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Autore: Milla Chan    08/05/2013    1 recensioni
[ Settimo episodio della serie di Buret ]
In quel momento, però, voleva solo rimanere tra quelle braccia quel tanto che poteva, perché non sarebbe mai tornato e non osava pensare oltre ciò.
Quasi non credeva di essere degno di quelle carezze consolatorie tra i capelli. Si chiedeva se se le meritasse veramente, se fossero state necessarie a quell’amore duro e torbido.
Sperava di addormentarsi senza incubi e di non lasciare trasparire la disperazione che stava nascondendo anche a se stesso.
-Non voglio lasciarti, Norge.-
Serrò gli occhi. Non voleva sentire altro.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Danimarca, Islanda, Nordici, Norvegia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Vores historie.'
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Nota:
Questo è il settimo episodio della serie Vores Historie.
Se non avete letto le altre storie, difficilmente capirete il senso di questa.
Buona lettura!

 

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Norvegia guardava il plico di fogli come se non fossero stati reali.
Li prese tra le mani con cura e sentì gli occhi bruciare, tanto li aveva tenuti aperti senza sbattere le palpebre.
Lesse velocemente le prime righe per l’ennesima volta.
Riappoggiò le carte sul tavolo di legno scuro.
Si girò indietro e uscì dalla stanza, passando accanto all’uomo seduto sulla poltrona, senza neanche guardarlo, chiedendosi perché non gliene avesse parlato prima.

Danimarca teneva i gomiti sui braccioli e i polpastrelli delle dita congiunti davanti al viso.
Non si mosse di un millimetro, almeno finché non sentì la porta chiudersi.
Strinse i denti e fece una smorfia, portandosi le mani sul volto, sopprimendo un lamento basso.
 

La vetrata enorme faceva sì che lo sguardo potesse vagare sugli alberi. Islanda vedeva pochi scorci di verde tra i pini coperti dalla neve di gennaio.
Teneva le mani dietro la schiena e provava a non pensare.
Le guerre sembravano essere finite, ma ancora non sapeva cosa fosse stato detto e deciso al Congresso di Vienna.
Anche lui avrebbe voluto capire, leggere quegli scritti arrivati da giorni. Danimarca li stava facendo leggere a suo fratello solo allora e più ci pensava più si vergognava di sentirsi invidioso e avido di averli tra le mani. Sospirò.
Ne aveva abbastanza di non essere considerato, di venire a sapere le cose quando ormai era troppo tardi, come se non avesse potuto fare qualcosa.
Sentì dei passi attutiti dai tappeti e voltò la testa, speranzoso.
-Nore?-
Lui non rispose, continuando a camminare a passo sicuro, l’espressione dura.
Il ragazzino si accigliò e lo seguì con lo sguardo, girando su se stesso, l’impulso di allungare una mano e fermarlo.
Avvertì il gelo e decise di non seguirlo.
-Non preoccuparti.-
Una mano gli si posò sulla spalla e trattenne il respiro.
-Tu resti.-
Girò piano la testa e guardò Danimarca con gli occhi sgranati. Non vide nessuna luce, nei suoi.
-Cosa intendi?-
L’uomo guardò oltre la vetrata e rimase in silenzio. Non allentò la presa sulla sua spalla neanche per un attimo e Islanda socchiuse la bocca.
Non gli ci volle molto tempo per capire.
L’idea di ciò che significava il silenzio del danese faceva fatica a concretizzarsi nella sua testa, avendo passato con loro la sua vita, fin dai primi ricordi.
Guardò assieme a lui gli alberi con un’espressione smarrita. Tramontava il sole e la sua ultima certezza.

 
Quando Danimarca entrò nella stanza, era convinto di trovarlo lì. Avrebbe voluto salutarlo prima di dormire, augurargli la buona notte per l’ultima volta.
Invece vide solo due piccole pile di vestiti e il letto ben fatto.
Sentì il cuore impazzire e si sbrigò a spalancare ansiosamente le altre porte lungo il corridoio.
Arrivò ad aprire quella della propria camera e lasciò che le braccia scivolassero lungo i fianchi.
Guardò la figura sotto le lenzuola che gli dava la schiena e respirava talmente piano da sembrare immobile. Uno spicchio di luce biancastra si sdraiava tra le pieghe delle coperte e accarezzava una mano pallida appoggiata sul fianco.
Ricordava indistintamente l’ultima volta che l’aveva visto nel suo letto e si scordò come respirare.
-Dormi in piedi?-
La voce di Norvegia lo riscosse e si affrettò a cambiarsi per scivolare nel letto.
Si voltò verso di lui e incrociò le braccia per non muoverle, sforzandosi di non stare a guardare i capelli chiari che gli erano così vicini, iniziare ad abituarsi a una casa senza di lui.
-Nel mio letto faceva freddo.- l’altro uomo spezzò inaspettatamente il silenzio con una frase dal senso sconnesso e Danimarca socchiuse le labbra.
-È un modo per dirmi qualcosa?-
Sentì frusciare le coperte.
-Abbracciami.-
Norvegia avrebbe voluto fermare il tempo quando sentì un braccio circondargli il petto, senza farlo aspettare un attimo più del dovuto.

-Posso parlarti adesso o preferisci che lo faccia domani?-
-Domani ci sarà Svezia, scegli tu come vuoi mostrarti.-
Danimarca sentì la sua voce rimbombare contro il proprio petto, attraverso la schiena.
Non aveva intenzione di mostrarsi debole, tantomeno davanti a chi gli stava portando via ciò che gli era più caro.
Poggiò la fronte contro la sua nuca e socchiuse le palpebre.
-Allora parlo adesso.-
-Preferirei di no.-
Notò la mano di Norvegia che si spostava verso il viso e sporse appena il collo per cercare di vedere cosa stesse facendo.
-E allora quando?-
-Non è un mio problema.-
Non voleva sentire una parola su addii, discorsi che non riteneva necessari per il semplice fatto che sarebbero diventati troppo reali per essere ascoltati senza che facessero male. Non accettava di prestare attenzione a stupide ciarle su quanto gli sarebbe mancato, sul fatto che quella sarebbe stata l’ultima notte, sui suoi ringraziamenti perché aveva deciso di passarla con lui.

Il danese abbassò le sopracciglia, rattristito, quando vide il dorso della mano di Norvegia passare sull’occhio e lasciare una scia umida sulla guancia.

Non avrebbe più potuto guardare Eirik crescere, li avrebbe lasciati soli e temeva che Danimarca facesse ancora qualcosa di orribile, ma questa volta lui non ci sarebbe stato per tentare di salvarli tutti.
Il suo difetto peggiore, tuttavia, era quello di sentirsi diviso in due.
Perché lui, in fondo, sperava davvero di andarsene e questo lo faceva sentire come un infimo traditore.
In quel momento, però, voleva solo rimanere tra quelle braccia quel tanto che poteva, perché non sarebbe mai tornato e non osava pensare oltre ciò.
Quasi non credeva di essere degno di quelle carezze consolatorie tra i capelli. Si chiedeva se se le meritasse veramente, se fossero state necessarie a quell’amore duro e torbido.
Sperava di addormentarsi senza incubi e di non lasciare trasparire la disperazione che stava nascondendo anche a se stesso.
-Non voglio lasciarti, Norge.-
Serrò gli occhi. Non voleva sentire altro.
 

Un rumore secco di ceramica infranta gli fece spalancare gli occhi.
Un grande sole rosso aveva sostituito la luna pallida.
Allungò un braccio dietro di sé mentre si girava. Danimarca non c’era.
Aggrottò la fronte e scostò le coperte. Scese dal letto e mosse passi incerti guardando il pavimento per cercare la fonte del rumore.
Il cuore batté più forte quando aprì la porta e tese le orecchie.
Aveva lo stomaco sottosopra e un pessimo presentimento.
Sentì un grido debole e altre porcellane rotte.
Scese le scale a passi veloci per la fretta, sentendo la veste da notte frusciare lungo i gradini e tenendo le dita salde sul corrimano.
Vide Islanda uscire veloce dalla porta della sala da pranzo e stringere tra le mani un panno bianco.
-Eirik?-
-Mi è caduto il vassoio.-
Camminò via a testa bassa, il volto e le dita nascoste. Norvegia lo guardò sparire senza una parola in più.
Scese gli ultimi scalini e si affacciò distrattamente alla porta dalla quale era uscito il fratello.
Danimarca raccoglieva attentamente i cocci con un tovagliolo, inginocchiato accanto al tavolo con un’espressione affranta. Non si accorse di lui.
 
Norvegia guardò la direzione in cui era andato il ragazzino e strinse le labbra prima di attraversare il corridoio a grandi passi per raggiungerlo.
Lo fece voltare fermandolo con una mano sulla spalla e non appena vide gli occhi lucidi qualcosa nel petto si spezzò.
-Cosa ha fatto.- gli chiese serio, guardando per un attimo le mani ancora strette tra il panno.
Eirik esitò e si voltò nuovamente, tornando a camminare.
-Niente, ho solo fatto cadere le tazze.-
Il norvegese non sorvolò sul tono tremolante e lo fermò ancora.
-Ti ha fatto male?-
Eirik scosse la testa e strinse le labbra mentre lo fissava negli occhi. Sentiva i propri bruciare.
-Non mi farebbe niente di male, no?- chiese flebilmente, con un che di retorico e sarcastico.
Aveva nelle orecchie il frastuono assordante dei piatti della credenza gettati a terra.
Fissò il pavimento e non sbatté le palpebre per non rivedere l’espressione contratta che l’aveva colto di sorpresa, dopo essere entrato di corsa per vedere cosa fosse successo con il vassoio tra le mani.
All’improvviso, non aveva avuto neanche più la forza di tenerlo in mano.
-Non mi farà niente di male.- ripeté, come una cantilena, mentre stropicciava il tovagliolo con le dita nervose. -Vero?-
Norvegia si sentì colpito proprio nel suo punto più debole e aspettò a lungo prima di parlare, affollato com’era da scenari che lo lasciavano con il fiato sospeso.
-Certo che no.-
Capì di avere usato un tono troppo duro e sbrigativo solo quando ormai la frase gli era già uscita di bocca. Pensò a come rimediare per soffocare il tormento e l’angoscia che sentiva addensarsi nell’aria.
-Abbiamo tempo per un’altra lezione di violino, se hai voglia.- gli propose, stando attento alla scelta delle parole.
Islanda sentì la sua voce in modo indistinto, la paura che ancora gli faceva battere troppo forte il cuore.
Non era successo niente di grave, in realtà. Era lui che non aveva avuto la decenza di pensare prima di chinarsi e raccogliere le tazze in frantumi a piene mani.
-Non so se ci riesco.-
Norvegia non capì e assunse un’aria interrogativa, ma discreta e, magari, anche confidenziale. -È solo uno spavento, no? Passa tutto.-
Quasi non riuscì a finire la frase che Eirik tolse una mano da sotto il tovagliolo stropicciato, lasciandolo con le labbra serrate e il cervello che cercava di capire cosa fosse successo alle mani rosse.
-Sei tu quello bravo con il violino.- biascicò, illogico, come se i suoi palmi non fossero stati appiccicosi di sangue, come se non gli bruciassero in modo insopportabile, e il fratello si ammutolì.
Prese piano i polsi e li avvicinò a sé, il respiro ridotto al minimo mentre osservava i cocci minuscoli e candidi nella carne rossa.

Eirik avrebbe voluto giustificarsi, dire che non aveva avuto tempo di pensare, che la mente si era annebbiata, perché qualcosa gli aveva urlato di evitare di guardare l’espressione di Danimarca un secondo di più.
Ma Norvegia non gli lasciò tempo né modo di aprire bocca.
-Torno subito.- sospirò serio, ancora più del solito. Gli sfiorò le spalle con le mani, invitandolo ad aspettare nell’altro salone mentre lui tornava a salire le scale.
Eirik seguì le indicazioni silenziose e lasciò la porta socchiusa dietro di sé, le mani ancora avvolte nel panno, ben attento a non lasciar vedere le macchie rosse e a non far espressioni di dolore, benché fosse da solo.
Si accomodò lentamente su una poltrona e cercò con due dita di togliere un pezzetto di ceramica, causandosi però un dolore ancora più forte. Strizzò gli occhi e si diede dello stupido.
Essersi fatto male in quel modo lo faceva sentire davvero infantile ed era proprio ciò che non voleva più sembrare.

-Posso?-
Alzò la testa e Danimarca già si stava sedendo davanti a lui. Appoggiò una scatoletta sul tavolo, accanto al candelabro, e la aprì tranquillo.
Il ragazzino affondò nello schienale morbido e abbassò la testa, nascondendo nuovamente le mani.
Notò le dita dell’uomo tese verso di lui e aggrottò le sopracciglia.
-Non vorrai stare con le mani in quello stato, spero.- gli mormorò, inaspettatamente dolce.
Islanda lo seguì con lo sguardo mentre gli prendeva le mani, incredulo dell’espressione di amarezza che vide quando Danimarca si concentrò sulla pelle tagliata.
 -Scusami, scusami tanto.-
 
Quando Norvegia aprì la porta, vestito in modo più adeguato, ma pur sempre non curato a causa dell’urgenza di dover curare il fratello, vide che Danimarca aveva già fatto buona parte del lavoro.
Fu sollevato e quello spiegava perché non era riuscito a trovare la scatola.
Rimase a guardare la mano grande tenere l’altra, più piccola, contratta, tamponata di tanto in tanto, quando si riusciva a togliere uno di quei pezzi che erano entrati troppo in fondo.
Eirik si copriva gli occhi con l’altro avambraccio e teneva la bocca piegata in una smorfia.
Sentì il suo singhiozzo ingenuo e gli sembrò di ritrovarlo bambino.
Rivide Danimarca padre e si sentì altrettanto padre, amaramente.
Si sedette sul bracciolo di fianco al ragazzino e passò una mano sui suoi capelli. Lo vide trattenere un verso per il suo orgoglio maturo.
Gli pareva di essere tornato tanto indietro nel tempo, tanti anni, secoli prima.
Lasciò che il braccio scivolasse nel vuoto e guardò il panno chiazzato di rosso scuro.
Eirik si era spaventato. Lo capiva, lo giustificava, ma non riusciva a sopportare l’idea. Trovava orribile il pensiero di lasciarli soli, di non avere alternative.
 
-L’importante è che non si infetti.- mormorò, ripetendo nella mente quella frase che aveva detto così tante volte, dalle ferite più gravi a quelle meno dolorose, che quasi aveva perso il suo significato.
Che non si infetti cosa, pensava? Che non si infettassero le mani, che non si infettasse qualcosa nel petto, soprattutto, perché non avrebbero potuto curarlo con la stessa facilità.

Dalla finestra si intravedeva un angolo di strada.
Qualcosa si mosse e passò tremolando tra gli alberi.
Lukas si riscosse e si alzò piano sbattendo le palpebre, sospinto da un moto di malinconia e dal richiamo di qualcosa di familiare.
-Mathias.- chiamò avvicinandosi alla finestra, mentre sporgeva il collo e inclinava la testa per scorgere meglio quella che aveva riconosciuto come una carrozza.
-Credo sia già arrivato.- continuò Norvegia con un’intonazione che neanche lui stesso riuscì a catalogare.
Il danese alzò gli occhi e sembrava aver visto la morte.
Islanda ritirò le mani e le avvolse con cura e fatica nelle bende, aiutato dall’uomo ormai distratto da ben altro.
Fu il più piccolo il primo ad alzarsi e ad uscire di fretta, asciugandosi con la manica le ciglia ancora umide per il male, il fastidio dei medicamenti e forse anche qualcos’altro.

Il norvegese stava guardando il suo uomo con gli occhi di Lukas e non aveva idea di dove fosse finito Norvegia.
Di tutta la stanza, vedeva solo gli occhi blu di Mathias, irrequieti e ansiosi di trovare un modo per fermare il tempo.
Trattenne il respiro e, quando lo abbracciò, non lasciò andare le sue spalle neanche per un attimo, come se fosse stato un naufrago arpionato a una tavola marcia. Non riuscì a chiudere gli occhi e lasciarsi cullare, ma restò con le iridi fisse a guardare il panno macchiato e i cocci sporchi di rosso sul tavolo.
-Hai spaventato Eirik. Non lo fare più. Non fare idiozie.- gli sibilò, meno dolce di quanto immaginava nella sua mente. -Fa’ che si fidi di te.-
Sentì la sua testa annuire contro la propria spalla.
-Non farlo star male. Non far star male te.-
Mathias chiuse gli occhi e deglutì il boccone amaro.
Quel breve discorso era stato uno sforzo tremendo per Lukas e la mano sulla schiena sembrava dirgli che Danimarca aveva capito cosa intendeva, che avrebbe sopportato più che poteva, che non sarebbe caduto e non sarebbe stato sconsiderato né egoista e non c’era bisogno di dire altro, se lui non voleva.
Lukas sciolse l’abbraccio e si aggiustò i capelli dietro un orecchio con un sospiro.
Mathias prese le sue mani, qualcosa nascosto nel palmo.
L’altro aggrottò le sopracciglia e cercò di capire cosa fosse quell’oggettino tra le dita.
-È un regalo?- gli chiese in un mormorio confuso.
-Una specie.- rispose mentre spostava la mano sulla sua guancia e lo guardava da vicino. -Non dimenticarci.-
Lui scosse appena la testa e si infilò in tasca ciò che, se lo era ripromesso, sarebbe stato un segreto fino alla fine del viaggio.
-Come potrei?-
 
Non sapeva quale forza lo avesse spinto e convinto ad alzare il viso e cercare il calore appena tiepido delle sue labbra sorprese. Gli fece solamente un male enorme sentire le braccia che lo stringevano di nuovo, meno forti, più timorose. Anche lui ebbe paura, qualcosa di infondato e tremendo.
Sembrò realizzare in quel momento ciò che lo stava per investire ed evitò di incrociare i suoi occhi, perché capiva che non sarebbe stato in grado di farlo senza facce piene di tensione e dispiacere.
Osservò Danimarca uscire, avvilito, conscio di aver perso la battaglia più importante di tutte e di aver solo la possibilità di non lasciarsi battere anche da se stesso.

Il salone vuoto sembrava davvero enorme, inaspettatamente luminoso per l’azzurro terso al di fuori delle finestre.
Lukas assottigliò lo sguardo, rimasto ormai solo.
Non voleva andarsene e non voleva restare.
Voleva soltanto essere Norvegia, per una volta.
Allungò il braccio ad afferrare lo straccio sporco di sangue e lo infilò nella tasca della giacca mentre usciva con passi lunghi e decisi, l’espressione autorevole e ben posata.

Senza neanche pensare alla parola addio, senza che nemmeno l’idea di un arrivederci lo sfiorasse, si lasciò la casa e il portone alle spalle.
I gradini sembravano infiniti e si sentiva in un sogno mentre, stagliate contro il cielo, le cime degli alberi spogli si muovevano deboli al vento freddo.
Senza niente nella pancia, la testa girava, ma in quel momento non aveva importanza.
Si affiancò al volto pallido e silenzioso di Danimarca e aspettò con lo stomaco attorcigliato per l’ansia che arrivasse la carrozza, di cui ascoltava attentamente il rumore, neanche troppo lontano.
Islanda li raggiunse con un piccolo colpo di tosse e si mise composto in piedi sull’ultimo gradino, le mani fasciate ben nascoste dietro la schiena.
Norvegia si voltò piano, allungando le mani ad aggiustargli gli abiti stropicciati.
Lui abbassò lo sguardo sulle dita delicate che passavano tra bottoni e appiattivano le pieghe della stoffa spessa.
Trattenne il respiro e sentì le lacrime salire agli occhi. Se fosse stato ancora un bambino, magari, avrebbe potuto piangere senza sentirsi in colpa.
Si sporse in avanti e si appoggiò contro di lui, in cerca di un abbraccio.
-Avrei davvero voluto suonare ancora il violino.- mormorò tentennante.
-Anche io.-
Il norvegese esitò un attimo a circondarlo con le braccia, gli diede un paio di piccole pacche sulla spalla e lo sentì avvinghiato al proprio cappotto come se non avesse più voluto staccarsi. Avrebbe voluto dirgli che sarebbe tornato presto, come quando era piccolo e lui partiva per mare.

Islanda si sentì prendere dal panico quando vide i cavalli sbucare dalla strada. Cercò gli occhi del fratello maggiore e lo lasciò andare piano, spaventato dall’idea di non sapere cosa sarebbe successo da quel momento in poi. Rimase senza parole nel vedere che nemmeno lui riusciva a fingere di essere tranquillo.
Avrebbe voluto dirgli che aveva paura di rimanere da solo.
Non riuscì nemmeno a socchiudere le labbra per soffiare una misera parola.
 
La carrozza si fermò e con lei il cuore di Danimarca.
 
Si aprì piano. Il piccolo gradino tremolò, i piedi di Svezia si appoggiarono per terra e lasciarono le orme nella neve indurita. Le sue dita passarono sul cappotto lungo e le sue labbra provarono a fare un saluto d’obbligo.
 
Nessuno voleva quei convenevoli e lasciarono perdere.
 
Danimarca sollevò lo sguardo senza luce e vide con la coda dell’occhio Norvegia che alzava il mento in una manifestazione della fierezza che aveva sempre visto e adorato in lui.
Così naturalmente elegante, pensava, senza risultare eccessivamente superbo, niente affatto arrogante come invece era lui.

Norvegia sentiva gli occhi di tutti addosso ed evitò di appoggiare il palmo su quello di Berwald quando questi glielo porse per aiutarlo a salire sulla carrozza.
Finiva così, senza un ultimo sguardo indietro, con una stretta di mano di una formalità sconcertante tra quei due che si sarebbero ammazzati con il sorriso sulle labbra.
Berwald risalì e Lukas lo guardò senza muovere un muscolo mentre richiudeva la piccola portiera.
Spostò gli occhi fuori dalla finestrella, la schiena sempre dritta e il capo che non accennava ad abbassarsi. Vide la mano del fratello agitarsi piano in segno di saluto e rispose, altrettanto lentamente. Danimarca rimase con le braccia dietro la schiena, ma il suo sguardo valeva più di tutte le parole del mondo e tutto il dolore che gli provocò lo lasciò congelato.
Norvegia strinse le dita e si poggiò la mano sulle ginocchia, faticando a distogliere lo sguardo.
Le sue cose furono caricate, la carrozza si scosse un poco e iniziò ad allontanarsi.
Sbatté le palpebre con un sospiro e sentì gli occhi lucidi a vedere il fratello che faceva qualche passo nella loro direzione e si stringeva le mani, sconfortato. Danimarca si girò e risalì le scale di fretta, la mano davanti agli occhi mentre apriva il portone.
Non poteva lasciarli. Non così bruscamente, in una situazione così precaria.
Forse non li aveva salutati in modo adeguato. Forse avrebbe dovuto dar loro un altro abbraccio prima di salire e stringerli di più.
Sparirono dietro gli alberi.
Spalancò le palpebre con un senso di terrore e spostò gli occhi tremanti su Svezia, ne studiò i lineamenti tesi e seguì il suo sguardo fisso a terra.
Avrebbe voluto dirgli di fermarsi immediatamente, di farlo scendere, di farlo correre, di lasciargli l’indipendenza che meritava e, soprattutto, chiedergli perché aveva deciso di prendere lui, pur sapendo lo squilibrio che avrebbe provocato.
Restò tuttavia con il rumore cadenzato degli zoccoli dei cavalli nelle orecchie e non vedeva l’ora che finisse.
Infilò la mano in tasca e ne tirò fuori il panno macchiato, inorridendo, perché il ricordo di suo fratello sarebbe dovuto essere uno straccio, candido come lui, sporco di sangue. Sentì cadere qualcosa di piccolo e capì che era l’oggettino che avrebbe dovuto rendere il suo viaggio piacevole o, perlomeno, sopportabile, in vista di una sorpresa da scoprire alla fine.
Invece ora era obbligato a  cercarlo con gli occhi. Allungò il collo, lo vide brillare ai propri piedi e si sporse a raccoglierlo.
Tenne la croce dorata tra le mani e appoggiò nuovamente la schiena contro il sedile.
 
Lo sguardo attento e pacato di Svezia si concentrò sulle sue guance e sulle scie delle lacrime, silenziose come pioggia sui vetri.
Contrasse la fronte e provò a rassicurarlo.
-... Staremo bene.-
Norvegia strinse i denti e stropicciò malamente il panno di Eirik, lanciandolo senza alcuna forza verso l’uomo seduto di fronte, le gocce salate che sfioravano gli angoli della bocca.
-No.- stroncò roco il discorso. -E neanche loro.-
Berwald prese lo straccio ormai sgualcito che gli aveva colpito il petto e guardò le macchie rosse con il volto triste.
Avrebbe voluto chiedere di chi fosse quel sangue seccato, chi si era fatto male e perché, ma il cuore gli batteva forte per l’agitazione e una sola parola avrebbe richiesto tutta la sua energia.
Per quanto si sforzasse, non sarebbe riuscito a sentirsi come il vero padrone, non con le proprie forze, senza ordini da chi prendeva davvero le decisioni.
-Proviamoci.-
Come se avesse avuto alternative, pensò Lukas.
Guardò fuori dalla finestrella e non parlò, scosso dai sobbalzi della carrozza sulla strada sconnessa. Lasciò che le lacrime sulle guance si asciugassero da sole e non ringraziò Berwald quando gli rimise tra le mani il cencio.
-Perché l’hai fatto?- mormorò, aprendolo sulle ginocchia e ripiegandolo con cura.
Lo svedese raddrizzò la schiena e si sentì improvvisamente claustrofobico.
-Voglio proteggerti.-
-O vuoi avermi.-
-Voglio proteggerti.- ripeté, più serio, più autoritario, tanto che il norvegese dovette prendersi una breve pausa per riflettere.
-E averti.- ammise in un sussurro difficoltoso, prima che egli potesse aprire bocca con un’altra frase gelida.
 
Lukas sembrò indispettito e irritato da quella calma, tanto simile alla sua, così poco abituato a parlare con chi stava al suo stesso livello mentale.
Accavallò le gambe e incrociò le braccia. Nonostante il bene che covava nei suoi confronti, ormai quasi detestato e ingiustificato -come quello per Mathias-, non sentiva né la voglia né il dovere di lasciarsi possedere con quella facilità, e non gli avrebbe perdonato presto quell’odioso presupposto.
Averti, che verbo insopportabile.
Non sapeva quanto egoista fosse, in realtà non se lo ricordava, né sapeva se fosse cambiato.
 
Sembrava essere ancora un libro chiuso, Svezia, ma dentro di sé sentiva una terribile tempesta di emozioni e contraddizioni, di sentimenti soppressi pressati nel petto.
Ogni parola pensata e non detta -ed erano tante, tante davvero- era un colpo in più al cuore.
Ogni sguardo a Lukas avrebbe dovuto essere accompagnato da una breve frase riguardo a quanta ammirazione provasse per lui, quanto rispetto, quanto lo trovasse splendido quando alzava il capo con quella nobiltà naturale.

Voleva stare con lui.
 

Il viaggio sembrava non finire mai, per Norvegia. Non riuscì a sentirsi sollevato neanche quando mise le gambe di nuovo a terra, sentendole instabili, per buttare giù un boccone nello stomaco che reclamava cibo. Neanche la breve traversata per mare fu una consolazione perché, se avesse potuto, avrebbe preso lui stesso il comando dell’imbarcazione. Avrebbe deviato, fuori dall’Øresund, verso il mare aperto, per andare a cercare qualcosa di nuovo come ai vecchi tempi, quando il mondo era ancora grande.
Stette a sentire l’aria di salsedine, il più vicino possibile alla prua, il cappotto che sventolava e la sensazione di essere libero guardando il mare, finché sentì le mani di Berwald sulle spalle e la sua voce che calma gli chiedeva se stesse prendendo troppo freddo.

La nuova carrozza li aspettava e li avrebbe dovuti portare a Stoccolma, ma Norvegia vedeva già il sole calare e si stupì quando capì che avrebbero viaggiato anche di notte.
Si chiese a che ora fosse partito Svezia per venire da lui, ma il silenzio ormai si stava prolungando da così tanto tempo che non sarebbe stato in grado di parlare, specialmente per dire qualcosa di così stupido.
Non riuscì a contare le volte che tirò fuori lo straccio e la croce, la quale, guardandola bene, sembrava essere una molletta o una specie di spilla.
Nel buio, Norvegia provò a dormire, ma i risultati furono pessimi. Fu il dormiveglia peggiore che avesse mai patito, tra il freddo, il silenzio pesante, la spossatezza, la scomodità e, soprattutto, il bisogno improvviso di qualcuno da chiamare ancora famiglia.

L’alba dolce e gelida fu una liberazione e con essa il palazzo bagnato dalla luce intensa e arancione.
 
Scendendo il gradino prese la mano di Berwald senza accorgersene e quando alzò gli occhi incontrò i suoi, felici come poche volte li aveva visti.
Abbassò la testa, ma l’etichetta gli intimò di rialzarla immediatamente, dal momento che non era alla presenza di alcun re.
Scivolò via dalle sue dita e si alzò bene il colletto per difendersi dall’aria fredda.
I giardini lì attorno erano sconfinati e ancora brulli, monotoni di neve, ma intuì che di primavera sarebbero stati splendi.
Aveva l’opportunità -o la disgrazia?- di una vita, da quel momento, indubbiamente nuova. Lui però non la voleva, quella vita. La libertà era a un passo.
Temeva che sarebbe scomparso, qualche giorno, a furia di essere considerato una terra di conquista. Aveva avuto abbastanza tempo per pensarci.
 
-Cosa... -
L’uomo gli si avvicinò, speranzoso.
Si bloccò quando vide i suoi occhi glaciali e, corrucciando la fronte, provò a continuare.
-... Vuoi fare?-
 
Essere me.
 
Lukas strinse nelle tasche le mani intirizzite.
 
-Dormire su qualcosa di comodo.-
 
 
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Angolo autrice.
Okay, lasciatemi prendere il respiro un attimo-
Finalmente è arrivato il 1814, il trattato di Kiel, la tristezza, l'addio, insomma, lo sapete.
Il mio cuore!
Ringrazio tantissimo ViolaNera per averla betata, ti meriti una camionata di baci! <3
E' stata un parto e ho lavorato tanto, per me e per voi, chi mi segue su Facebook lo sa e chi l'ha appena letta può intuirlo XD
In totale, spero che vi sia piaciuta, ecco, in tante la aspettavano e... Spero di non avervi deluse! ;*;
Al prossimo episodio!
   
 
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