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Autore: suni    24/11/2007    1 recensioni
Peter è ingenuo, generoso, sognatore.
Nathan è pratico, ambizioso, egoista.
Ma hanno qualcosa in comune.
Qualcosa che li porterebbe anche a morire uno per l'altro.
(NO incest)
Previsti SPOILER dopo il capitolo 10, ora che ho finito la season II mi posso sbizzarrire...
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Claire Bennet, Nathan Petrelli, Peter Petrelli
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Parola tremante nella notte (Fratelli)

 

Serie di istantanee incentrate su Nathan e Peter, durante tutta la prima stagione di Heroes, legate ad alcuni momenti particolari del loro burrascoso rapporto. L’intenzione è di andare in ordine cronologico, ma si vedrà.

Titolo tratto da Ungaretti, l’avrete tutti notato ma è meglio specificare per correttezza: è un verso –in realtà due versi- della poesia “Fratelli”,  che è anche citata tra parentesi.

Spero possano risultare di vostro gradimento.

suni

 

I. Solo Peter

(il bambino che volava e non voleva crescere)

 

 

Da bambino gli piaceva farsi lanciare in aria. Si gettava tra le braccia del suo fratellone prendendo la rincorsa, e quel ragazzo tanto più grande di lui lo scaraventava su e lo riprendeva  al volo appena prima che lui toccasse terra.

Era come volare. Strillava d’euforia strizzando appena gli occhi e ascoltava i suoi polmoni comprimersi in quel momento del salto in cui si sentiva precipitare.

Dieci anni di differenza d’età non permettevano ai loro mondi d’incontrarsi davvero: Nathan era già ragazzino, aveva i suoi amici, la scuola, i passatempi da grande. Ma in quei momenti in cui non aveva di meglio da fare che giocare con lui, tutto il suo mondo diventava più luminoso.

Volava.

E crescendo tutto era rimasto uguale. Tra i sei e i ventisei anni il suo rapporto con Nathan non era granché cambiato, da quel punto di vista. Per certe cose s’erano avvicinati, quando anche lui aveva smesso d’essere un bambino. Per altri versi, la vita invece li aveva allontanati. La politica, il successo, il potere, l’immagine. Il mondo di Nathan. Così lontano e diverso dal suo, profumato di malattia, di medicinali, di silenziose agonie. Con una tracolla in spalla e una giacca spiegazzata, i capelli sempre in faccia e la scarsa voglia di apparire, di essere visto.

Timido, schivo, imbranato, silenzioso, sognatore, la lista degli aggettivi con cui veniva etichettato in famiglia poteva prolungarsi all’infinito, ma il significato era il medesimo, ed era che mentre Nathan era fatto per le luci della ribalta, lui aveva un destino silenzioso e invisibile, come uno qualunque. A lui bastava il suo lavoro da infermiere, la sua famiglia su cui contare e da aiutare, il suo pugno di amici e il suo alloggio qualunque. Peter, niente di più.

Era vero. Tutto questo poteva sembrare ben poco ad occhi esterni, ma lui ci credeva. Era il suo mondo, e il punto non era che non bastasse, perché bastava. Il punto era che non stava scritto da nessuna parte che dovesse essere così per sempre. Il punto era che un bel giorno lui poteva benissimo svegliarsi e decidere che no, che non era semplicemente Peter, che era speciale. Niente lo impediva.

E quel giorno era arrivato.

Sollevò gli occhi verso il cielo pallido e nuvoloso, finalmente sgombro delle sagome squadrate dei palazzi. C’era una leggera brezza molto poco metropolitana che gli sembrava di buon auspicio. Sorrise tra sé, inspirò per mantenere la calma, e allargò appena le braccia.

Da bambino, il solo sentirsi rivolgere la parola da suo fratello lo riempiva d’orgoglio. E quando il suo rapporto col padre s’era incrinato, fino a spezzarsi irrimediabilmente –non era nemmeno venuto alla festa, la sera dell’incidente di Nathan- si era istintivamente appoggiato sul fratello maggiore. Ed era stato brutto percepire via via il suo distacco.

Perché Nathan non era come lui, non lo era mai stato. Nathan non avrebbe fatto granché se fosse stato in un guaio serio, probabilmente. Anche se amava ripetere a se stesso il contrario, se amava dirsi che suo fratello lo considerava importante almeno quando faceva lui, Peter cominciava a non riuscire più a crederci. Cominciava a dubitare che in caso di pericolo lo avrebbe aiutato più di quanto fosse strettamente necessario per non essere accusato d’indecenza.

Era un pensiero triste, forse il più triste che potesse venirgli in mente. Era doloroso vedere suo fratello sempre più lontano, era terribile scorgere nei suoi occhi quella scintilla d’indifferenza e di vago compatimento di chi osserva un perdente. Ma non poteva più far finta che fosse solo la sua immaginazione. Non dopo questa storia dei sogni, non dopo essersi praticamente fatto dare del povero pazzo inutile da Nathan senza tanti complimenti.

Gli voleva bene, suo fratello?

Sì, questo sì. Gli voleva bene perché era il piccolino e perché erano fratelli. Era un legame che anche volendo non avrebbero mai potuto cancellare. Come quando aveva sognato l’incidente proprio mentre avveniva, con sua cognata che si schiantava con la macchina. O più banalmente come quando Nathan si accorgeva che lui aveva fatto un brutto sogno anche prima di sua madre, da ragazzino, ed arrivava per primo accanto al suo letto stringendogli la mano senza dire niente.

O forse gli voleva bene perché doveva farlo, appunto, perché erano fratelli. Forse era l’unica ragione per cui ancora, se non lo appoggiava nei fatti, per lo meno non gli negava il proprio sostegno; non ancora. Ma lui non valeva, comunque, quanto una campagna elettorale.

Lui di campagne elettorali ne avrebbe mandate a monte a dozzine, se fosse stato lui quello da votare e Nathan ad avere bisogno d’aiuto. Avrebbe staccato dal muro il cartellone con la propria fotografia sorridente e sarebbe corso a casa di suo fratello a vedere che poteva fare per lui, e tanti saluti al Congresso. Ma Nathan era diverso. Nathan era Nathan, e a lui andava bene così com’era. Solamente, ogni tanto avrebbe voluto che anche per il fratello valesse lo stesso principio.  Invece no: per il primogenito dei Petrelli, non si trattava del fatto che Peter era Peter ed andava bene così, no; Peter era solo Peter e quindi andava bene così.

O forse no. Forse stava pensando troppo. Ma era confuso, spaccato tra un nervosismo spaventato ed un’ansia febbrile ed euforica, da giorni. Tutto si faceva nebuloso, a pensarci così, attraverso il filtro dell’aspettativa che ormai non riusciva più a tenere sotto controllo.

Sentì il motore della macchina che si avvicinava e sorrise istintivamente, vittorioso; era arrivato il suo momento. Finalmente Peter non sarebbe stato più soltanto Peter e Nathan avrebbe dovuto ammettere la realtà dei fatti. Badando a rimanere a filo oltre il bordo del tetto, per non essere ancora visto –anche se Nathan non era proprio il tipo da perdere tempo a guardare per aria- si sporse appena per guardare verso il basso, e vide il fratello scendere dal taxi con il cellulare incollato all’orecchio. E immediatamente il suo telefono vibrò silenzioso contro il suo fianco.

Lo trasse dalla tasca della giacca, con calma, e premette il tasto della ricezione.

“Ok, sono qui,” lo informò Nathan attraverso l’apparecchio. Annoiato, impaziente di tornare ai suoi doveri di candidato, probabilmente.

“Bene,” rispose lui tranquillo.

E non stette a sentire la risposta, ma allungò la mano al di sopra del baratro e lasciò cadere il proprio telefono nel vuoto, in cuore la ruggente certezza che in quello stesso momento la sua vita stesse per cambiare per sempre.

“Cosa vuoi che faccia adesso?... Peter?”

Suo fratello sollevò lo sguardo verso l’alto nell’udire il rumore dello sfortunato oggetto che andava in frantumi schiantandosi a terra; l’idea di poter fare la stessa fine sfiorò la mente di Peter solo per un secondo e ne fu ricacciata con sicurezza, mentre lo sguardo di Nathan correva sempre più in alto fino a raggiungere la sua sagoma sul cornicione del palazzo.

“Sono rimasto sveglio tutta la notte a pensare a questo. A pensare al mio destino,” urlò il più giovane con sfida, guardando verso il basso trionfalmente.

Nathan Petrelli non era più il candidato del Congresso, d’improvviso, e Peter se ne rese conto con istintiva soddisfazione: la maschera di compostezza era andata in frantumi, lo sguardo spaventato e atterrito del maggiore era fisso su di lui con urgenza e paura.

Paura per il suo fratellino, troppo preso dagli eventi per rendersene conto.

“Cosa stai facendo, Pet?” domandò ansioso, febbrilmente riflettendo su cosa fare e come fermarlo, impotente.

“È il mio turno di essere qualcuno, Nathan.”

Una constatazione. Un velo che si apriva mostrando al Congress man quel che non aveva mai saputo vedere, immerso nel rincorrere il trionfo e la posizione favorevole al successo.

“Dai, Peter, smettila di fare l’idiota,” intimò cercando in qualche modo di trattenere la paura, che diventò terrore muto e totale nel momento in cui Peter spalancò le braccia e chiuse gli occhi, la testa appena sollevata verso l’alto.

Solo per un istante, per prendere fiato e calmare il proprio cuore infiammato, Peter tenne le palpebre serrate e rimase immobile, ignorando il fratello giù in strada, ignorando tutto quel che non era lui stesso. Riaprì gli occhi e sporse il piede nel vuoto, poi si lasciò cadere.

Il suo momento.

Nathan lo vide venir giù come un fantoccio di stoffa, a volo d’angelo. Per un istante lo rivide bambino, quando si faceva lanciare per aria e gli franava addosso come una slavina, facendosi afferrare, e pensò soltanto che lo doveva fare di nuovo, in qualche assurdo modo, che non poteva stare a guardare mentre suo fratello si sfracellava al suolo e gli moriva davanti, perché non l’avrebbe potuto sopportare e sarebbe andato in pezzi anche lui, dentro.

L’istante dopo era per aria, di nuovo, sfrecciava addosso a Peter e lo afferrava con tutte le sue forze, prima ancora di aver capito esattamente come, solo pensando che per nessuna fottuta ragione al mondo doveva lasciarlo andare, e lo chiamò, con tutta la rabbia e la paura che il suo gesto gli aveva fatto esplodere addosso, unite al sollievo di vederlo ancora respirare.

“Peter!”

“Stai volando, Nathan,”

Stupore, voce quasi infantile. Peter lo guardava con gli occhi sgranati, appeso alle sue braccia col vuoto sotto i piedi.

Non era lui quello che volava. Era Nathan. Suo fratello volava, era meraviglioso.

“Stai volando,” ripeté allibito. “Come fai?”

“Non lo so,”

Non lo sapeva, no. Non era proprio che si fosse messo a rifletterci su, in quella situazione, o a chiedersi se fosse il caso di fare a pezzi allegramente ogni legge fisica e spararsi per aria alla faccia della forza di gravità: aveva pensato solo che lo doveva salvare, il suo Peter.

Quello stesso Peter che in quel momento perse la presa e, nonostante la mano di Nathan stretta spasmodicamente su di lui, precipitò di nuovo verso terra.

“NOO!”

L’urlo di disperazione del fratello fu l’ultima cosa che Peter sentì. Curiosamente gli parve d’impiegare molto tempo a toccare terra, ma quando lo fece doveva essere già svenuto.

Nathan invece lo guardò andare giù con la morte negli occhi, nel sangue, nei polmoni  nello stomaco. E gli si spezzò il fiato con un gemito incredulo quando lo vide rallentare la caduta, a pochi metri da terra; come se avesse aperto il paracadute Peter planò quasi delicatamente a terra, anche meglio di quanto avrebbe potuto fare lui che, a quanto pareva, volava.

Raggiungendo il suolo più in fretta che poté gli si precipitò addosso, singhiozzando di sollievo nel constatare che effettivamente era vivo.

“Fottuto pazzo,” sibilò tra i denti perdendo la calma e lasciando affiorare la tensione e l’angoscia provate in quei momenti di terrore. “Sei fuori di testa, maledizione,” mormorò con voce spezzata, stringendo la mano sulla spalla del fratello incosciente con più forza di quanto si rendesse conto e soprattutto con un’urgenza che lasciava pochi dubbi sull’effettiva natura del suo sbotto, non d’ira ma di sollievo.

Recuperò il proprio cellulare, affrettandosi a chiamare un’ambulanza.

E poi si sedette a terra, la mano ancora poggiata non più sulla spalla ma sulla testa di Peter, tra i capelli. La lasciò lì immobile mentre studiava il volto assente del ragazzo, facendo mente locale.

Volava, anche lui.

Gli sfuggì un sorriso incontrollato, cento volte più vero di quello del manifesto elettorale.

Era proprio suo fratello, quel demente.

 

 

 

 

 

 

 

Note di chiusura:

Il dialogo tra Peter e Nathan probabilmente è diverso da quello che conoscete: me ne scuso, ma io non ho visto il telefilm in italiano e ho tradotto direttamente dalla versione originale, probabilmente in modo diverso da quello dei doppiatori. L’ultima parte, invece, è ovviamente farina del mio sacco. E, per la precisione, anche il “bene” che Peter esclama al telefono è roba mia: ho pensato che ci stava bene che dicesse almeno una parola, e del resto nella puntata non si capisce bene se non risponde o se noi non sentiamo la risposta attraverso il telefono di Nathan.

Anche l’episodio dei giochi infantili dei due fratelli è mia invenzione, e mi sembra abbastanza verosimile. Io quel gioco con mio fratello lo facevo in continuazione, come quello di farmi roteare intorno a lui tenendomi alle sue mani; una volta mi ha quasi ammazzata perché ha perso la presa e io mi sono andata a schiantare contro il muro. Eh, i fratelli…

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