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Autore: Fallen Star 91    02/05/2013    2 recensioni
Ho una ferita sul cuore che si riapre quando meno me lo aspetto cominciando a macchiare tutto quello che mi circonda. Allora mi porto le mani al petto cercando di tamponare il sangue che solo io posso vedere e lotto con tutta me stessa contro le lacrime perché, anche se mi hai messo al mondo e sei mia madre, non ti meriti il mio pianto e non devi sapere che anche a distanza di anni il tuo ricordo brucia, che la ferita che mi hai lasciato sul cuore sanguina ancora e non guarirà mai.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cosa vuoi sapere?
 
Due teiere fumano davanti a noi che ci guardiamo incuriosite ed imbarazzate, sedute l’una dirimpetto all’altra nel bar sotto i portici di Urbino. È maggio, il sole scalda i turisti e gli studenti che si godono il suo tepore dopo il lungo inverno, ma malgrado i 25 gradi io tremo come una foglia e i miei tentativi di mascherare i miei tremori non passano inosservati alla donna che mi siede davanti.
- Non pensavo avresti accettato il mio invito. Solo mi ha stupito che tu mi abbia chiesto di vederci qui.-
Con lo sguardo la donna abbraccia tutta Piazza della Repubblica distraendosi per un attimo dalla sua tisana e dai miei occhi castani. Silenziosa la osservo cominciando un’operazione che non ho mai fatto in vita mia: cercare i tratti in comune. I suoi capelli lisci e corvini sono raccolti in una lunga treccia che le scende lungo la schiena, la sua carnagione è scura, molto più scura della mia e i suoi occhi sono verde smeraldo il che mi porta a chiedermi dove io abbia preso i miei occhi color del cioccolato. È stanca per il viaggio e la sua espressione sciupata cozza violentemente con il mio aspetto ordinato e fresco malgrado la notte in bianco da cui sono reduce. Osservo i suoi abiti così inusuali per il posto in cui vivo: una casacca verde impreziosita da perline e ricami dello stesso colore e pantaloni di lino bianchi.
Il cameriere ci porta alcuni pasticcini e nell’appoggiare il vassoio sul tavolino getta un’occhiata perplessa a me e alla donna, dal suo sguardo riesco ad intuire le sue domande e prima che mi assalga la maleducazione lo fulmino con lo sguardo costringendolo a battere in ritirata dietro il bancone.
- Urbino è casa mia, il luogo in cui sbrigo le mie faccende ‘private’.-
Con nonchalance mi verso del tè dalla teiera e osservo la donna che mi sta dinnanzi mentre timidamente mi imita.
- Dove abiti?-
- Ad un’ora da Urbino, una cittadina sul mare di nome Riccione.-
La donna sorride cominciando a mescolare la sua tisana che emana un odore speziato che mi stringe lo stomaco già contratto.
- Nata e cresciuta in riva al mare, è parte di te.-
Sorseggia la sua bevanda lanciandomi un sorriso e un’occhiata affettuosa nel tentativo di mettermi a mio agio e di togliermi quell’espressione irritata dal volto.
- I tuoi genitori?-
- I miei veri genitori, intendi?-
La donna abbassa lo sguardo e per un attimo mi pento della cattiveria con cui ho detto quelle parole.
- Sono persone meravigliose, ho anche una sorella di tre anni più piccola.- prendo un sorso del mio tè senza staccare gli occhi dalla donna – A conti fatti non posso che ritenermi fortunata.-
La donna alza lo sguardo e torna a fissare la piazza apparentemente interessata dal passeggio dei turisti e degli universitari. Un uomo inglese si avvicina al nostro tavolino per chiedere informazioni e prontamente gli rispondo sfoderando tutte le mie conoscenze linguistiche e guardando con un pizzico d’orgoglio alla mia compagna.
- Parli bene inglese.-
- Studio lingue non per niente.-
- Ce lo hai nel sangue, figlia mia, tuo padre non per niente era …-
- No.- con un gesto stizzito appoggio la tazza sul tavolino e la fulmino con lo sguardo – Non voglio sapere niente di mio padre. Tu mi hai chiesto di vederti ed ora non ti permetterò di nasconderti dietro l’ombra di un padre fantasma.-
La donna appoggia a sua volta la tazzina ed allunga una mano verso la mia cercando di sfiorarla. Pessima idea: odio essere toccata dalle persone che non conosco e, anche se di fatto il mio corpo è stato a contatto con il suo per nove mesi, lei è per me una perfetta sconosciuta. Se ne accorge e ritira la mano delusa dalla mia diffidenza.
- Devyani.-
I miei occhi si alzano e tutto il mio essere viene percorso da un brivido mentre la sento pronunciare il mio nome con amore.
- Mi potrai mai perdonare? Mi potrai mai vedere come tua madre?-
Abbasso nuovamente lo sguardo cominciando a rigirare tra le mani la tazzina bollente. Le mie dita si ancorano intorno al manico di porcellana e lentamente sento il calore del tè diffondersi riscaldando le mie mani perennemente fredde.
- Ho molte domande.-
- È questo il prezzo? Qualche risposta?- la donna sorride sollevata.
- Non ho detto questo.-
Il suo sorriso scompare e per mascherare il dispiacere mia,… madre riprende a sorseggiare la sua tisana.
Una bambina dal tavolo accanto ci osserva incuriosita finché i rimproveri della mamma non la costringono ad interrompere quello scambio di sguardi. Avrà sì e no quattro anni, ma quei grandi occhi castani hanno capito tutto quello che c’è da capire.
Mia madre sorride alla bambina e la saluta appena sorridendole. Un’onda di gelosia mi assale e subito mi chiedo quante volte ha sorriso a me con la stessa sincerità con cui lo fa adesso con una perfetta sconosciuta.
- Bene dunque.- finalmente decide che quella pagliacciata debba avere fine – Cosa vuoi sapere?-
- Perché?-
- Perché, cosa?-
- Perché mi hai abbandonata?-
- Per salvarti la vita.-
Mi abbandono sulla sedia e la guardo scettica: quella che ho davanti non è un’eroina, forse la mia mente mi ha venduto questa idea per qualche tempo nel tentativo di giustificarla, ma ora non la vedo assolutamente come tale.
- La versione ufficiale?-
La donna abbassa lo sguardo e mescola quel poco di tisana che le bagna il fondo della tazza.
Silenzio. Tendo tutti i muscoli del mio corpo e ingoio a fatica preparandomi ad incassare il colpo che tarda ad arrivare  domandandomi quali danni farà.
Ancora silenzio. La donna alza malinconica lo sguardo facendomi intuire che non ha una risposta o meglio, che ne ha diverse e una peggiore dell’altra: troppo gracile, figlia di ragazza madre, non desiderata, figlia di una prostituta di Calcutta, …; mi basta guardare i suoi occhi verdi per leggere tutte queste risposte ed ognuna di esse mi prende come un pugno nello stomaco.
Quel silenzio carico di parole segna la fine del primo round: un bel pareggio.
Mi aggiusto la sciarpa marrone intorno al collo guardando disinvolta intorno come a fargli capire che questo è il mio territorio, che io gioco in casa a differenza sua.
- Ti dona quel colore.-
- Me l’ha regalata la mia mamma per Natale.- ancora quella punta di acidità di cui subito mi pento – Il mio Bro dice che sulla mia carnagione muore un po’ e questi capelli corvini non aiutano. Ad ogni modo per quelli come me è un po’ difficile separare il marrone dal nero.-
Mi lascio scappare un sorriso.
- Il tuo Bro?-
- La mia migliore amica.-
La donna mi guarda senza capire e si sporge verso di me guardandomi interessata: vuole sapere la storia del ‘Bro’ e qualcosa mi dice che non si accontenterà di una risposta approssimativa. Ed ora da dove comincio?
- È un gioco: lei è Thor e io sono Loki; visto che sono due fratelli tra di noi ci chiamiamo ‘Bro’, l’abbreviazione di ‘brother’: ‘fratello’. È un po’ più immediato di ‘Devyani’, non ti pare?-
La donna continua a guardarmi disorientata e i suoi occhi chiedono ulteriori spiegazioni.
- Thor e Loki sono due fratelli: Thor è buono e bello e Loki è cattivo, dai capelli corvini e adottato.- i miei occhi si posano inquisitori su quella donna decisi a farla sentire colpevole per il mio stato di figlia ‘adottata’ – Ne combinano di tutti i colori, ma alla fine sanno sempre di poter contare l’uno sull’altro e, anche se sono sempre in lotta, si vogliono bene. Tra me e la mia migliore amica è esattamente lo stesso: ce ne combiniamo di tutti i colori, ma ci vogliamo molto bene.-
Mia madre mi guarda rattristata, quasi delusa dal constatare che tra i due fratelli io sono quello cattivo. I miei occhi intuiscono il suo dispiacere.
Cosa vuoi mamma? Se tu non avessi fatto cazzate io non sarei così, non sarei Loki, non sarei il lupo diffidente e intrattabile che sono diventata negli anni.
Abbassa lo sguardo, quasi avesse letto i miei pensieri, decidendo che quella spiegazione le basta.
- Hai delle amiche, dunque.- il suo tono è a cavallo tra lo stupito e il compiaciuto e ciò mi irrita alquanto.
- Sì.- l’orgoglio mi fa alzare lo sguardo e agitare i capelli corvini che si disperdono nella brezza prima di ricadere sul mio volto in una cascata di ciuffi neri e disordinati.
- Sei il fratello cattivo.-
- Sì.-
- Perché? Cosa hai fatto per meritare questo titolo?-
- Cosa tu hai fatto per farmi meritare questo titolo.- il mio indice si leva minaccioso ed inquisitorio.
La donna abbassa lo sguardo. Uno a zero per me.
- La storia dell’abbandono.- mi passo una mano tra i capelli come a voler raccogliere le idee – Non l’ho mai digerita e temo non ci riuscirò mai. Mi hai ferito, sei stata una vigliacca. Ero piccola, una bambina innocente ed ho pagato io per le tue cazzate.-
La donna si asciuga un occhio, ma le sue lacrime non indeboliscono anni e anni di domande e pianti.
- Ho una ferita sul cuore che si riapre quando meno me lo aspetto cominciando a macchiare tutto quello che mi circonda. Allora mi porto le mani al petto cercando di tamponare il sangue che solo io posso vedere e lotto con tutta me stessa contro le lacrime perché, anche se mi hai messo al mondo e sei mia madre, non ti meriti il mio pianto e non devi sapere che anche a distanza di anni il tuo ricordo brucia, che la ferita che mi hai lasciato sul cuore sanguina ancora e non guarirà mai. Passo le notti sveglia a scrivere, quando succede, e ti penso. Una parte di me ti odia, un’altra ti è grata e piange. Chi mi sta accanto dice che ti dovrei ringraziare, che hai fatto il gesto più bello che si potesse fare. Una parte di me si ostina a crederci, perché forse rigetta l’idea di essere una figlia non voluta e vuole credere che ci sia stato dell’amore all’inizio del mio cammino. La parte più realista di me annuisce a quelle voci mentre scuote sommessamente il capo ripetendomi che ero un peso, niente di più.-
La donna rimane in silenzio ad ascoltarmi attentamente. Piange, anche se cerca di mascherarlo in tutti i modi. In questo siamo uguali, nemmeno io amo farmi vedere mentre piango.
- Sappi che la ferita che hai sul cuore la porto anche io. Dicono che chi abortisce si porti il peso di quella vita spezzata per tutta la vita, io sto portando il peso del tuo abbandono.-
La guardo scettica.
- 24 agosto 1991, 24 ottobre 1991. Finito lo svezzamento mi hai appioppato alle suore. Hai portato a termine il tuo compito, l’unico che ti fosse richiesto e che, oltre al parto, nessuno poteva fare al posto tuo. Lo hai sbrigato in fretta e dopo appena due mesi mi hai scaricato come un peso.- la mia voce è un sibilo carico di dolore – Ed ora sei qui a recitare il ruolo della vittima che porterà per tutta la vita il peso del suo errore.-
I nostri occhi si incontrano a mezz’aria carichi di tristezza.
- Se non mi volevi, se avevi in mente di scaricarmi come un rifiuto alla prima porta perché non l’hai fatta finita prima che nascessi? I mezzi non ti mancavano.-
Un brivido corre lungo la mia schiena: ho appena chiesto a mia madre perché non mi ha uccisa, che razza di domanda è?
La donna si morde il labbro indecisa su cosa rispondere. Il suo silenzio mi fa temere il peggio e nuovamente mi ritrovo a contrarre i muscoli e a prepararmi al colpo.
- Ci hai provato ma hai fallito?-
Nessuna risposta, nessuno sguardo, nessun gesto. Ho davanti una statua.
- Per favore rispondimi.-
- Ero giovane e spaventata.- la donna comincia a giocare con la tazza vuota – Non me lo ricordo.-
Mente. Lo so benissimo ma decido di lasciare perdere.
Una bambina ci passa accanto e zampettando raggiunge la sua mamma, le sue braccia si alzano verso la donna che subito la prende e se la porta al petto cominciando a cullarla. Entrambe osserviamo quella scena e nuove domande mi assalgono.
- Che madre pensi sarò?-
La donna mi guarda senza capire.
- Che madre potrò mai essere?-
- Sarai la madre che vorrai essere e sarai migliore di me.-
Su questo non ci piove, forse, e ad ogni modo quella risposta falsa ha solo l’effetto di farmi innervosire ancora.
- Ogni tanto ci penso.- la guardo con il mio fare inquisitorio – Ai miei ipotetici figli. Penso al loro aspetto e mi chiedo se dovranno passare per quello che ho passato io per via di questo.-
Con un gesto abbraccio tutta la mia figura: dai capelli corvini alle braccia scure.
- Cosa ti spaventa?-
- Il non riuscire a trattarli con amore. Sarò una madre fredda ed incapace di colmare il loro vuoto.-
La donna riflette un momento e trae un lungo sospiro.
- Tua madre che esempio ti ha dato?- dire quelle parole le provoca dolore, lo sento come la brezza e il sole sulla mia pelle.
Penso a mia madre: alle ore passate a farci le coccole sul divano che, con il passare degli anni, diventava sempre più piccolo e scomodo per il mio corpo in continuo cambiamento. Penso alle sere passate a guardare i film, alle chiacchiere e ai battibecchi che di tanto in tanto risuonano nel corridoio di casa mia. Penso alla sua preoccupazione nel vedere un taglio microscopico sulla mia mano e alla sua tenerezza, forse inopportuna, nel medicarmelo. Penso a tutte queste cose, alla sua dolcezza, al suo essere madre.
Vorrei risponderle, ma non riesco ad ordinare le idee per cui torno a fissare la bambina che dorme tra le braccia della sua mamma.
La donna mi sorride, intuendo le parole del mio silenzio. Un’altra cosa in cui ci assomigliamo: basta uno sguardo per capire cosa vogliamo dire.
- Hai qualche foto?-
Tiro fuori il portafoglio e prendo un paio di fotografie insieme ad una banconota da 10 euro.
Lei prende le due foto e le osserva attentamente: la prima è in bianco e nero ed è la mia prima fotografia, scruto il volto della donna cercando tracce di commozione senza tuttavia trovarne. dopo aver dato un’ultima occhiata alla prima foto passa alla seconda: la prima fotografia scattata con la mia famiglia al mio arrivo in Italia, anche in questo caso la studia interessata accarezzando  uno ad uno i presenti. Le sue dita mentre accarezzano la carta mi danno fastidio e mi trasmettono la spiacevole sensazione che voglia infilarsi in una storia e in una vita che non le appartiene e in cui, per quanto mi riguarda, può solamente recitare un ruolo minore.
Mi rende le due foto nel momento stesso in cui il cameriere mi porta il resto.
Ci alziamo e muoviamo qualche passo verso la fontana facendoci coccolare dal tepore del sole. Nel passeggiare lei cerca la mia mano, ma io mi allontano prontamente facendole ben capire che non ha ancora il permesso per toccarmi. Arriviamo fino alla fontana e li rimaniamo a lungo in silenzio. Un sms del mio Bro, sa dove sono andata ed è preoccupata per il mio silenzio e il mio ritardo.
Ehi, come sta il mio Bro problematico? :P
La donna si sporge e legge il messaggio capendo subito a cosa la mia amica si riferisca.
- Se devi andare vai.-
La guardo cercando di trattenermi dal fuggire sotto il portico e sparire tra i vicoli e le salite di Urbino.
- Il mio Bro ha fame e i patti sono che io cucino e lei lava i piatti.-
- Sei brava a cucinare?-
- No, ma visto che nemmeno la mia amica è uno chef non fa complimenti e prende quel che le passa il convento.-
La donna sorride al pensiero di me tra fornelli e pentole.
- Ciao Devyani, mi ha fatto piacere vederti e parlarti.-
Si avvicina bruciando la distanza di sicurezza, il mio corpo si tende ma quando la sua mano sfiora la mia guancia decido di lasciarla fare conscia del fatto che non la rivedrò mai più. Le sorrido timidamente e mi allontano salutandola con pochi salamelecchi. A passi svelti torno sotto il portico e quando mi volto verso la fontana lei è già sparita tra i turisti e gli studenti.
Non so nemmeno come si chiama, ma non ha importanza.
   
 
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