
Fare i conti con me stessa è qualcosa che ho procrastinato senza troppi problemi ogni giorno e, mentre abbandono l’appartamento della mia migliore amica, realizzo che non ho ancora idea di che cosa potrò dire ai miei genitori. La verità? La verità può essere relativa. Quella che per me è un dato di fatto, per un altro può essere un’enorme cazzata.
Ad esempio, ammettere che voglio lasciare l’università perché non sono portata per la biologia per me è stata una piccola conquista, ma sono piuttosto certa che, per i miei, sarà la peggiore delle sconfitte. L’ennesimo fallimento. Il peggiore. Ma la domanda è: leggendo la delusione nei loro occhi, cambierò idea anche io?

Infilo la chiave nella toppa di casa cominciando a pensare che continuerò a mentire un altro po’: non sarà un comportamento onesto o da figlia dell’anno, ma mi farà guadagnare un altro po’ di tempo. Io, di tempo, ne ho disperatamente bisogno.
Aprendo la porta, mentre i pensieri sui miei genitori mi ribollono tra le sinapsi, incontro il viso del mio coinquilino che, con la bocca colma di cibo, cerca di sorridermi senza far debordare il boccone che sta tentando di ingoiare.
Contorcendo la faccia in una smorfia poco affascinata, assorbo l’immagine di Alex che, seduto sul bancone della cucina, trangugia la sua colazione come se avesse i minuti contati: indossa ancora i pantaloni del pigiama e il suo torso è avvolto in una t-shirt color carta da zucchero.
Mi osserva curioso quando, levandomi la giacca, gli dico:
“Se mi ammazzi ora, dopo ti faccio un bonifico di 3.000 euro…”
Alex ammicca posando la forchetta: ha sempre l'aria di chi non sa proprio lasciarsi stupire dalle mie uscite idiote e, indicandomi, risponde:
“Nel tuo stato di morta?”
“Io tutto posso… anche da morta.”
“Lo farei serenamente, se non fosse per un piccolo impedimento…”
Parlando abbandona il piatto sul ripiano della cucina, scendendo dalla sua posizione sul mobile per procurarsi un tovagliolino con cui asciugarsi la bocca.
“Sono troppo grossa perché tu possa sbarazzarti del mio cadavere?”
“No… ora che mi ci fai pensare anche quello potrebbe essere difficoltoso… Ma io mi riferivo alla mia coscienza.”
“Tu non ce l'hai una coscienza.” ribatto allontanandomi dalla porta per avviarmi verso il bagno con il proposito  di rendermi almeno presentabile. Cosa che, tanto, per mia madre non sono mai. Alex mi fissa, seguendo ogni mio passo, cercando di decifrare i miei respiri: ormai ho imparato a capire quando sta provando a farmi un'ecografia all'anima o quando prova a leggere i miei pensieri, ma la cosa comincia a diventare meno molesta.
“Allora, riguardo al mio omicidio? Abbiamo un accordo?”
“No. Con i tuoi pidocchiosi 3.000 euro non ci pagherei neppure le spese legali.”
“Non ti serve un avvocato. Sei colpevole.”
“Solo perché mi hai incastrato!”
Il broncio sulle sue labbra è così comico che non riesco a trattenere una risata, sbattendo la porta del bagno e cercando di darmi una mossa.

Poco dopo mi ritrovo in camera, inveendo contro il mio armadio che sembra essersi inghiottito qualche mio indumento; Alex, attirato dal mio inquinamento acustico si materializza sulla porta, appoggiandosi allo stipite per ammirarmi mentre lancio per aria il 75% dei miei vestiti.

“Med?”
“Dove cazzo è quell’agghiacciante gonna?”
“Med...”
“L’avrò buttata. Ma io non butto mai niente... Deve essere qui.”
“Sofia.”
“Sono una accumulatrice compulsiva? Morirò soffocata dai miei orribili vestiti? Sarebbe ottimo: avrei un alibi per evitare le domande cretine delle persone che mi assillano...”
“Scintilla!”
Al suo richiamo mi blocco, voltandomi verso di lui e scrutandolo come se potessi spostarlo con la forza del pensiero. Non ce l’ho con lui, ma sono agitata: entrando per fare domande Alex si sta mettendo in pericolo. Una femmina isterica è una femmina che riversa la rabbia su tutto ciò che è vivo.

“Mi dici che cosa sta succedendo?”
“Devo andare a pranzo dai miei...”
“Fai sempre così quando ti invitano a mangiare? Perché hai l’aria di una psicopatica.”
“Alex... ti prego, lasciami preparare in pace. Ho fretta e sono nel panico.”
“Lo vedo. Mi spieghi perché?”

Lui e la sua faccia curiosa sono una splendida visione, non lo nego, ma non avendo tempo per la discussione riprendo a smistare gli innumerevoli capi sparsi sul mio letto - praticamente tutti di colore nero, ma che io distinguo al tatto. Purtroppo per me, però, Alex sembra volere una risposta: mi afferra per la coda e mi tira delicatamente verso di sé.
“Cosa fai? Violenza domestica!”
Il ragazzo alle mie spalle mi ignora e mi invita a voltarmi verso di lui, accarezzandomi la testa e scrutando serenamente nei miei occhi isterici:
“Pranzo dai tuoi. Elabora, Scintilla...”
“Vogliono discutere la mia attuale situazione accademica.”

Forse se gli dico la verità si leva dalle scatole.
“Ah, ora capisco...”
“Capisci?” domando stringendo le dita attorno al suo polso per allontanarlo dai miei capelli.
“Capisco perché ti sei trasformata in un mostro psicopatico e capisco che, se ci tengo alla vita, devo uscire da questa stanza rapidamente.” risponde dandomi una pacca sul sedere e facendo dietro front per avviarsi verso la porta.

“Tutto qui?”
“Sì, tutto qui. Tu sei polemica e pure parecchio stronza. Io alla mia vita ci tengo. Preferisco ricordarti sexy e accaldata come ieri, piuttosto che pazza e sanguinaria.”
Alla menzione del nostro incontro di ieri le mie ovaie fanno qualche scintilla; per un attimo penso che il sesso mi permetterebbe di allentare la tensione: però, con tutta la fatica che abbiamo fatto, preferisco dedicarmi a quella attività con Alex quando non sono in preda al panico e non mi sento Ursula, la strega de La Sirenetta.
Il mio coinquilino pone fine ad ogni scambio verbale abbandonando tranquillo la mia stanza in favore della sua. Per quanto stupita sia dalla sua remissività che dalla facilità con cui è evaporato, ne sono davvero contenta: il tempo stringe e Alex è una distrazione piacevole ma, in questo istante, sconveniente.

Arresa all’idea che, indipendentemente da ciò che indosserò, mia madre avrà da ridire, mi infilo un anonimo vestito nero lungo fino al ginocchio, accoppiato ai miei inseparabili leggings contenitivi Calzedonia - che pushano anche l’utero ad altezza polmoni - e mi rassegno al mio destino, portando le mie nervose membra alla porta di casa.

Alex, sentendomi abbassare la maniglia, si sporge solo con la testa fuori da camera sua:
“Ci vediamo più tardi, Scintilla.”
“Devi uscire?”
“No...”
“Mi aspetti qui?”
Non so perché, ma so che vorrei tanto trovarlo qui al mio ritorno: per un secondo temo di essermi rammollita, poi lui annuisce dandomi uno strano senso di conforto e allora ne ho la conferma. Sto perdendo i colpi.

“Devo andare.”
“Okay...”
Esco dalla porta, mi volto nella sua direzione un’ultima volta, implorando:
“Dimmi che andrà bene.”
“Andrà. Punto. Prima ci vai, meglio è.”
“Sei una merda come life coach...”
“Infatti faccio il cuoco.”

Cosa me ne faccio di un maschio che non riduce le mie ansie non lo so, ma sono troppo in ritardo per farmi trascinare in un’altra conversazione con Alex; insoddisfatta, chiudo la porta alle mie spalle mentre la risata di Alex mi saluta.

Quando entro nel cortile di casa dei miei la prima cosa su cui poso gli occhi è la macchina (praticamente sfigurata dalle ammaccature in ogni dove) di Michele e, appoggiato al cofano, intento a giocare col suo smarphone, se ne sta mio fratello: jeans, felpa rossa col cappuccio, con una scritta gialla stile cartoon che recita Bazinga!, Tiger bianche che hanno visto giorni migliori e espressione indifferente. È conciato come un barbone, come ogni volta: a dispetto dei suoi trent’anni, sembra essersi vestito da 012. Ma mio fratello è così: intellettuale e lontano da ogni convenzione.

Parcheggio dietro di lui e, scendendo dalla macchina, il rumore delle mie scarpe contro la ghiaia sembra distrarlo dal suo telefono perché pochi secondi dopo fa scivolare l’oggetto nella tasca posteriore dei pantaloni, voltandosi verso di me:
“Ciao fratello...”
“Potresti chiamarmi Sheldon.”
“Ti sei dato al role playing di The Big Bang Theory?”
“No, penso solo che si siano ispirati a me per quel personaggio.”
“Per i disturbi di personalità o per la possibile forma di autismo?”
Lui sceglie di non cedere alla mia provocazione e si avvia insieme a me verso la porta di ingresso.
“Controllavi la posta, Fisico teorico di ‘sto cazzo?”

Sì, io non riesco a prendere una laurea triennale in Scienze Biologiche ma ho un fratello laureato con menzione d’onore in Fisica.

“No, giocavo ad Angry Birds...”
“Non capisco come abbiano potuto dare la laurea a uno come te.” borbotto infilando in borsa le chiavi della Circe. Mio fratello, assoluto sostenitore del concetto "la scuola italiana fa schifo", affonda le mani in tasca, rispondendo serio:

“Perché in questo paese di vecchi danno troppa importanza allo studio e troppo poca al cervello delle persone. E io di cervello ne ho tanto. Il titolo è irrilevante, mi ci pulisco il culo con quello. Il mio valore lo dimostro con i dati, non con i pezzi di carta.”

Di che dati stia parlando non ne ho idea, visto che del suo lavoro io non ci capisco nulla, ma resta il fatto che almeno lui il pezzo di carta l’ha preso. Facendo, tra l’altro, sfigurare me, fatto di cui spero un giorno di farmene una ragione.
Evitando di proseguire il dibattito, allungo la mano per suonare il campanello, ma lui mi ferma prontamente afferrandomi un polso.

“Aspetta, ti devo parlare.”
Negli ultimi cinque anni Michele e io abbiamo trovato una specie di equilibrio, basato su un rispetto reciproco probabilmente dovuto al fatto che non siamo più due ragazzini, ma il nostro rapporto raramente implica momenti di confronto intimo e, quando succede, non è mai un buon segno.
A nessun secondogenito piace doversi sorbire la paternale da parte dei fratelli maggiori. A nessuno. È umiliante: ti fa sentire doppiamente in difetto e sotto esame.

“Senti, sei consapevole del perché di questo pranzo, vero?” mi chiede sicuro, senza mostrare troppa preoccupazione.
“Sfortunatamente sì; devo anche ammettere che vederti qui oggi mi lascia un po’ perplessa.”
Pensavo che lui fosse dalla mia parte, o almeno lo speravo. Ma il fatto che sia qui mi fa temere il contrario.
“Perché non hai afferrato che io sono qui per aiutare te.”
“Che vuol dire? Non è una guerra, non ho bisogno di aiuto...”

Stronzate, ne avrei bisogno eccome.

“Se io fossi al posto tuo lo sarebbe. Io non soccomberei così. Ma tu, diversamente, cerchi sempre di accontentarli per non doverli contraddire."
La voce di mio fratello lascia trapelare un lieve disappunto, ma i suoi occhi mi sfidano a trovare il coraggio di contraddirlo, cosa che - ovviamente - non posso fare.
Fisicamente Michele è una specie di copia testosteronica di me (anzi, lui direbbe che io sono la brutta copia di lui, perché lui è nato prima): ha solo i capelli più corti, qualche pelo più folto e trenta cm in più di altezza.
Ah,  non ha neppure il culo grosso come il mio: lui ha delle caviglie da ballerina fenomenali e si vanta spesso delle sue mani nobili, affusolate come quelle di tutti i chitarristi. Sì, mio fratello ha anche ereditato il gene artistico di mio padre, quindi suona divinamente oltre alla chitarra – in ogni sua forma o declinazione – altri tre strumenti, tra cui il sax tenore, che ho cercato di fregargli più volte, rischiando l’embolo perché non sapevo come suonarlo e sputacchiandoci dentro.

Sono certa ritenga che parte della sua genialità risieda nell’armonia dei propri arti. Ma i suoi occhi sono lo specchio dei miei: stesso taglio, stesse espressioni, solo che i suoi sono color cioccolato, non verde insipido.

“Per te è facile, tu consideri sempre solo te stesso, io non posso fare come te.”
“Smetti di condurre la tua vita in base a quello che rende felici gli altri!” afferma estraendo un pacchetto di Marlboro Medium morbide dalla tasca destra dei jeans per portarsene una alla labbra, offrendone un’altra a me e accendendole rapidamente con il suo adorato zippo.

“Non posso entrare in quella casa dandogli una delusione del genere...”
“Ma tu quella laurea non la vuoi!” la sua voce si alza impercettibilmente per un attimo, prima che sospiri profondamente e aggiunga:
“Una volta varcata quella porta io non dirò nulla, a meno che non sia strettamente necessario... Però una cosa te la dico ora: se continui così finirai per deludere sia te stessa che loro.”
Mio fratello tira una lunga boccata di sigaretta, restando in attesa di una mia risposta, ma più lui parla, più mi rendo conto che non riesco a fargli comprendere perché per me è così difficile.

“Michele, tu non capisci...”
“Dici sempre così, però poi non cerchi mai di spiegarti.”
Alla sua affermazione mi gelo. Se sei mesi fa mi avessero detto che avrei avuto una conversazione del genere con mio fratello probabilmente mi sarebbe venuto il singhiozzo per lo stupore: il problema è che lui ha ragione. Parlare della cosa in generale mi crea un disagio così prepotente che la fuga è la soluzione più facile. Ovviamente questo implica non spiegare neppure le mie ragioni: insomma, io se devo evitare lo faccio per bene, non certo a metà.
Come può mio fratello, così orribilmente bravo in quello che fa, capire che io sono così incapace da non riuscire neanche a finire una banalissima triennale in Scienze biologiche? Soprattutto come gli spiego che manco di attribuiti al punto di non riuscire ad ammettere che sono così limitata. E inferiore. E stupida. E inutile.

Come dici a tuo fratello, Fisico teorico, che magari si aspettava tante cose dalla sua sorellina stronza, che tu hai fallito?

“Sofia, posso chiederti una cosa? Hai sempre detto di voler essere medico, ma il perché me lo sai spiegare?”.
È una domanda talmente semplice, eppure non me l’aveva fatta nessuno. In realtà non me lo sono posta neppure io, il quesito; mentre guardo negli occhi consapevoli di mio fratello, mi trovo a ipotizzare che fare il medico non fosse neanche un sogno. Forse era solo un modo diverso di fuggire. Era una risposta facile e sicura. Era uno scudo conforme alle aspettative per non dover chiedere a me stessa cosa cazzo sapevo davvero fare. E adesso, che sono costretta a chiedermelo, mi trovo a non averne idea. Butto la sigaretta fumata solo a metà, quasi in segno di resa. Poi, evitando il suo sguardo, borbotto:

“No, non credo. Probabilmente non è mai stato quello che volevo.”
“E allora sai cosa devi fare.” sentenzia pacifico e sospetto che le cannette che si faceva all’università con i suoi amici nerd abbiano avuto effetti devastanti sui suoi neuroni geniali.
“Potresti essere più prolisso, sai, per noi umani...”

“A te della scienza non te ne frega nulla. Sai di cosa ti sento parlare con passione? Di libri, di musica, di cinema...” mi spiega lui, ma io lo interrompo, dicendo:
“Quelli sono hobby!”
“Chi l’ha detto che da un hobby non può nascere una professione?” mi domanda sicuro di ogni parola, per poi proseguire dicendo:
“Senti, non per essere crudo, ma tu stai alla scienza come il ciclo sta ad uomo.”
“Beh, ma fai cagare!” protesto alla sua equazione, ma lui prosegue senza mostrare considerazione per il mio disgusto.
“Fatti un paio di domande e smetti di lasciar decidere loro per te.”

Poi, senza darmi modo di lamentarmi per l’ennesima volta della mia terribile situazione, spalanca la porta di casa dei nostri genitori annunciando:
“Madre, Favorite Son è giunto a te! E ha un sacco voglia di cotoletta.”
Mio fratello è una fogna.

Mio padre ed io lo chiamiamo Figlio preferito perché riesce ad intortare mia madre come vuole: quando Michele fa gli occhi da cerbiatto, mamma si scioglie. Sempre. Senza eccezione.

I nostri genitori ci accolgono con il solito entusiasmo e, dopo che mia madre ha puntualizzato che siamo entrambi vestiti come due reietti della società ma che ci vuole bene ugualmente, ci invita a prendere posto a tavola. In tutto questo mio padre non proferisce parola escluso un sussurrato:
“Buona domenica, figli latitanti.”

Frecciatina n°1: check.

Per fortuna la prima mezz’ora di conversazione viene monopolizzata da mio fratello che, a dispetto della confusione e del disinteresse di tutti, si premura di intavolare un monologo sull’origine dell’universo, divagando poi sui neutrini. Intanto io e papà divoriamo la nostra porzione di lasagne, fingendo di non percepire lo sguardo di rimprovero di mia madre che si sposta da lui a me.

La logorrea di Michele, però, viene interrotta quando passa a qualcosa chiamata “Teoria delle Stringhe” dal vocione di papà che, schiarendosi la gola, dichiara:
“Non ho capito niente, ma va bene lo stesso. L’importante è che questa non fosse una delle tue introduzioni per poi arrivare a chiederci un prestito per pagare il commercialista.”
L’affermazione sulla tendenza a sperperare denaro che affligge mio fratello dalla nascita sembra sortire i suoi effetti perché Michele, borbottando “non stavolta”, smette di delirare prendendo a sorseggiare la sua birra.

Dal breve silenzio che si diffonde sul nostro pranzo capisco che è arrivato il mio turno e a darmi ragione ci pensa prontamente mia madre.

“Sofia...”

Cazzocazzocazzo.

“Come sei messa con gli esami?”

Cazzommerda Cazzommerda Cazzommerda.

Al quesito di mia madre, papà appoggia la forchetta sul bordo del piatto, deglutendo con forza, porta gli occhi su di me e attende.
Non sono pronta a mettere le carte in tavola; non me la sento di vedere dipinta sui loro visi la totale perdita di fiducia nei miei confronti.

Quindi, lanciando un’occhiata furtiva a mio fratello, opto per non dare una risposta.
“Mamma, la sessione è a giugno. Gli esami ancora non si possono fare.”
“Va bene, ma come sei messa? Quando chiedi la tesi?”
Michele nasconde una risata dietro alla bottiglia di birra, divertito dalla abilità di mamma di vincere contro ogni mio tentativo di fuggire dal problema e io comincio a sentire caldo.
Non glielo posso dire. Non c’è verso che io trovi il coraggio di essere onesta, sputtanandomi così.

“Non la chiedo.”

Oh.

Tre parole e l’inferno è pronto ad aprirsi.
Mio fratello rischia di strozzarsi con la birra che gli va di traverso uscendogli dal naso; il sopracciglio sinistro di papà schizza verso l’alto come ogni volta in cui si incazza in modo potente e mia mamma assume un colorito cremisi. Ho sterminato la mia famiglia con poche parole.

“Che vuol dire?”
Ormai il danno è fatto: non so quale neurone nella mia testa abbia fatto cilecca, ma a questo punto almeno quella parte di verità è fuori. Tanta fatica per salvarmi da questa risposta e, in pochi giorni, sto ammettendo la verità con cani e porci.

Mamma resta con la bocca semi aperta ad attendere una spiegazione: a questo punto, non posso più salvarmi.
“Mi dispiace, so che non capirete e che non avreste mai voluto sentirmelo dire, ma vi ho detto un sacco di balle...” mentre mostro la mia disonestà con le persone che hanno dato tutto per me sento la coscienza che mi si blocca in gola e si scioglie in lacrime che, in pochi secondi, mi riparano dalla tortura delle emozioni dipinte sui loro volti.
“Non mi mancano pochi esami. Me ne mancano dieci.”

“Oddio! Come quel ragazzo del telegiornale che ha comunicato ai suoi la data della laurea e poi è venuto fuori che non aveva fatto neanche un esame!”

No, va beh, non sono arrivata a quel punto. La laurea non sarei mai stata in grado di simularla, io. Mia madre esagera sempre.
“Aspetta, mamma, lasciala parlare.” Michele cerca di stemperare la tensione, ma quello che mi terrorizza davvero è il silenzio di mio padre. Mutismo che viene rotto dalla sua voce gelida che ordina:

“Avanti, spiega.”

Facendo un respiro enorme, sviscero tutto, trattenendo le lacrime perché peggiorerebbero solo le cose e pregando mia nonna di palesarsi ora, infondendo un po’ di clemenza nei miei genitori. Insomma, si mette in mezzo in momenti inopportuni, che almeno venga in mio aiuto adesso!
Tentenno quando arriva il momento di spiegare cosa mi sta divorando dentro ma, all’espressione confusa di Michele, mi è chiaro che non posso far capire agli altri qualcosa che non comprendo neanche io.
Quando smetto di parlare, lo shock è talmente evidente che potrebbe compattarsi in forma di uomo e sedersi tra i miei genitori.

Poi, quello che mi attendevo dall’inizio del pranzo, avviene: mia madre scoppia in lacrime, chiedendomi se sono impazzita.
Me lo domando ogni giorno anche io, quindi scelgo di restare in silenzio sperando che col passare dei secondi loro riescano ad incassare il colpo.
“E questi anni hai intenzione di buttarli via così?”
“Dai papà, non ha buttato via niente. Ha fatto un errore. Un errore per non deludere voi, ma ora sta cercando di essere onesta.”

Per la prima volta in ventiquattro anni vedo mio fratello proteggermi e la cosa mi fa sentire al sicuro. Per poco, ma è comunque piacevole.
“Quindi ora è colpa nostra?”
“Papà, mi dispiace. Credimi, non avrei mai voluto darvi questa notizia.”
“Infatti sei riuscita a tacerla per un bel po’ di tempo.”

Touché.

All’accusa non posso controbattere: l’unica cosa che riesco a fare è abbassare il viso, imbarazzata e colpevole.
“Quindi? Che cosa vorresti fare?” domanda mia madre soffiandosi il naso mentre i suoi occhi verdi brillano di dolore. E io sento il cuore darmi della vacca per aver fatto piangere la mia mamma.

Che figlia di merda.

Solo che proprio la mamma mi ha fatto l’altra temutissima domanda, ma io a quella proprio non so rispondere.
“Vuoi iniziare un’altra università? Se è quello che vuoi va bene, Sofia. Ho solo bisogno di sapere che starai bene.”

Mia madre è una donna che non si merita una figlia di merda come me: di fronte a quello che le ho appena confessato, lei riesce a darmi una seconda possibilità. Ma io non me la merito. Soprattutto non posso dirle di sì, perché io non so cosa voglio fare. Non so neppure se ho la voglia di ricominciare dall’inizio.
“È questo il motivo per cui non ve lo avevo detto.” rispondo senza alzare il viso “perché non ho idea di cosa voglio fare da grande.”

“Sei già grande, Sofia.”
“Lo so, mamma. Ma non so che altro dirvi se non che mi dispiace”

La mia famiglia cade per l’ennesima volta in un sofferto silenzio, intramezzato solo dai singhiozzi soffocati di mamma e il mio desiderio di essere inghiottita dall’inferno torna prepotente.
Non era così che doveva andare: non avrei dovuto confessare tutto ora, quando ancora non sono in grado di difendere la mia causa.
Mio padre si alza in piedi di scatto, spingendo indietro la sedia con forza, attirando l’attenzione di tutti noi su di lui: il sopracciglio sinistro ad altezza vertiginosa e la delusione cristallina sul viso.

“Mi dispiace, ma non è abbastanza. Le tue scuse non sono abbastanza e io sono troppo vecchio per mantenerti ad un’altra università.” dichiara, rafforzando il nodo che mi stringe lo stomaco in una morsa di ansia “se vuoi la laurea, finisci Biologia. Diversamente, chiarisciti le idee. Trova un’alternativa alla tua vita, perché il tempo passa e tu sei adulta. È ora che ti decidi una volta per tutte. Sofia, trova una risposta alla domanda di tua madre e fallo in fretta.”
“Daniele, non essere irragionevole...” lo interrompe mamma, ma lui si rifiuta di tacere ancora.
“No, Eleonora. Io amo i miei figli più di ogni altra cosa, ma non permetterò a Sofia di continuare ad approfittarsi di me. Basta con le bugie. Basta con i silenzi. Ora le carte sono in tavola e io non sono un Bancomat: pretendo di sapere che progetti ha.”

Poi, quando si volta verso di me, la sua voce vira da dura a ferita.

“Non avrei mai pensato che proprio tu potessi farmi sentire come l’ultimo uomo della tua vita. Io ti voglio bene e non ti volterò le spalle. Ma d’ora in avanti la mia fiducia te la devi guadagnare."

Eccola la frase che ogni figlio teme: hai perso la mia fiducia.
Quella è l’affermazione perfetta per far sentire un discendente come un vero verme. Ma io me lo merito, perché la loro fiducia l’ho tradita. L’ho tradita con i miei silenzi, ma non avrei mai voluto ferirli.
“Vai a casa, prenditi il tempo che vuoi e capisci che donna vuoi essere. Dovrò convivere con l’idea che mia figlia ha rinunciato all’occasione di avere un titolo di studio migliore del mio, ma non starò in silenzio mentre tu non concludi niente. Voglio che tu sia felice, voglio che tutti noi siamo felici: se per farlo devo costringerti a guardarti dentro, lo farò."

Il cuore mi si ferma con prepotenza quando lo vedo lasciare la sala da pranzo e mia madre si alza in piedi per seguirlo:
“Sofia, ne riparliamo. In questo momento è meglio se ci lasciate da soli."
“Mamma...”
Si volta per incontrare il mio viso e vorrei tanto non essere venuta qui oggi per non essere la responsabile di tutte le lacrime che non smettono di scendere dai suoi occhi.
“Mi dispiace.”
“Lo so.”
E abbandona la sala da pranzo in favore dello studio di mio padre, nel quale entra, affermando:
“Forse la dobbiamo far ricoverare. Guarda che è un po’ che è strana. Nella tua famiglia di pazzi ce ne sono tanti, magari è quello...”

Coprendomi il viso con le mani faccio un sospiro affaticato, lasciando che mio fratello recuperi la mia borsa e mi accompagni alla macchina.
“Non è andata così male.”
“Fottiti.”
“Poteva andare peggio. Potevano farti internare davvero.”
“Forse lo faranno...” ribatto aprendo la portiera della macchina “Grazie per essere stato dalla mia parte.”

Lui sorride piano, fa scrocchiare il collo in un movimento che sembra celare il suo imbarazzo, per poi rispondere:
“Da quando sei diventata tu la pecora nera, non mi stai più così sulle palle.”
“Ti ringrazio.”
“Di niente.” mi fa l’occhiolino, battendomi una mano consolatoria sulla spalla per aggiungere “Tranquilla, andrà bene. Peggio di come stava andando non era possibile. Almeno ora lo sanno. Al massimo puoi sempre venire a pulire casa mia al posto di Fatima. Lei vuole sempre lavarmi le finestre: io lo trovo inutile e sciocco.”
Poi, con un saltello, si dirige verso la sua auto tutta fracassata:
“Vengo a trovarti uno di questi giorni, così mi presenti il tuo coinquilino.”

Alex. Ora voglio solo andare a casa da Alex.

“Se inviti anche Jules io non mi oppongo…” aggiunge facendo scattare la serratura del suo macinino. L’affermazione mi fa rabbrividire, eppure non riesco a non chiedere:
“Perché?”
“A lei io la teoria delle stringhe la spiegherei molto volentieri.”
Oddio che schifo!
“Michele, mi hai appena traumatizzata!” strillo basita mentre lui mette in moto, andandosene tutto serafico.

Rammaricata per come sono andate le cose ma sollevata all’idea di poter fuggire da qui, salgo in macchina; lanciando un ultimo sguardo dispiaciuto verso l’uscio dei miei, metto in moto e guido verso la sicurezza di casa mia.


Pause


Livello n°2: superato.
Quanti superstiti abbiamo? Se siete riusciti ad arrivare anche alla seconda pausa senza indurvi un coma volontario... Beh, avete la stima della direzione! Ora, la faccenda sta per farsi lunghina senza ulteriori pause e il rischio, oltre al colpo di sonno, è la disidratazione e/o esplosione della vescica e/o attacco di fame. Provvedete a tutti i vostri bisogni primari prima di proseguire e poi (se ce la fate) addentratevi nel terzo e ultimo livello.




Mi trascino tristemente su per le scale di casa e, raggiunta la porta, ci appoggio contro la fronte, chiudendo gli occhi e respirando piano. Non posso credere di averlo fatto davvero: ho aperto il vaso di Pandora. Ho fatto quello che ho cercato di evitare per mesi e ora lo sguardo deluso di mio padre mi perseguiterà per settimane.
Ma quando mi decido ad aprire la porta lui è lì, impegnato a mescolare non so cosa sul bancone della nostra cucina e, per un attimo, mi sento sollevata. Non so perché: non è che la presenza di Alex faccia evaporare i casini che creo ogni volta che metto piede fuori di casa, ma io qualcuno da cui tornare a casa non l’avevo mai avuto. Non che ora ce l’abbia, visto che questa è anche casa sua, ma almeno so che se voglio evitare di parlare posso sempre ripiegare sul sesso.

Anzi, devo ripiegare sul sesso. Ormai è una questione di principio.
Alex si volta quando sbatto la porta dietro di me e mi guarda senza fiatare e senza smettere di lavorare col cibo disteso sul ripiano. Lascio passare un minuto, certa che presto arriverà qualche parola per me scomoda, e invece lui non apre bocca. Mi osserva con quei suoi occhi magnetici e basta.

“Non mi chiedi niente...”

La mia non è una domanda: sto constatando che il mio coinquilino impiccione non sta ficcando il naso nei miei affari per la prima volta da quando lo conosco.
“Se me lo volessi dire avresti già iniziato a parlare, senza fissarmi come un pesce lesso.”
“E se io volessi che me lo chiedessi?”

Non giudicatemi: tutte le donne dicono il contrario di quello che pensano.

“E se tu la smettessi di essere così contorta e ti limitassi a dire quello che vuoi?”
Io non rispondo, ma mi avvicino lui e, in un gesto così lontano dal mio normale essere, guido le sue mani a distanza dal cibo che è intento a cucinare e mi faccio strada tra le sue braccia, nascondendo il viso contro la sua maglia. Alex resta sorpreso per pochi istanti poi, con le dita sporche di farina e di qualcosa di appiccicaticcio, inizia un goffo abbraccio.
Ed io sorrido. Siamo l'apoteosi del maldestro. Confusi da cosa è opportuno fare e indecisi su quale sia il limite dell'altro.

“Vuoi che te lo chieda?”
Non mi serve la sua domanda, mi è sufficiente sapere che è disposto ad ascoltare qualche frase senza senso che sento di dover pronunciare.
“Mio padre mi odia. Mia madre mi farà internare e io non mi opporrò...” annuncio facendo scorrere le labbra contro il cotone che mi separa dalla sua pelle “però mio fratello mi vuole bene.”
Not bad. Uno su tre. È un buon risultato.”
“Gli ho detto che non mi laureerò.”

A questo punto mi aspetto che lui inizi a chiedere maggiori dettagli o, almeno, esprima il suo parere su quello che ho appena dichiarato; invece fa qualcosa che mi lascia completamente interdetta: mi accarezza la testa facendo scivolare il mento sui miei capelli e poi mi chiede se sono orgogliosa di averlo fatto. Per un istante temo che la sua sia un’accusa, una specie di insulto velato, ma i miei timori svaniscono quando, lasciando cadere un bacio sulla mia testa e allontanandosi di poco da me per afferrare un canovaccio con cui pulirsi le mani, aggiunge:

“Dovresti.”
“Lo sguardo di mio padre era delusione mista rabbia, Alex. Come posso essere orgogliosa di quello? Mia madre non smetterà di piangere per giorni."
“Devi essere felice di te, non delle reazioni degli altri. Hai avuto il coraggio di dirgli la verità. Quando abbiamo parlato stamattina ero certo che non l’avresti fatto."
“Però ora loro mi odiano. E mi presseranno ancora di più.”

La mia voce si è lentamente trasformata in una specie di cantilena: più mi lagno, più gli occhi di Alex si stingono in due fessure inquisitorie. Forse la mia vocetta da bambina lo sta infastidendo, oppure sta cercando di capire meglio, non so. In entrambi i casi risponderei con un pugno in testa, ma per oggi mi sono inimicata già abbastanza persone.
Lui lascia cadere il canovaccio nel lavandino e allontana lo sguardo da me mentre si infarina le mani e chiede:
“È il fatto di averli feriti che ti turba o il problema è che non sopporti che possano pensare male di te?”

Questo ragazzo comincia a fare troppe domande. Cioè, è vero che me le aspettavo, ma ora che mi ha fatto questa, così azzeccata nell’identificare un possibile problema, vorrei tappargli la bocca con quella roba che sta attualmente lavorando con le mani sul nostro marmo.
“Che cosa stai facendo?”
“Focaccia.” risponde senza guardarmi “pensavo fosse il caso di offrirti abbondanza di carboidrati al tuo ritorno. Dicono che aiutano l’umore. E tu sei sempre incazzata.”

Stava facendo la focaccia. Per me. Faccia di culo Alex, il coinquilino coi muscoletti e la personalità molesta, quello che non fa altro che ricordarmi che ho il culo grosso, mi stava facendo la focaccia. Con quelle sue manine esperte. La cosa mi sconvolge e scongela un po’ il mio cuore da stronza acida, lo ammetto. Anzi, molto, perché a me nessuno aveva mai fatto una focaccia per tirarmi su l’umore. A parte Bet e Jules. Ma la loro focaccia era certamente comprata all’Esselunga e bruciacchiata sui lati.

Alex la sta impastando per me. Il demone dall’occhio bionico si sta rivelando una specie di marshmallow: e a me piacciono parecchio i marshmallow.
Il mio silenzio sembra insospettirlo e smette di premere con forza i palmi delle mani contro il composto, inclinando la testa mentre i suoi occhi tornano a posarsi sul mio viso.

“Che c’è?”

Me lo chiede anche? Ovviamente non è ammissibile che io mostri la mia debolezza e gli faccia sapere che il suo gesto mi ha rammollita dentro più o meno come la polpa di un caco. E io odio i cachi. Mi fa senso persino il nome. Vorrei capire chi gliel’ha dato. Caco. Ricorda altro. Immaginate quanto piacere mi faccia essere molle come un caco!

Sorrido con indifferenza e non rispondo: vorrei baciarlo, ma comincio a pensare che non facciamo altro. Ogni volta che ci vediamo ci baciamo, e la cosa è assurda: due persone, per quanto attratte, non possono sbaciucchiarsi ogni santissima volta che si vedono. È ridicolo: io e Alex dobbiamo trovare qualcosa da dire e da fare che non implichi una pomiciata o qualche gesto melenso ogni santissima volta. Gli adulti non si baciano sempre. Almeno, io non credo.

“Che ne dici di darmi una mano?”
“Vuoi che ti aiuti a cucinare la focaccia per me?”
“Così forse la smetterai di guardarmi come se ti avessi comprato una stella.”

Immagino che il mio coinquilino stia lentamente annullando la mia capacità di mascherare i miei pensieri: o lui è troppo bravo a interpretare le mie espressioni da triglia, o io ho perso il mio dono. In ogni caso è poco importante: quello che importa è che ora sono a casa, lontana dal senso di colpa e dal dolore sul viso di mia madre. Rinchiusa qui dentro posso lasciare che Alex mi distragga, potrei anche litigarci; non importa. Quello che importa è che fino a domani io, per la vita e per il mondo, sono in vacanza. Con Alex.

Sono in Focaccialandia con Aleman.

“Io la focaccia non la so fare...”
Lui ammicca e si sposta di poco dal ripiano, indicandomi di posizionarmi tra lui e il bancone: io mi faccio attraversare da un pensiero sporchissimo, poi accetto l’invito e faccio come vuole lui.
“Farina...” mi indica porgendomi il sacchetto, facendo scorrere le sue dita contro le mie per imbiancarle mentre io ruoto di poco la testa per incontrare i suoi occhi.
“Senti, cosa stiamo per fare? Una specie di Ghost: Kitchen edition?”

Lui scoppia a ridere e, baciandomi il collo, si sposta alla mia sinistra.
“Direi di no... Forza, Sofia, fammi vedere che sai fare.”

Che significa che so fare?! Lui stava impastando per me. Lui, non io. Che gesto carino è se la focaccia me la faccio da sola?
“Non fissarmi in quel modo, mi fai sentire nudo.”

Eh. Ecco, quello sarebbe più apprezzabile.

“Sei tu il cuoco, falla tu! Io preferisco vivere nell’ignoranza.”
“L’idea era quella di farti sfogare un po’ di frustrazione sulla pasta.”
Alle sue parole fatico a trattenere un sorriso e sono più che convinta che, con l’accumulo emotivo che ho nelle vene, rovinerò la cena che lui aveva imbastito per me, ma non me ne frega nulla.
“Devo seguire qualche regola particolare?”
“Hai mai impastato prima d’ora?”
“Solo il Didò... e il pongo. Se la tecnica è quella, me la posso cavare."

Lui sghignazza alla mia spiegazione, poi mi mostra come manipolare il cibo prima di lasciarmi campo libero. Si siede sul ripiano accanto a me e resta in silenzio ad osservarmi mentre i suoi occhi si spostano dalle mie mani al mio viso.
Per qualche minuto è come se lui non fosse lì. È come se non ci fossi neppure io. C’è solo tutta la mia frustrazione che si riversa sulla focaccia ancora informe, come se la colpa di tutto l’avesse lei: all’inizio mi muovo con accortezza, staccando i pezzetti che mi si incollano sui polpastrelli, cercando di trattare tutto con cura. Poi, piano piano, ogni mia stretta si fa più potente, ogni spinta sul marmo più arrabbiata, ogni movimento del palmo più energico. Ho fatto la cosa giusta? Essere onesta ora cosa comporterà? Cosa devo fare adesso? Come faccio a riconquistare la fiducia dei miei senza finire di nuovo nella catena di errori che ho già fatto?

È difficile capire se sono arrabbiata con me stessa per essere arrivata fin qui o con i miei per non aver capito. O forse sono arrabbiata perché io non ho capito che, come ha detto mio fratello, stavo deludendo tutti, me compresa.

Ma c’è una cosa di cui sono certa: sono rabbiosa perché ora che ho confessato la verità, non ho messo fine alle preoccupazioni di nessuno. Sì, forse mi sono tolta il peso delle bugie dal petto, ma continuo a non aver un progetto per il futuro. E questo ci riporta esattamente a pagina 1.
Spingo con tutta la forza che ho con i palmi delle mani contro la pasta che ormai sta diventando compatta sotto la mia pelle e non mi accorgo che sto stringendo con forza l’angolo della bocca tra i denti, finché Alex non allunga un braccio verso il mio viso, raccoglie una ciocca che mi ciondola con ira di fronte agli occhi e la trascina indietro. A quel punto mi immobilizzo e riporto lo sguardo su di lui che mi fissa in modo strano.

“Tutto bene, Scintilla?”

Non va bene un cazzo. Va peggio di prima.

“Lascia, finisco io.” ordina saltando giù dal bancone e spostandomi piano di lato per impastare un paio di volte e poi compattare tutto in una grossa palla liscia e soffice.
Lo osservo mentre accarezza quella sfera e la solleva piano, depositandola in una ciotola alta e coprendola con uno straccio umido.
All done. Ora la lasciamo riposare un paio d’ore.”

Io annuisco con gli occhi bassi, spostandomi per lasciare che metta la ciotola nel forno.
Lui se ne sta lì, in piedi di fronte a me, in silenzio e normale come nulla nella mia vita in questo momento. Mi scruta, mi contempla, ma non parla.

È così naturale che mi sembra la cosa più bella che abbia mai visto: così a suo agio nella sua pelle come io non sono mai stata nella mia. Così imperturbabile e così tranquillo oggi, l’opposto di quello che era solo pochi giorni fa. Con quegli occhi scuri nella terribile illuminazione della nostra cucina, che mi osservano senza l’ombra di un giudizio. O forse sono io che non voglio sapere davvero quello che pensa della sua coinquilina. Non me ne importa nulla adesso: lui, le sue labbra e il suo sguardo pacifico mi paiono l’unico rifugio di serenità che il mondo mi vuole concedere.

“Perché mi guardi così?” domanda quando ormai lo sto squadrando da almeno due minuti, spostando il peso da un piede all’altro e apparendo all’improvviso a disagio sotto il peso dei miei occhi.
“Così come?”
“Non lo so, in modo strano.” spiega mentre si massaggia il retro del collo con una mano e, più si mostra imbarazzato, più io sento l’impulso di avvicinarmi. Senza rispondere faccio qualche passo nella sua direzione e, con il suo sguardo incerto che segue i miei movimenti, mi appoggio con un fianco al bancone della cucina a pochi centimetri dal suo corpo; gli occhi incollati ai suoi e le mie dita che trovano uno dei suoi fianchi per tirarlo verso di me.
“Vieni qui...” sussurro e lui obbedisce, costringendomi a voltarmi finché la mia schiena non è premuta contro il bordo del ripiano in marmo.

Poi, senza parlare, i suoi occhi mi sorridono. Con le mani mi avvolge il viso, posando la fronte sulla mia e inspirando piano: restiamo così per qualche minuto, guardandoci senza parlare e nel silenzio posso sentire il mio sangue che comincia a pulsare forte e veloce.
Non so che cosa stia aspettando di preciso, ma il calore del suo corpo contro il mio e l’intensità dei suoi occhi diventano l’unica cosa di cui sono consapevole: cingendogli la vita lo avvicino quanto più possibile a me.

“Aleman, che stai aspettando?”

Il sorriso più furbo che gli abbia mai visto fare si anima sulla sua bocca: poi le sue dita premono in modo impercettibile sulla mia pelle. Seguendo i suoi gesti, lascio che le mie labbra si posino sulle sue, chiudendo ogni ricordo di oggi fuori dalla mia mente e lasciando che il mio corpo senta solo Alex.
Più che decisa a godermi ogni secondo con lui, incurante della possibilità che le mie mani siano gelide, muovo le dita contro la sua maglia, alzandola per andare ad accarezzare loro: i muscoletti.
Lui rabbrividisce in modo evidente e spezza per un attimo il bacio, tenendo gli occhi chiusi e facendo scivolare un pollice sulla mia bocca.

Dio, ma come fa a essere così fottutamente sensuale pure mentre sono io che dirigo i giochi?
Io non sono mai stata dotata di grande spirito di iniziativa, ma in questo momento non riesco a pensare in modo razionale e lascio che le mie mani facciano ciò che vogliono.
Con le palpebre ancora chiuse Alex ridacchia della sua stessa reazione e sposta le mani sulla mia vita, invitandomi a saltare con tutta la mia grazia sul bancone della cucina: poi, senza tanti convenevoli, abbassa il viso fino al mio ventre, solleva l’estremità del mio vestito e lascia cadere un’infinità di baci sulla mia pelle, mentre nella sua risalita verso il mio viso porta con sé la stoffa da cui, una volta ritrovate le mie labbra, mi libera definitivamente.

Nel panico più totale per l’esposizione del mio corpo ai suoi occhi alla luce della cucina, mi stacco da lui per allungarmi verso l’interruttore alle mie spalle, ma Alex mi ferma, riportando il mio corpo contro il suo e sussurrandomi:
“Falla finita.”

Certo, logico che lui voglia mostrare tutto il suo corpicino asciutto con orgoglio, ma io credo che sarebbe molto più facile abbandonarmi alla situazione se non mi dovessi preoccupare di ogni piega di ciccia che lui vede.

“Fammela spegnere...”
“No, non ce n’è ragione.”
“Ma...”
“Niente ma, Scintilla. Non pensare. Baciami e non pensare.” mormora con una voce lieve come la distanza tra le nostre labbra e l’effetto di Alex su di me corre lungo ogni sinapsi del mio cervello.
Stringo le braccia attorno alle sue spalle e lascio che ricominci a baciarmi con ritrovato entusiasmo, mentre i suoi sorrisi si scontrano con i miei e il suo respiro torna a farsi appena un po’ più accelerato.

Oh, ‘sti cazzi! Tanto anche se non vedesse, la ciccia la sentirebbe comunque. Facendo questa considerazione, però, mi ricordo di eventi poco piacevoli durante la mia intimità con L e decido che con Alex non voglio provare nessuna forma di disagio.

“Alex, una regola...”
Lui sembra ignorarmi, continuando imperterrito a far scivolare le dita sulla mia pelle.
“Alex!”
“Mmh?” il suo è un mugolio appena accennato e che mostra debolmente la sua frustrazione per la mia cocciutaggine.
“Mi ascolti?”
Ma sono abbastanza convinta che l’unica cosa che sta ascoltando sia il pulsare del suo sangue che, dalla periferia, sta emigrando con grande gioia verso sud. Il che mi va benissimo ma, visto che l’aria si sta riscaldando e che la nonna sembra aver deposto l’ascia di guerra contro il mio accoppiamento, sento un’improvvisa necessità di porre un veto.

Quando la mia intimità era condivisa con L si verificava matematicamente un evento alquanto spiacevole per la sottoscritta: la strizzatura. Non è una pratica sadomaso, né un gioco di ruolo; è qualcosa che, per le ragazze in carne, ha una connotazione umiliante. È qualcosa che, quando vanti un più o meno prominente salvagente di adipe, temi con ogni tua molecola.

Qualcosa che, però, sembra essere inevitabile quando fai sesso.
La strizzatura si traduce in quell’insopportabile gesto che loro compiono ogni volta che incontrano una piega di ciccia: la afferrano e la strizzano.
La stringono con passione, come se potesse essere anche solo lontanamente sensuale, come se da questo stritolamento tu dovessi trarne giovamento e avvicinarti più velocemente all’orgasmo: ecco, non è così. Ha esattamente l’effetto opposto: d’improvviso perdi il focus, ti dimentichi che stai correndo verso la meta e il tuo touch down rischia di diventare solo un miraggio. Diventi improvvisamente conscia di quei manigliotti a cui lui si regge e, invece di focalizzarti sul tuo piacere, cominci a fare una stima possibile della misura in centimetri del grasso che tiene tra le dita e cominci a chiederti se, in realtà, anche lui stia cercando di soppesarne la mole. O se si stia chiedendo come avevi fatto a nascondere quell’abbondante cuscinetto fino a quel momento.

L lo faceva sempre. Ogni benedetta volta. Come se avessi bisogno di un promemoria di dove si trova distribuito il mio sovrappeso.
Mentre Alex, assolutamente disinteressato a quello che io ho da dire, accompagna le mie mani sul bordo della sua maglia e mi aiuta a levargliela, io penso ad un’unica cosa. Non voglio sentirmi umiliata e non voglio sentirmi insicura. Voglio sentirmi bene con lui e voglio sentirmi una donna di serie A, almeno questa volta.

I suoi baci sulla mia pelle si fanno più rapidi quando, con un movimento del bacino, separa le mie ginocchia e ci si intrufola in mezzo con frenesia, ricordandomi che l’universo è contro di noi e, se non colgo l’attimo, rischio di andare di nuovo in bianco.
“Alex, stammi a sentire...”
“Parla!” la sua voce è quasi spazientita e le sue dita intrappolano il mio viso nella sua stretta per guidare la mia bocca dritta contro la sua, lasciando cadere baci prepotenti e frettolosi.
“Non si afferra.”

Lui si blocca per un secondo e quei suoi occhietti blu si fanno grandi e confusi:
“Che cosa?”
“Non si impugna niente. È questa la regola.” bisbiglio stringendo le mani attorno ai suoi polsi per poi accarezzarli piano; lui si lecca lievemente le labbra con aria riflessiva, inclina il capo e poi chiede:
“Che cazzo vuoi dire?”
“Non voglio che, mentre sei tutto annebbiato dalla tua mascolinità, ti metti ad afferrare parti di me a caso...” provo a spiegare sopprimendo una risata di fronte al panico che sfreccia per un attimo nel suo sguardo e capisco che non posso trovare un modo di spiegargli cosa non voglio senza suonare patetica e insicura e senza portare la sua attenzione proprio sui miei problematici accumuli lipidici.

“Non ho capito...” confessa infatti studiandomi con aria disorientata: “Potrò afferrare qualcosa spero...”
“No...”
“Neanche le tette?”
“Non chiamarle tette!”
“Come le devo chiamare... boobs?”
“Alex...”
“Posso o no?”
“D’accordo, diciamo che non puoi aggrapparti all’adipe ma che ammetto eccezioni...”
“Mi sembra un buon compromesso...” poi sembra scegliere di non approfondire cosa lui non potrebbe fare ma di concentrarsi su altro:
“Tu puoi afferrare, vero?” ridacchia speranzoso, gioendo quando annuisco.

Allenta per un attimo presa sulla mia vita e si allontana di qualche passo, salta sul bancone accanto a me, levandosi le scarpe, e porta una gamba dall’altro lato del bancone.
Mi tira a sé con un gesto deciso, fino a che il mio fianco non si scontra col suo corpo: basta una lieve pressione per riattivare ogni singolo ormone nel mio corpo e farmi sorridere soddisfatta alla constatazione dell’effetto che io, proprio io, stavo avendo su di lui.
La sua bocca è nuovamente premuta contro la mia in un bacio che diventa velocemente molto più forte, pretenzioso e irregolare: più le sue labbra sembrano non controllarsi contro le mie, più il mio istinto di strapparmi i leggings si fa prepotente.

Rispondo ai suoi tocchi smettendo di pensare e sentendo solo il sapore delle sue labbra contro la mia lingua e, per non so dire quanto, l’unica cosa che i miei sensi percepiscono è Alex.
Poi, ammiccando contro la mia bocca, le sue mani premono contro il mio corpo, sulle mie spalle, e pochi secondi più tardi, mi ritrovo sdraiata sul bancone della nostra cucina con il mio coinquilino che come un gatto si sta allungando sopra di me, lasciando baci illegali lungo la strada. Spinge le mie ginocchia lontane l’una dall’altra, distendendosi completamente sopra di me con quel sorrisino compiaciuto che è ormai un marchio di fabbrica. E, dopo un brevissimo momento di stallo, capisco.

Sto per fare sesso sul bancone della mia cucina. E la cosa mi inorgoglisce schifosamente.
L’ho sempre voluto fare su questo maledetto bancone, ma mi bloccava il pensiero che ci faccio colazione sopra. E l’iniziativa più ardita di L è stata di propormi con insistenza la doccia come setting alternativo.

Ma Alex non me l’ha proposto: Alex non me l’ha chiesto. Lui mi ha invitato a farlo, senza parole, solo con le carezze. E il mio corpo ha risposto a quelle: il mio corpo è assolutamente d’accordo. Mentre la sua bocca si sposta dalla mia per scendere verso le spalle, però, sembra avere un’illuminazione: si ferma, si mette in ginocchio - donandomi la visione del suo appetitoso petto nudo - e mi sfiora l’ombelico.

“Dammi il tuo telefono.”
“Perché?!”
“Fallo e basta, Sofia!”
C'è una punta di autorità nella sua risata che mi porta ad obbedire. Sbuffando, mi ritrovo ad arrotarmi sul fianco in un movimento agile quanto un ippopotamo: infilo la mano nella borsa appesa alla sedia, recupero il mio cellulare e glielo passo.

Lui sorride come se gli avessi appena regalato un pacco di orsetti gommosi e, posando gli occhi sui miei, lo spegne. Poi fa lo stesso col suo.
Lo osservo con curiosità perché non capisco tutta questa fretta di disconnettere i nostri telefoni ma, quando lo vedo scendere dal bancone e staccare prima il telefono di casa e poi il ricevitore del citofono, capisco.

“Basta interruzioni. Ora si fa come dico io.”

E torna a sdraiarsi su di me, riprendendo da dove ci eravamo fermati.
Le mie dita impazienti si fanno strada sul suo corpo, fino a trovare il bottone dei jeans. Quando lo faccio saltare abbassando poi piano la zip, faccio scorrere le dita sul cotone che si scopre, accarezzando Alex attraverso il tessuto: al mio tocco lo sento smettere di respirare e soffiare contro il mio collo qualche cosa in inglese che non riesco a capire, ma che mi fa sentire in paradiso.

I minuti passano, scanditi solo dalle carezze e dal sangue che mi pulsa insistente contro le tempie, fino a che lui non sussurra il mio nome, spezzando il bacio e premendo lentamente un dito contro le mie labbra.
“Med...”
Poi comincia a ridere con il viso nascosto contro la mia spalla e reggendo il suo peso sui gomiti.

Che cosa c’è di divertente?

La sua risata, prima silenziosa e lieve, si fa piano piano più forte, meno controllata e vibra contro la mia carne: cosa cazzo ha da ridere come un cretino?
Io sono qui, seminuda, eccitata come un cammello e convinta di aver dato fino ad ora il meglio di me, e lui sembra avere un attacco respiratorio, tanto si sta divertendo.

“Cosa c’è? Che ho fatto?!”
In un primo momento lui non mi risponde e io, stizzita, gli tiro piano i capelli, pretendendo una risposta: solleva il viso e non sembra riuscire a smettere di sghignazzare. Ha persino le lacrime agli occhi.
“Alex...”
Fa uno sforzo sovrumano per spegnere lentamente la sua risata e poi fa schioccare le labbra sulle mie, inspirando dal naso.
“Cosa è successo?”

“Ho un problema...” ridacchia accarezzandomi un orecchio e continuando a divertirsi come un matto.
“Che problema? Che c’è?”
Lui resta zitto per un po’, cercando di sopprimere l’ennesimo ghigno, per poi confessare:
“Ho l’ansia da prestazione.”

È uno scherzo? Mi sta prendendo per il culo? È stato un mandrillo con l’ormone volante fino a ieri e ora che stiamo per battere chiodo, mi dice che gli si è rotto l’impianto idraulico?

“Stai facendo cilecca adesso?!”
“Non sto facendo cilecca... Oddio, magari sì...” e riprende a iperventilare per il divertimento.
“Alex, non è divertente!”
“È esilarante! Mi sono vantato come un coglione di fare magie sotto le lenzuola e poi mi viene l’ansia da prestazione."

Adesso: so che le donne dovrebbero mostrarsi comprensive e affettuose in queste situazioni, ma io voglio il mio sesso. E lo voglio ora!

“Senti, fatti una camomilla perché questa è l’ultima volta che ci proviamo: se non vai in buca oggi, io rinuncio!”
Mi metto a sedere, costringendolo a seguire i miei movimenti e non riuscendo a controllare il broncio sul mio viso, cosa che lui trova esilarante.
“Non sei per nulla comprensiva...”
“Se mi dici che non ti funziona perché tieni troppo a me, giuro che te lo rompo del tutto.” biascico schivando la sua mano che cerca di catturare il mio viso e sbuffando.

So che sto facendo i capricci, ma non è che questo evento aiuti la mia autostima!

“Non ho detto che non mi funziona! Ho detto che ho l’ansia...”
“Ma di che cosa?! Anche la tua peggior prestazione otterrebbe un punteggio altissimo rispetto a quello a cui sono abituata!” mi lagno facendolo ridere di nuovo.

Non è che bisogna essere dei re del porno per fare meglio di L.
Alex si muove con agilità, scendendo dal bancone e portandosi di fronte a me per riprendere a baciarmi, nonostante le mie proteste.
E lo fa fottutamente bene, il che rende la sua ansia da prestazione ancora più ridicola.

Con i suoi baci riprendo a rilassarmi e le mie braccia si muovono fino a trovare le sue spalle.
“Ti prego, dimmi che ti stai rianimando...”
Alex sghignazza ancora una volta e ricambia il mio abbraccio, annuendo piano: sento le sue dita sulla mia schiena e, pochi secondi dopo mi accorgo che ha fatto saltare il gancetto del reggiseno.

Sopprimo l’ennesimo sussulto di panico che si fa strada dentro di me per il timore che le mie tette siano, in realtà, più cadenti di quello che mi ricordo:
“Andiamo in camera.”
“No.” protesto stizzita, premendo il mio petto nudo contro Alex per cercare di nascondere alla sua vista i difetti del mio corpo. “Io lo voglio fare qui."

La cucina è perfetta per noi. Riflette chi siamo e cosa amiamo; è il nostro terreno comune. È il luogo in cui siamo entrambi a casa ed è quello in cui sento di aver visto più di Alex.
Non c’era un posto più azzeccato per la nostra prima - e spero non ultima - volta.

Mi sussurra di non muovermi e promette di tornare subito prima di zompettare come un grillo verso camera sua, suppongo a caccia di precauzioni.
Pochi secondi dopo è di nuovo tra le mie braccia, sghignazzando come un cretino e baciandomi come se fossi la cosa più gustosa del mondo, mentre sale per l’ennesima volta su di me e, nel processo, si sbarazza anche degli ultimi indumenti che ci separavano.

Non ho il tempo di imbarazzarmi e non ho modo di far scorrere gli occhi su di lui perché, con due baci, ho di nuovo perso la capacità di concentrarmi: non so più se il tempo attorno a noi si è fermato o no ma, tra una carezza e un sospiro, mi trovo ancora con la schiena premuta sul marmo gelido e il calore di Alex su di me.

God, I want you so bad...” sussurra contro le mie labbra e le sue parole spengono l’ossigeno nei miei polmoni.

Lui vuole me. Vuole davvero me, non il sollievo che un po’ di squallido sesso può dargli. Vuole me, con la mia orribile personalità e i miei chili in eccesso.
Non mi ero mai sentita desiderata così, con tutta l’emozione che sento nella sua voce e con l’attenzione con cui le sue mani sfiorano la mia pelle. E questa consapevolezza mi fa agitare come se fosse la mia prima volta.

All’improvviso mi sento di nuovo insicura e la paura di non essere all’altezza si fa più reale quando il suo corpo si fonde con il mio: è un movimento lieve, gentile e delicato. Si muove lentamente, lasciando che la pelle dei suoi fianchi sfiori molecola dopo molecola l’interno delle mie cosce e il solletico del suo corpo sul mio diventa una dolorosa attesa che precede il disciogliersi di un calore che non so raccontare: così dolce, così scivoloso, così completo che sento ogni frammento della mia pelle rispondere a lui.
Una delle sue mani si sposta sul mio bacino, accompagnandolo verso il suo e nello stesso momento lo sento lasciare scorrere piano il ventre contro la mia carne, succhiando le mie labbra allo stesso ritmo con cui i suoi fianchi trovano i miei.

È una percezione così intensa che la scopro diffondersi dall’epidermide fino a dentro, la assaporo sulla lingua, la avverto assordante nelle orecchie e involontariamente, mi irrigidisco: allora Alex si ferma, baciandomi piano e accarezzandomi il collo con le labbra, conscio del mio improvviso nervosismo.

“Tutto okay?”
Sono più che okay. Sono incredula, suppongo.

Un cenno della testa sembra rassicurarlo e lentamente ogni cosa attorno a me diviene inconsistente, ovattata: ci sono solo Alex e i nostri movimenti lenti.
All’inizio sento le mie mani che tremano mentre gli accarezzo la schiena: i miei polpastrelli si nascondono tra i capelli morbidi che sembrano raccontare le sue reazioni a me. Mentre li sfioro e il suo respiro si spezza contro la mia gola, li sento alzarsi tra le falangi e li stringo con energia: una delle mie mani si muove involontariamente lungo il suo collo, seguendo il contorno della sua mandibola per arrivare ad accarezzargli la guancia calda e tesa. Quando scorro l’indice sul suo zigomo, un sospiro sfugge dalle sue labbra e il mio nome esce appena accennato insieme al suo respiro.

Stringe delicatamente le dita contro la carne del mio ginocchio, violando la regola che avevo imposto, ma sapere che è il suo modo di chiamarmi sua mi rende più audace: affondo le unghie nella sua nuca, tremando ogni volta che un impercettibile freddo accarezza la mia pelle quando i suoi fianchi si allontano dai miei, per tornare a baciarli pochi attimi dopo.

Ed è di nuovo calore. È ancora morbidezza. È sempre più sapore.

Le mie unghie lambiscono ogni centimetro della sua schiena: è una discesa calma, energica. Affondo nella sua pelle, sentendola increspare appena e trascino le dita lungo il suo corpo, diventando più vigorosa quando incontro una delle scapole e recuperando delicatezza sull’incavo appena prima del bacino. Lì mi fermo più a lungo per accompagnare il suo movimento contro di me.
Poi torno a esplorarlo piano, rallentando fino a trovare la curva tornita dopo i suoi fianchi, stringendo i polpastrelli attorno alla sua carne: faccio pressione invitandolo a trovare di nuovo una sintonia più profonda con me e ottenendo in regalo un bacio violento.

Il marmo è freddo e scomodo e per un secondo dubito di riuscire a seguire i suoi movimenti: ma le mie preoccupazioni si fanno polvere quando lo vedo ridere della nostra mancanza di sincronia e lo sento sussurrare di stare calma.
“Med, va tutto bene…”
“Sì, benissimo.”
“Perché sei così tesa?”
“Non lo so…” rispondo con onestà e le sue mani si spostano sul mio corpo con la stessa delicatezza con cui lui si muove con me, anche se le sue parole e le sue carezze non aiutano molto a farmi calmare.

Forse è la sensazione di essere sua finalmente. Anzi, probabilmente è più il fatto che lui sia mio: il modo in cui si lascia baciare, in cui cerca il mio tocco, quello in cui sfiora il mio corpo come se dovesse trattarlo bene.
Più le mie molecole si tendono, più il mio corpo diventa sensibile ad Alex e percepirlo così intensamente rende ogni mio senso più vivo.

“Sofia…” sussurra lui strofinando con languore il naso contro la mia clavicola e sentirgli pronunciare il mio nome così e adesso mi fa ridere.
“Dimmi Alexander…” rispondo sogghignando e la vibrazione ci fa perdere la sincronia per l’ennesima volta.

Lui si unisce a me nella risata, sollevando il viso e fermandosi su di me: mi fissa per qualche secondo dritto negli occhi, poi muove lentamente il bacino ed io non riesco a controllare le palpebre che si chiudono, assaporando i suoi gesti attenti.
“Apri gli occhi, Med…” è una richiesta appena sussurrata, ma il mio corpo non risponde ai miei ordini. Il caldo che irradia da lui sembra l’unica cosa che guida il mio essere e, quando si china sul il mio viso, il ricordo di Armani Code mi avvolge impercettibilmente e mi guida verso il suo collo: accarezzo il naso sulla sua pelle, alla ricerca disperata di quel frammento che, per un attimo, ha invaso il mio respiro. Poi la sua voce, leggermente tremante, mi distrae di nuovo e la sua richiesta fa diffondere un tepore ancora più penetrante nel fondo del mio ventre:

“Baciami…”

Sembra stupido, ma sentirgli chiedere di essere baciato mi fa sentire importante, come se lui avesse bisogno di me: è una realtà nuova, una gratificazione che non conoscevo. Quello che Alex mi sta facendo provare in questo momento tinge il sesso di sensazioni che non conoscevo.
 
I secondi passano e si fanno respiro quando smetto di preoccuparmi e mi decido ad assaporare lui.

Noi.

E, contro ogni mia previsione, siamo prefetti: imperfetti e impacciati a tratti, incerti e fuori tempo in alcuni momenti, ma sono a mio agio come non mi era mai successo con L. Le carezze ogni tanto si spezzano in risate e i suoi baci a volte mi fanno il solletico, ma il mondo si ferma e il mio corpo parla con il suo in un modo che non pensavo fosse possibile.

È tutto delicato, tiepido e piacevole.

Rido e mi sento viva. Il sesso non era mai stato divertente, non era mai stato ridicolo: ma con lui sto scoprendo una nuova me, che non si preoccupa di un atto meccanico ma che si diverte e ride mentre cerca una sintonia così difficile da trovare. La timidezza e l’incertezza svaniscono e lui diventa il mio complice, non il mio obiettivo.

Sento lui e sento me stessa più di ogni altra cosa al mondo. Per il tempo in cui siamo un’unica cosa il mio cuore accelera insieme al sangue che si diffonde nelle mie vene: il suo respiro affannato e spezzato diventa ossigeno per me, si fonde sulle mie labbra, posandosi leggero sulla punta della mia lingua e rendendo il gusto di Alex amplificato fino ad entrarmi nella pelle, correndo lungo i miei nervi, giungendo potente fino all’incontro di noi.

Laggiù. Dove non so più dire dove finisce lui e dove comincio io. È una cascata di calore che ha il sapore della sua carne che si appoggia alla mia, della sua pelle che sfrega contro la mia sempre più piano, ma più a lungo, come qualcosa che non riesco ad afferrare del tutto.

È lì, proprio, ad un niente da me: si fa rincorrere e si fa aspettare per non costringermi a smettere di sentire. Toccare. Assaporare.

Poi la sua pancia tesa si abbandona sulla mia per un secondo di troppo e, all’improvviso, mi trovo a respirare in modo affannato e a percepire i muscoli del mio corpo tendersi con una scossa che si scioglie in calore e, contro volontà, le mie cosce si stringono con dolorosa forza attorno ai suoi fianchi, animate da uno spasmo costante mentre tutti miei muscoli si contraggo attorno a lui. È il mio corpo che lo tira a sé, che lo avvolge, che lo tiene vicino con prepotenza e gratitudine.

Contratto. Rilassato.

Come se non sapesse se tenerlo stretto più a lungo o lasciarlo andare del tutto. Come se non capisse se lo vuole con sé o lontano da sé.
Le orecchie mi si tappano, o forse l’urlo del mio corpo è troppo forte per sentire altro. Le guance sembrano scottare, le mie dita diventano più sensibili alla morbidezza della sua pelle e le mie narici inspirano un odore che sa di piacere. Non vedo nulla e, nello spasmo interminabile, chiudo gli occhi percependo il caldo che si solidifica in piccole macchie di luce nel buio che pulsa sotto le mie palpebre.

Attento a ciò che il mio corpo gli sussurra, Alex si ferma per un momento, baciandomi forte e intrecciando le nostre dita, mentre il mio cuore cerca di tornare a battere ad un ritmo costante e il mio respiro si fa più lungo.

“Porca puttana.” esclamo in modo decisamente poco elegante e lui scoppia a ridere, affondando il viso contro la mia pelle e aspettando che io mi rilassi abbastanza da permettergli di ricominciare a muoversi.

That was fast...” sussurra stupito dalla rapidità con cui il mio corpo ha risposto al suo.
“Te l’ho detto che io sono veloce.” sghignazzo soddisfatta, prima di baciarlo e lasciare che recuperi il tempo perso e riprenda il ritmo leggero che, poco fa, mi ha tolto il controllo su me stessa.
Alex si prende il suo tempo e sentirlo con me, percependo il suo corpo che si tende e si rilassa, sembra dilatare lo spazio: non so per quanto i suoi respiri scandiscono i miei minuti ma, mentre incontro i suoi gesti e le mie dita corrono sui suoi capelli, i suoi denti mordono lievemente le mie labbra e la sua reazione a me diventa la cosa più bella che abbia mai assaporato.

Quando sussurra “Shit...”, sollevandosi per reggere il suo peso e rallentando, cerco di accompagnarlo come ha fatto lui con me, baciando la sua pelle e accarezzando il suo viso: stringe gli occhi con forza e smette di respirare per un secondo, abbassando la testa per incitarmi ad accarezzarlo ancora e ancora, mentre le sue braccia cedono. Si appoggia delicatamente contro di me, cercando veloce le mie labbra e, mentre mi bacia, riprende a sorridere.

“Dio mio...”
“Preferisco se ti rivolgi a me come a una donna.” scherzo premendo i polpastrelli contro la sua pelle per tenerlo vicino più a lungo e lui soffia l’ennesima risata sulla mia bocca.
Il silenzio si espande piano tra di noi e l’unico rumore che posso percepire è quello del suo cuore che pulsa contro di me: non si muove, rimane disteso sopra di me, accettando ogni carezza che accompagno sulla sua schiena e facendo scivolare ogni tanto le labbra sulla mia spalla.

È qui, ancora fuso con me mentre cerchiamo di ritrovare un respiro regolare e mi rendo conto che anche questa parte è nuova: nella mia vita intima, di solito, al piacere seguiva un senso di disagio, alimentato dal non sapere che gesti fare, se restare o alzarmi.

Per la cronaca, con L finiva sempre che, una volta ottenuto quello che voleva lui si spostava e si rivestiva, levandomi dall’impiccio di capire che posto prendere nei minuti successivi.
E invece Alex non accenna a muoversi: resta disteso contro la mia pelle, respirando il mio odore e dicendomi piano:
“Sai di buono.”
“So di te, cretino.”

Sollevo il suo viso, guardandolo dritto negli occhi, confesso:
“Dio, se ne valevi la pena.”

E il sorriso che si anima sulle sue labbra è qualcosa che non avevo mai conosciuto.







AN: Non so come qualcuno possa essere sopravvisuto fino a questa nota d'autore finale ma, se qualcuno è vivo, sento il dovere di dirgli: io ti stimo.
So che è stato (forse) il capitolo più lungo e mi scuso con chi non ama aggiornamenti simili: sono, in qualche misura, parte del mio stile, ma faccio ammenda per aver affaticato i vostri occhi. Ho eliminato l'eliminabile, poi è arrivata la Beta e ha richiesto aggiunte... quindi, per gli insulti, mi sento di smezzare con lei la responsabilità :D

Confesso che questo è stato (fino ad ora) il capitolo più difficile in assoluto da scrivere per me: costringere Med a affrontare la sua famiglia e raccontare la sua intimità con Alex sono state due imprese che mi hanno prosciugata. Sul serio. Per il racconto... ehm... caliente è una novità e sono una principiante... quindi mi ha richiesto diversi sforzi.

Inutile dire che sono mortificata per l'attesa e per il tempo che questo capitolo ha richiesto: chi è nel gruppo sa che, per la mia non-gioia, le lezioni si succhiano quasi tutto il mio tempo durante la settimana e le ore per scrivere che mi restano sono molte meno di quelle che avevo previsto di potermi ritagliare. In più il mio portatile è deceduto improvvisamente, portando con sé il 75% di quello che avevo già scritto e costringendo a ricominciare dal principio.
Spiegazioni a parte, capico che l'attesa sia frustrante e non posso che rinnovare le mie più sentite scuse a tutti: mi dispiace davvero tanto. Ho cercato di fare il possibile e (forse) il capitolo è così lungo anche per cercare di farmi perdonare per la lentezza.
Mi scuso anche se ci sto mettendo 25 anni a rispondere alle splendide recensioni che mi lasciate: ho la rapidità di una tartaruga anche con quelle ma sto cercando di recuperarle tutte... Ne riesco a fare solo poche al giorno ma, lento lento riuscirò a ringraziarvi singolarmente. Le vostre parole sono il regalo più bello e mi ricordano perché TuttoTondo non la posso e non la voglio abbandonare.
Il mio più sentito grazie a chi ancora resiste, alla mia Beta Letizia (senza cui io conoscerei un decimo di quello che scrivo e che mi spinge oltre ogni mio limite e confine) e alle instancabili TuttoTondine che, ogni giorno mostrano la loro passione, allegria e affetto: siete state tutte la scoperta più bella che EFP mi potesse regalare!

Grazie di cuore a tutte e perdonatemi!









   
 
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