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Autore: MadHatter96    01/05/2013    1 recensioni
La verità certe volte non è come sembra, è più complessa e oscura.
Si arriva ad un punto dove si crede di aver sfiorato il limite della realtà, che più di lì non si può andare... e invece si arriva a sconfinare su quello che la gente chiama "impossibile".
Un'esistenza può essere sconvolta nel giro di pochi minuti, per scoprire che nulla è più forte del cuore.
[SOSPESA]
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Delle nuvole scure coprono il cielo mattiniero di Tokyo; lascio che l’auto su cui sto percorra le intricate strade di un quartiere della metropoli.
Mi sento incapace di vivere, sto subendo tutto passivamente mentre alcune gocce iniziano a picchiettare sul vetro depositandosi sul mio grigio riflesso che disegnato sulla superfice trasparente.
L’uomo dell’aeroporto ora se ne sta al posto di guida, posso vedere la testa coperta dai capelli neri, tipici degli asiatici, muoversi da dietro il sedile.
Mi rannicchio di più sul mio posto per poi rimanere ferma, immobile, senza fare domande, tanto so che non riceverei risposta.
Ricordo solo che quest’uomo si chiama Ebizo Suzuki e che ha, a quanto pare, una discreta conoscenza dell’italiano, oltre che della mia storia famigliare da quella Italica a quella Americana passando per l’Inghilterra, cosa della quale nessuno ha mai ritenuto importante informarmi, a quanto pare.
Qualcosa con la CIA ha detto… ma che mi importa ormai?
Traditori, cosa mi può interessare ora?
Tanto sono già stata mandata al macello.
Osservo gli alti grattacieli della capitale Giapponese sfrecciare davanti a me mentre il fuso orario già mi stordisce.
“Angelica.” Mi chiama la voce dell’asiatico, io non mi muovo. So che non aspetterà un mio cenno. Infatti continua, dando per scontata la mia attenzione “ Tra poco incontrerai che ha il compito di sorvegliarti.”
Alzo apaticamente lo sguardo sull’uomo che mi osserva dallo specchietto retrovisore: “Sorvegliarmi?  Non pensavo di essere io la criminale in questa storia.”
Lui sospira per poi riposare indirettamente gli occhi su di me.
Li osservo; nonostante le leggere rughe da uomo di mezza età hanno un certo fascino, probabilmente dovuto alla forma a mandorla.
“Lo facciamo per proteggerti.” Risponde infine probabilmente notando il mio insistere sulla sua immagine.
“Cosa me ne faccio della protezione se non so nemmeno che fine ha fatto la mia famiglia? Oggi sarei dovuta andare al cinema…” la mia voce si attenua alla fine della frase.
Sono un idiota. Io non voglio ricordare, non devo ricordare, altrimenti non arriverò nemmeno a domani.
L’uomo non mi da una vera risposta, si limita a sussurrare un misero “cerca di capire” mentre parcheggia con rapidità l’auto in un parcheggio davanti ad un grande edificio.
Ottimo, e chi capisce me?
La porta si apre, io scendo di mala voglia dalla vettura. Non ho motivo di porre resistenza, non avrei nemmeno più motivo di continuare.
Non riesco a capire dove stiamo andando, lo seguo e basta all’interno dell’edificio.
Il rumore monotono dell’ascensore ci accompagna in alto, sempre più in alto, ancora più in alto.
Eccomi, in una delle città più ammirate del mondo, una delle più moderne, una delle città da scoprire… una città che io inizio a detestare. La mia prigione, il mio carcere… non conosco nulla, non posso scappare.
L’ufficio in  cui mi  ritrovo  è grigio, anonimo .
Suzuki si rivolge ad un uomo dal volto serio e il capo ormai stempiato per l’età, seduto davanti ad un sofisticato computer intento ad osservarne lo schermo.
Quando la voce del mio accompagnatore lo raggiunge alza lo sguardo vigile piantandolo nei suoi occhi.
Parlavo giapponese, non riesco a capire cosa diavolo stiano dicendo, e quando gli sguardi si posano su di me vorrei urlargli contro.
“Vieni, siediti qui.” Mi richiama l’uomo che è rimasto sempre con me fino ad ora cingendomi le spalle e indicandomi delle poltrone di colore nero.
Stringo le mani tra le ginocchia in attesa.
Mi rifiuto di provare ansai, nonostante il mio ventre mi stia suggerendo quell’emozione.
La mia mente decide di non pensare, non ho intenzione di ricordare nulla, niente delle mie passioni e delle mie distrazioni. Sarebbe insopportabile. Sarebbe un suicidio.
Qualcosa si apre, è un rumore flebile ma definito. Alzo lo sguardo verso l’entrata per vedere qualcuno, un ragazzo.
Che ci fa qui uno così giovane?
Rivolge lo sguardo all’uomo alla scrivania e lo saluta con un inchino leggero ma cortese e una breve parola giapponese dal tono formale, per poi posare gli occhi su di me… o forse sul signor Suzuki.
Inizio ad osservarlo per bene, trattenendo involontariamente il respiro.
Avrà più o meno vent’anni. I capelli scuri gli ricadono sugli occhi neri senza però coprirli. Quegli occhi…profondi come un laghi notturni,  dallo sguardo così… surreale, eppure umano.
Una strana sensazione mi pervade, un misto di angoscia e curiosità.
I miei occhi si spostano ancora. Scendo ad osservare il collo, liscio e ben delineato, e poi il corpo. Non troppo esile ma nemmeno esageratamente robusto, semplicemente perfetto.
Indossa una semplice maglietta nera con dei jeans scoloriti, e le spalle sono coperte da un impermeabile grigio scuro.
“Questo è Keiji Yamashita.” Annuncia la voce di Suzuki accanto a me.
Improvvisamente qualcosa scatta.
Non serve che nessuno mi dica nulla. Ecco il mio custode, ecco il mio carceriere.
La presentazione che viene pronunciata dall’uomo mi passa sopra la testa mentre le mie orecchie colgono solo il freddo “Ciao” del ragazzo.
Rimango impietrita, tra l’incantato e il terrorizzato… e poi tutto passa lasciandomi dentro solo una malinconia nera.
“Sbrigati, non ho tutta la vita per aspettarti.” La sua voce è tagliente e dura, il che mi obbliga ad obbedire con un certo fastidio.
Mi alzo dalla sedia lanciando un’ultima occhiata al signor Suzuki che si inchina leggermente per congedarmi.
Altro passaggio di palla a quanto sembra.
Seguo il mio custode senza fare storie, non ne ho ragione.
Fuori dall’edificio ha smesso di piovere. Dall’asfalto sale un pungente odore di bagnato misto a smog mentre sopra i grattacieli della città il cielo rimane grigio scuro.
“Sali.” La voce di ghiaccio attira la mia attenzione mentre lui indica un’auto scura con il cenno del capo. Ora, alla luce esterna noto che i suoi capelli hanno dei strani riflessi di un rosso violaceo, probabilmente dovuti ad una precedente colorazione. Ignoro questa osservazione.
Mi avvicino al mezzo rimanendo interdetta non abituata alla guida contraria ma poi riesco a individuare quella che deve essere la mia posizione.
Salgo nel sedile accanto al posto di guida allacciando la cintura e dirigendo direttamente lo sguardo verso il finestrino.
Sento Keiji  salire accanto a me e mettere in moto la macchina. Sembra quasi che stia seguendo un copione.
Mi rannicchio su me stessa mentre sento la macchina iniziare a muoversi.
Osservo il paesaggio metropolitano scorrere come se fosse un semplice sogno con un termine preciso, senza curarmi dell’enorme differenza che c’è con il luogo in cui ho sempre vissuto.
Passa il tempo senza che ci sia un contatto con il ragazzo vicino. Sembra quasi che per lui io non esista.
“Dove stiamo andando?” Chiedo con il bisogno di sentire qualche parola, giusto per evitare di cadere nei miei ricordi.
“Dove andremo a vivere.”
“Andremo?” Certo, è ovvio che se mi deve tenere sotto sorveglianza non può separarsi, ma fino a questo momento ci ho almeno sperato.
“Per quanto scocciante il lavoro è lavoro.” Sibila tra i denti senza cambiare espressione.
Quei maledettissimi occhi attaccati sulla strada mi fanno rabbrividire.
Per lui ovviamente sono solo un dovere, come la merce per i mercanti… una merce scocciante.
Cerco di convincermi che per me quell’aggettivo è indifferente e torno a voltare lo sguardo verso il finestrino stringendo le ginocchia al petto.
“Nemmeno per me è un piacere.” Mormoro più a me stessa che a lui.
Qualcosa non va. Che succede?
Sono costretta a mettere giù i piedi e posare repentinamente le mani davanti a me. La cinghia di sicurezza scricchiola bloccandosi per la troppa velocità sfregandomi il collo.
Abbasso la testa tra le braccia.
Per un momento sono convinta di morire schiantata ma poi l’auto ritorna alla velocità normale.
Rimango ansimante, con i capelli mossi davanti agli occhi senza osare guardarlo.
“Sei… impazzito?” Mormoro terrorizzata.
“Non rompere il cazzo. Questa storia non è altro che una perdita di tempo per me, quindi taci e non complicarmi le cose.”
Rimango impietrita per la ferita. Non riesco ne a piangere né a urlare.
“Scusa se la mia famiglia è stata uccisa.” Ringhio riprendendo la mia posizione.
Sento l’anima nel mio petto andare in frantumi. In fondo dentro di me ne sono sicura, anche se vorrei ancora sperare.
Vorrei piangere, vorrei sentire gli occhi bruciare mentre urlo finché la mia gola regge, per poi sentirla spezzata e logorata, ma il mio dolore è troppo forte per essere sfogato solo così.
“Non me ne importa.” Risponde lui.
Vorrei ucciderlo. Lo farei senza pensarci due volte… eppure non posso.
Scapperò, questo è poco ma sicuro.
Devo vivere con questo qui? Meglio l’inferno… almeno che non sia proprio quello che mi attende il Regno Dannato.
Ma che ho fatto di male?
Perché tutto così velocemente?
Suicidio. Suicidarmi è l’unica soluzione.
Sì, presto la mia vita avrà fine… quindi perché frustrarsi? Nulla ha più importanza.
Sto impazzendo, ma chi può biasimarmi in questa situazione?
Eppure, se riesco a formulare pensieri del genere non sono ancora così fuori.
L’auto parcheggia e il rumore del motore cessa.
Rimango nella mia posizione, senza reagire.
“Sei senza cuore.” Dico, senza voler risultare offensiva o minacciosa, altrimenti avrei usato parole più dure… semplicemente ho il desiderio di fare questa constatazione.
Lo sento muoversi. Si avvicina.
Sento il mio stomaco contorcersi a quel movimento. Non lo guardo, i miei occhi sono fissi sulle ginocchia.
È vicino, sembra una pantera pronta ad attaccare la sua preda per poi divorarla lacerandone le carni.
Il piccolo cerbiatto ormai ferito non ha scampo.
Le sue labbra mi sfiorano l’orecchio e il suo fiato innaturalmente freddo mi accarezza il padiglione auricolare, le sue parole sono poco più che soffi di ghiaccio: “Non sai quanto è vero.”
  
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