Con
le mani da uomo
In
guerra non avevi la possibilità di
fare progetti, di pianificare la tua esistenza. Se ti fermavi a farlo
eri
spacciato, perché se osavi sperare troppo o troppo poco il
destino avrebbe
scelto di burlarsi di te.
Il
tempo era un’entità temibile di cui
non disponevi a tuo piacimento; sapevi di non esserci ben saldato
dentro, ma di
navigarci al di sopra come su un mare in procella. Era la condizione
più
precaria che si potesse sperimentare, e la più detestabile
se amavi qualcuno
che desideravi ardentemente fosse accanto a te anche il giorno dopo.
Ma
la guerra aveva visto il suo
tramonto, alfine. Ed era un sollievo che l’odore del sangue
raggrumato non
infestasse più l’aria che respiravano. Divisa da
una grande catena montuosa a
sud, la verde Germania era selvosa e selvatica, tutta alberi e fiumi e
vento ed
era... casa, la loro nuova casa. Agron e Nasir, insieme a
Laeta, Sybil, pochi
sopravvissuti e alcuni fanciulli rimasti orfani, si erano rifugiati
dove gli
artigli ghermenti dell’Aquila non li avrebbero cercati,
trovati, dilaniati.
Chiunque
avrebbe affermato che non è
semplice riedificare una vita sul nulla, tuttavia era da poveri stolti
dirlo a
due persone che avevano affrontato battaglie cruente e per davvero
avevano
visto ciò che era semplice e ciò che non lo era.
Morire era semplice,
sopravvivere e rimanere in forze per lottare di continuo no. Mettere in
piedi
un modesto allevamento era una facezia, a confronto. Pietra su pietra,
agnello
dopo agnello, in un modo o nell’altro, ce
l’avrebbero fatta.
Ciò
che tormentava Agron era che le sue
mani non accennavano a guarire. Le ferite si erano saldate in carne
lucida già
da molto, ma spesso il guerriero non sentiva niente lungo pollice,
indice e
medio. Come se quelle dita intorpidite attaccate lì non
fossero le sue, ma
quelle di qualcun altro, e lui le guardava con sgomento e rassegnazione
graffiarsi e rammollirsi per un lavoro che non riusciva a compiere come
voleva.
Al centro del palmo, lungo l’ansa delle due M che i Romani
leggevano come
Memento Mori, il supplizio della croce gli aveva lasciato in dono
cicatrici
spaventose, ancora rosse e tumefatte; ma il danno, il vero maleficio,
stava
all’interno, e non gli permetteva di avere una presa salda
abbastanza su ciò
che afferrava. Di notte il dolore che scivolava formicolando dal
braccio in giù
lo teneva sveglio; aveva come vampe venefiche che gli serpeggiavano
sottopelle,
per lo più acquattate in attesa durante il giorno e meschine
a sguinzagliarsi
al calar del sole. Le mani gonfie e sofferenti di Agron finivano col
tremare di
rabbia e puntualmente Nasir le serrava con dolcezza fra le sue, le
muoveva e le
baciava finché l’altro non sembrava recuperare la
propria quiete.
Quei
nuovi giorni con Nasir avrebbero
dovuto essere dignitosi, invece gli sfuggivano come granelli di sabbia
che non poteva
acciuffare. A volte meditava su quanto fosse irragionevole per uno che
tutta la
vita aveva conosciuto fatiche e patimenti, e la cui pellaccia si era
irrobustita fra tagli, lividi e scudisciate, lasciarsi abbattere da
siffatta avversità;
in fondo respirava ancora, viveva, calpestava la sua amata terra sotto
i piedi,
vedeva gli agnellini nascere e belare il loro pianto delicato, e
soprattutto sapeva
che Nasir non avrebbe mai lasciato il posto accanto a lui... E allora?
Allora tutto,
davvero ogni cosa, doveva comunque passare per le sue mani, e le sue
mani erano
guaste, perdute, attraversate da tremori e fitte, inservibili a chi
avrebbe
dovuto lavorare duramente e del proprio lavoro sostentarsi.
Ringhiava
in segno di frustrazione
ogni qual volta un oggetto sfuggiva alla sua presa. Vedeva brocche
andare in
frantumi e badili atterrare con un tonfo morbido nel terreno.
«Vieni,
guardalo. Non è bellissimo?»
l’esclamazione
di Nasir era esalata con il diletto e la serenità di un
fanciullo.
L’agnellino
di pochi giorni, gracile e
tentennante sulle zampe sottili, gemeva al mondo il suo sbigottimento.
Il
siriano lo reggeva fra le braccia assicurandosi di non farlo cadere, e
lo
porgeva ad Agron perché questi lo accarezzasse. Egli
allungò la mano aperta verso
la bestiolina canuta, ne sfiorò il cranio mingherlino e
sorrise in risposta
alla gioia puerile di Nasir. Soltanto metà della sua mano
poteva percepire la
morbidezza del pelo corto del piccolo, ma era pur sempre qualcosa.
Il
germanico si sentiva troppo spesso impotente,
privato della dignità di uomo. Non solo compiva fatiche
immani nel tentativo di
svolgere le sue mansioni come tutti gli altri, ma perfino nel tastare
le carni
del suo amante si trovava difettoso, incapace, derelitto. Non passava
giorno
che non esecrasse ancora e ancora la stirpe dell’Aquila.
Quella
sera Nasir lo attendeva nel
loro giaciglio, la pelle ambrata rischiarata appena dal bagliore
vacillante
delle candele. Teneva i lunghi capelli corvini sciolti, e questi gli
lambivano
le spalle come onde sulle creste sporgenti a picco sul mare. Aveva gli
occhi
lucenti, Nasir, soddisfatti per il lavoro di una giornata. Le sue
membra, però,
seppur stanche, richiedevano di essere arse da devota passione.
Ad
Agron, come di consueto, mancò il
respiro. Lui era la benedizione che leccava con amore ogni sua ferita;
una
roccia vigorosa a cui aggrapparsi, avvolta in splendide sembianze da
piccolo uomo.
Lo baciò assaggiandone a lungo il sapore. E fu la loro
stessa anima a invischiare
le lingue, a rendere quello scontro un vibrante e gagliardo esordio
d’estasi.
Agron gli prese il viso, si fermò, lo scrutò a
lungo perché non ne aveva mai
abbastanza. Le labbra bagnate e ancora socchiuse di Nasir in cerca
delle sue tremavano
di lussuria. Le accolse di nuovo, in un morso, e il sospiro che
sfuggì alla
gola del siriano suonò tanto come una supplica e tanto come
un’eco di gratitudine.
Giacenti
sul loro nido umile e complice,
gravarono presto la stanza di respiri affannosi. Agron serbava una
particolare predilezione
per il collo del suo amante; lo lusingava a piccole lappate
graffiandolo appena
con i denti e vi mormorava contro promesse, tenerezze,
oscenità.
Nasir
inseguì le sue mani, Agron le
ritrasse. Il siriano sentì il cuore sgretolarsi; si dava
pena ogni giorno per i
mali dell’altro, e il germanico si ostinava a nascondere
preoccupazioni e
inquietudini. Il giovane slittò al di sopra del suo uomo.
Cavalcioni sul suo
bacino, si gettò indietro i capelli bruni e si
chinò a onorargli il petto di
baci. Lo distrasse a quel modo e, sussurrandogli che lo desiderava, gli
prese
le mani e le condusse su di sé.
Agron
scosse la testa, afflitto, ma
Nasir le teneva strette fra le sue e le guidava lungo il proprio corpo.
Fianchi
dorati, addome snello, petto ansante, poi nuovamente in basso il
percorso
contrario, e le fece sostare sulle cosce che teneva ben tese.
«Non
negarti di toccarmi. Amami con le
tue mani da uomo. Amami, Agron. Non ti chiederò mai
nient’altro. Le tue mani
sono le mie, le mie sono le tue. Io ci sarò sempre a
sorreggerle per te, se
oseranno dubitare.»
Il
germanico fu permeato da una
profonda brama di pianto. Giurava, che si fottessero gli dei, di non
avere un
petto ampio abbastanza per contenere tutto ciò che provava
per il siriano. Mosse
le dita e le ancorò come poté nella pelle calda
della sua ragione di vita,
proprio nei lombi. «Nasir...» gemette, roco,
forgiando lascivamente la “s” fra
lingua e palato, nel momento in cui l’altro si
calò su di lui e gli mozzò il
fiato.
Dedico
questa one-shot alla mia Manuelina aka SexyJames
che oggi compie gli
anni :3
You’re
like the Agron to my Nasir.
p.s.
Sono sicura che avete già riconosciuto la citazione ma, per
la cronaca, mi sono
lasciata ispirare dalla frase: “Amami uomo con le mani da
uomo” dalla magnifica
canzone di Renzo Rubino.
Un
bacio a chi ha letto la storia, due a chi l’avrà
apprezzata almeno un pochiiino
:P
Gratitude,