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Autore: Sundy    06/09/2004    4 recensioni
" Da ragazzo volevo solo fare il pilota, ma mio padre mi disse: ‘ un giorno tu sarai ammiraglio ’. Il caffè mi brucia la lingua. Avevamo una vanship, smontata e rimontata pezzo per pezzo almeno un centinaio di volte,che per noi era l’essenza dello studio, della ricerca. Alex e Yuris sapevano volare come io non ho mai fatto "
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Proserpina agli Inferi  

Quando tornavo nella mia stanza, la sera, c’era sempre un ospite compromettente ad occupare il mio letto, il mio tappeto, la mia scrivania, altre cose mie che non ricordo…Il caffè bollente mi scalda le mani intorpidite dalla veglia e dal gelo di questa notte ventosa. La nave scivola rapida sul mio turno di guardia. I sottufficiali fanno la ronda sul ponte, rivolgendomi, di tanto in tanto qualche occhiata distratta. Cercano conferme da un autorità che è poco più grande dei figli di alcuni di loro. Ricambio distratto i loro sguardi e capisco l’inutilità delle stellette che porto sull’uniforme, solo perché il caso mi ha fatto nascere nobile, invece che figlio di nessuno. Da ragazzo volevo solo fare il pilota, ma mio padre mi disse: ‘ un giorno tu sarai ammiraglio ’. Il caffè mi brucia la lingua. Avevamo una vanship, smontata e rimontata pezzo per pezzo almeno un centinaio di volte, migliorata in ogni sua parte con accorgimento che rasentavano l’illegalità, ma che per noi erano l’essenza dello studio, della ricerca. Alex e Yuris sapevano volare, lo facevano come io non ho mai fatto. Anche allora c’era la guerra. 

Il giovanissimo capitano della flotta di Sua Maestà Imperiale Vincent Arthai bevve un altro sorso di caffè bollente, che non aveva più sapore nella bocca ustionata o odore nel naso chiuso. Forse con la primavera imminente il suo umore, il suo naso e i suoi polmoni sarebbero migliorati. Ma nel buio umido della notte, i ricordi lo tenevano saldamente per mano, anche se il vento soffiava tanto forte da superare il rumore di qualunque parola. La voce, lo sguardo luminoso, i capelli lucidi, la risata infantile, la pelle rosata, la fiducia incrollabile, l’entusiasmo... tutto continuava a tornargli in mente come un’ossessione, come quando li amava troppo entrambi per dare retta a quella girandola di immagini che tornavano tutte a un unico punto. Come allora c’era il dolore, ma era un dolore diverso.Si chiese se esistesse qualcuno al mondo in grado di dirgli dove si trovava Alex in quel momento, ma la risposta era scritta a chiare lettere nel rombo inumano che saliva dalle profondità infernali della notte.  

Ignorando il pudore, le buone maniere, la convenienza e il regolamento, lei entrava nella nostra stanza in qualunque ora del giorno. Portava notizie clamorose, risultati di esami impossibili, espulsioni, promozioni, gare di vanship, lettere di suo padre in cui arrivavano gli ultimi echi della guerra, che dalla grande terrazza dell’Accademia era solo un fuoco d’artificio lontano, e una lezione da imparare per l’esame di fine mese. Portava grandi problemi e grandi tematiche in quella stanza con le pareti rosso vino, intrisa di un silenzio coltivato dal mutismo di Alex e dalla mia introversione. Rimanevamo svegli fino a notte fonda a discutere su quale sarebbe stato il modo migliore di terminare quella guerra, e mi spiazzava la sua prontezza, la devozione politica, e le si illuminavano gli occhi ogni volta che Alex abbandonava la sua apparente indifferenza per esporre le sue idee, qualunque esse fossero.   

Appariva nei suoi pensieri con la stessa rapidità con la quale irrompeva nel mausoleo silenzioso della stanza, con la stessa freschezza, la stessa energia… insieme componevano poesie scherzose in lingua antica, prendendo in giro compagni e professori. Alex, che di natura non era un letterato, li ascoltava sorridendo appena. Quando tornavano da una guardia di punizione, Yuris gli faceva trovare nascosto sotto lo scrittoio quello che era riuscita a rubare dalla mensa, a cena. Ogni tanto riordinava la confusione che la loro trascuratezza generava in quella piccola stanza. Ogni tanto li svegliava prendendoli a cucinate. Appariva nella luce del mattino così come un attimo prima era scomparsa dai suoi inconfessabili, torridi sogni, trasfigurata dai desideri che durante la veglia reprimeva con tutte le sue forze. Li amava troppo entrambi. Con gli occhi serrati, fingendo di dormire, ascoltava i loro baci, i loro respiri appena appesantiti, le parole sussurrate a stento per augurarsi la buonanotte. A volte osava stringersi a lei col pretesto di un incubo, o di uno spiffero gelido che filtrava dalla finestra rotta. A volte, tornando dalla lunghe passeggiate serali alle quali si era abituato per lasciare ai compagni un po’ di intimità, la trovava sveglia, a leggere i suoi libri. Sorrideva, indicando la testa bruna di Alex affondata nel cuscino e scandiva sottovoce “ si è appena addormentato!” come una bambina che gioca a fare la mamma. E Vincent non dimenticava mai di prenderla in giro per questo. Avevano una vanship che era stata modificata al punto da bastare a spedirli in galera, e che era il loro passaporto per il futuro. Col tempo, Vincent smise di alternarsi con Yuris nel ruolo di navigatore e dimenticò il numero di serie di alcuni dei pezzi che avevano introdotto clandestinamente nel motore, ma anche allora erano felici…   

Col tempo, ho perso poesia. Non che mi dispiaccia, anzi, forse è un modo più autentico di essere, per me. Ma se devo comporre come se scrivessi un rapporto non ha senso continuare…Il caffè è diventato acqua tiepida, scorre indifferente sulla lingua, e non mi piace. 

Marius non partecipò alle onoranze funebri di sua figlia Yuris. Neanche Alex. Vincent credeva di conoscerla bene, di conoscere il suo mondo, ma nella moltitudine di sconosciuti che piangevano per lei non riconobbe nessuno. Rimase a guardare il feretro da un angolo della grande cattedrale, troppo stordito per accorgersi della rabbia che gli gonfiava il petto sotto il martellare monotono di banalità tanto lontane da quegli occhi e da quelle mani calde da non dare neanche la fugace impressione di essere dedicate al suo ricordo. Teneva gli occhi inchiodati sulla targhetta metallica dove sapeva, avevano inciso la data della sua nascita, e la data della sua morte. Le uniche cose che, in quell’afa e in quel rumore, continuavano ad avere un senso. Quando suo padre lo spinse a prende la bara, ubbidì quasi meccanicamente. Il sarcofago di Yuris era ridicolmente leggero. Il rombo di tempesta perenne del Grand Stream è diventato un richiamo distinto, tra il vento che fischia e le nubi che si accavallano. Ci stiamo avvicinando troppo. Ci allontaneremo presto. “capitano, c’è qualcosa nell’aria…”mi sporgo oltre il parapetto, attraversa veloce le nuvole, cade nel buio, un pezzo di carta, di stoffa, arrivato da chissà dove, vomitato dal mostro più grande che abbia mai abitato questo cielo Sulla parete c’era un cartello: ‘non scrivere sul muro e non battere sul pavimento ’. Cercò di appoggiare i piedi, prigionieri dei suoi stivali pesanti, da soldato, il più leggermente possibile. Alex era avvolto nella penombra, un infermiere gli stava cambiando la benda. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non lo fece, ubbidendo ad un inspiegabile attaccamento ad una rigidità marziale fuori luogo.“ Alex… ora è tutto finito. Imbarcati sulla mia nave” disse cercando di sembrare rassicurante e autoritario. L’occhio spento dell’amico si accese di colpo penetrandolo da parte a parte, incenerendo la sua presunta aria di dignità. L’infermiere finì di fissare la benda e uscì in silenzio dalla stanza. Vincent sentì la sua voce spezzarsi ancora prima di ricominciare a parlare“ Alex… come è successo..? io non.. nessuno mi ha saputo dire nulla..e tutti dicevano che era pericoloso ma che erano sicuri che avevate buone possibilità di…”lo guardò rovesciare gli occhi all’indietro, schiudere le labbra, sospirare, si prese il viso tra le mani, tremavano, un brivido freddo, paura, orrore “Alex….era così leggero” disse in un gemito spezzato. Il bicchiere passò veloce a pochi centimetri dalla sua testa, e si frantumò sul muro. A Vincent tornò in mente il cartello… non battere sui muri, non scrivere sul pavimento…“ vattene...” scandì piano Alex, dal fondo della penombra, un barattolo di disinfettante stretto nella mano. Uscì, e attese pazientemente nel corridoio che le sue grida di rabbia e il rumore di cocci spaccati si sciogliessero nella brezza primaverile che ripuliva l’ospedale, dalle finestre aperte, e asciugava i lenzuoli stesi al sole. 

Il pezzo di stoffa si allontana fluttuando, tra le nuvole nere… ci è passato abbastanza vicino da poterne immaginare la consistenza, forse abbastanza da poterlo toccare.“ lo recuperiamo, capitano?”
Ho sulla lingua la rabbia cattiva degli ubriachi “ e come pensa di fare, caporale?”
Mi guarda come se conoscessi un modo per strappare qualcosa che cade al vuoto che lo risucchia
“ si butti a prenderlo, se le interessa, caporale”
“ ma capitano...”
Sento una goccia di pioggia tagliarmi la faccia “Si butti. Non è un ordine, solo se le fa piacere”Sento addosso il disprezzo degli uomini che ci si sono riuniti intorno.
“ ci sono problemi, capitano?” mi chiede un uomo alto che potrebbe stordirmi con una carezza
“ nessuno, sergente… è solo qualcosa che fluttuava nell’aria”La barba del gigante si imperla della pioggia che scende, a gocce grosse, dalla pancia del mostro
“A volte precipitano cadaveri di uccelli morti, dal Grand Stream”
 

L’uomo alto vide il giovane capitano accartocciarsi sotto il suo sguardo nel lungo cappotto blu, che gli copriva l’uniforme piena di stelle e mostrine, ricordi di chissà quale battaglia combattuta da un antenato qualunque. Pensò che quella guerra doveva essere cominciata molto prima che il ragazzo accartocciato dentro l’alta uniforme cominciasse a sentirsi raccontare, da un padre in alta uniforme, che sarebbe diventato un ufficiale della flotta di Sua Maestà Imperiale. Pensò che ragazzi come quello erano troppo giovani per rischiare la vita, davvero troppo giovani per comandare una nave, per tutto quel sangue, quella distruzione, quei saluti rigidi, quegli sguardi immobili mentre le navi alleate affondavano davanti agli occhi. Ora il ragazzo tornava con passo incerto verso la sua tazza di caffè ormai freddo, annacquato dalla pioggia, che scendeva sempre più fitta. Alzò gli occhi verso il Grand Stream che ruggiva come un mostro marino, e pensò che era davvero un mostro enorme, che bisognava essere pazzi, a volerci volare in mezzo. Bastava guardarlo per capire che era una follia. Bastava avergli volato accanto. A volte precipitavano cadaveri di uccelli morti.
 

  
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