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Autore: VaVa_95    16/05/2013    2 recensioni
Woodbrige, New Jersey.
Richie è speciale. Glielo dicono tutti. I genitori, i vicini, i conoscenti... ma lui non ci crede davvero. Finché...
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Richie Sambora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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One last goodbye



To a special person.
Thank you for (still) loving me.


 
Step one – One kiss for the night we met


 
Woodbridge, New Jersey


Suo padre gli diceva spesso “un giorno sarai grande e io ti guarderò dal basso incantare il mondo”. Aveva sempre saputo, lui, che il suo bambino era speciale.
Dal canto suo, Richie (diminutivo di Richard, un nome imponente) non sapeva cosa avesse, di speciale. Si considerava un bambino normale, sia dal punto di vista comportamentale sia da quello fisico.
Lui era un bel bambino: il viso ovale, dalla carnagione pallia, era circondato dai folti capelli castani leggermente crespi. Aveva due grandi occhi nocciola dalle ciglia piuttosto lunghe che mettevano ancor più in risalto quel colore scuro e particolare. Le labbra erano piccole, leggermente sproporzionate rispetto al resto del viso, in particolare rispetto al naso, leggermente più grosso.
Era più alto di ogni bambino della sua età. Le sue mani erano particolari, attiravano l’attenzione di tutti: erano grandi e ruvide per appartenere a un bambino di soli sei anni, ma aveva le dita lunghe e affusolate, come gli aveva fatto notare estasiato il suo insegnante di musica, a scuola.
Nonostante, da quel che aveva sentito lui, sembrasse un angelo sceso in Terra (e questa frase l’aveva sentita spesso da sua nonna), lui non aveva amici. Non riusciva a relazionarsi con gli altri bambini e non sapeva se avesse lui qualche problema o se invece erano loro che non volevano parlare con lui.
Si sentiva diverso da tutti.
Si sentiva speciale.
Ma un bambino di sei anni che ne può capire?
Era da un po’ che fissava le stelle, lontano da tutti. I signori Welf avevano deciso di fare un barbecue per non sapeva qualche occasione ed era invitato tutto il vicinato, tra cui molti bambini della sua scuola. Questi ultimi stavano correndo per tutto il giardino facendo un gran baccano, mentre gli adulti si trovavano in veranda a parlare del più e del meno.
Lui, invece, se ne stava in disparte, seduto sul prato vicino ad un albero. Fissava le stelle, cercando di seguire con lo sguardo la via lattea, perdendosi nell’infinito della sua immaginazione.
- Ciao. -
Una voce gentile interruppe il flusso dei suoi pensieri. Scostò gli occhi dal cielo stellato del New Jersey puntandoli sulla figura di una bambina che doveva avere circa la sua età.
Non l’aveva mai vista in giro, tantomeno a scuola. Di statura media, indossava un delizioso vestitino azzurro e scarpe dello stesso colore. I lunghi capelli castano scuro erano lunghi fino a metà schiena e insieme alla carnagione pallida faceva risaltare gli occhi. Non riusciva a distinguerne il colore, il suo daltonismo gli impediva di vederlo. Andando a deduzione, doveva essere verde, anche se non aveva la più pallida idea di cose fosse veramente il “verde”. Dato che non poteva vederlo, doveva immaginarselo. E lui pensava fosse il colore più bello di tutti, un colore tanto speciale da colorava le piante e l’erba. Da rendere colorato il mondo.
- Ciao – la salutò di rimando, sorridendo.
- Che fai qui? Non sei con gli altri bambini? -
Le sue labbra erano due petali di rosa. Sembravano perfette. Senza dubbio, era la bambina più bella che avesse mai visto.
- E tu? Perché non sei con gli altri bambini? -
- Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda – esclamò, svelta.
Aveva una bella parlantina, proprio come lui.
- Nemmeno tu hai risposto alla mia. -
- Ma te l’avevo fatta prima io! – disse, stizzita – comunque, mi sono appena trasferita qui. Vengo da Newark. -
- E perché sei in una città piccola come questa? -
La bimba diede una scrollata di spalle - Non lo so, ho seguito mamma e papà. Tu l’avresti fatto? -
Dopo averci pensato un po’ su, il bimbo annuì, facendo sorridere la bambina.
- Come ti chiami? -
- Lucy. Tu? -
- Richie – si presentò, sorridendo – Lucy come Lucy In The Sky With Diamonds? -
La piccola annuì, mentre gli occhi le si illuminavano. Era probabile che fosse l’unica persona inferiore ai quindici anni che conoscesse i Beatles, in quella cittadina. E doveva essersene accorta.
- Ti va se diventiamo amici? -
Il bambino sembrò esitare. Lui non aveva mai avuto amici. Non sapeva come essere tale. Osservava gli altri ridere, scherzare, giocare, ma lui non l’aveva mai fatto. Non ne era capace.
- Io… non so come fare l’amico. Non ho mai avuto amici. -
- Non importa – esclamò Lucy, dopo un attimo di silenzio – si può sempre imparare. Amici? -
Gli tese la mano, senza smettere di sorrise.
Il bimbo guardò la mano destra: grossa, ruvida. Non era adatta per stringere la manina delicata di quella bambina. Però…
Ci sputò sopra, per poi stringergliela.
- Che schifo! – strillò Lucy, facendo una faccia schifata.
- Urli come una femmina. -
- Nel caso tu non l’avessi notato, io sono una femmina. -
E quella era una più che giusta osservazione.


 
Step 2 – one kiss for the dreams we shared


Woodbridge, New Jersey
 

Lucy non sapeva come convincere Richie, il suo migliore amico, ad esibirsi in quel locale di cui non si ricordava bene il nome la sera successiva. Si preparava a quella serata da mesi, passava ore e ore a provare il pezzo sulla chitarra sulla casa sull’albero.
Suonava la chitarra da tempo, ormai. Era così bravo che spesso si arrabbiava quando lei, che suonava da tre anni e che si reputava abbastanza brava, non riusciva a suonare nel modo che diceva lui.
Era bravo. Troppo. E non sembrava capirlo.
- Richie, alzati da lì e vai a fare le prove. Prove serie. -
Il ragazzo la fulminò con lo sguardo, per poi tornare a ripassare il pezzo senza dire una parola.
Ecco, il gioco del silenzio. E poi era lei l’infantile.
- Il gioco del silenzio? Sul serio? Non lo fai da quando avevi dieci anni. Stai regredendo. -
Il giovane sembrava non averla nemmeno sentita.
Sospirò: era impossibile. Lui era impossibile.
E cocciuto.
E dannatamente testardo.
E idiota, ma quelli erano dettagli. Tutti i Sambora erano idioti a modo loro… a parte Adam, s’intende.
- Richard Stephen Sambora. -
- Va bene, va bene! – strillò, esasperato – lo faccio. Ora però smettila. Sul serio. Basta parlare. Bla bla e ancora bla. E comunque, ti avrei risposto. Stavo solo ripassando la canzone. -
- …oh. -
Lucy sorrise, pensando al fatto che presto il suo migliore amico, la persona più importante della sua vita, sarebbe stato famoso.
E lei lo avrebbe seguito, ovunque, anche in capo al mondo. Era il loro sogno.
Era il loro punto d’incontro. Portò la mano destra al collo, sfiorando la catenella di metallo. Gliel’aveva regalata Richie per il compleanno. Un ciondolo a forma di cuore, che si apriva e mostrava la loro foto. Era stato un regalo sdolcinato, ma aveva detto che i sedici anni erano importanti e quel ciondolo se lo sarebbe dovuto tenere.
Come pegno della loro amicizia.
E lei lo avrebbe portato, sempre.
Era il simbolo dei loro sogni che si sarebbero realizzati.
Un giorno.



 
Step 3 – one kiss for the laughter and tears


Perth Amboy, New Jersey
Jenuary 1984
 

Lucy non aveva mai pianto così tanto in vita sua e Richie lo sapeva. Ora che ci pensava, non l’aveva mai vista piangere.
Neanche una volta. Invece era lì e piangeva. Così tanto da far fatica a respirare.
Lo amava davvero. Lui non l’aveva mai pensato, anzi, aveva detto che non sarebbero durati più di un mese, all’epoca.
Ma il tempo era passato. Ed era strano. Il tempo scorreva così veloce da non farlo nemmeno respirare. Da non riuscire a vivere attimi fondamentali.
E ora, dopo anni di amicizia, sembrava che tutto quello che avevano fatto di bello fino ad ora si era annullato. Completamente. C’era solo Lucy che piangeva con il cuore spezzato.
Gliel’avevano detto, i ragazzi, in particolar modo David. Gli avevano detto di non perdere d’occhio quel tipo, che non era affidabile. Che lei ci stava insieme solo per attirare l’attenzione. Beh, quello l’aveva detto John, e si era talmente arrabbiato con lui che non gli aveva rivolto la parola per una settimana.
Avrebbe dovuto ascoltarsi. Erano i suoi amici, no? Le persone più importanti della sua vita, nonché colleghi. La loro band stava diventando importante.
Alec era un tipo piuttosto basso, dai ricci capelli scuri, la carnagione ambrata e due enormi pozzi neri al posto degli occhi. Suonava il basso ed era molto bravo, in più aveva una voce a dir poco strepitosa. Era stato il primo a legare veramente con Lucy, quando l’aveva presentata alla band. In un certo senso, i due si somigliavano: si erano conosciuti in un periodo tormentato per entrambi. La sua caratteristica era sicuramente la mania di eccedere, in qualsiasi caso. Per lui non c’erano mezze misure: o tutto o niente. E questa poteva essere sia una maledizione che una fortuna. Dipendeva dai punti di vista.
Tico era invece dannatamente realista e l’aveva dimostrato in più occasioni, compresa quella in cui si trovavano in quel momento. Era il più anziano, aveva cinque anni in più degli altri, era molto più esperto e con i piedi per terra. Non si faceva troppi problemi, ma nemmeno illusioni o abbattimenti. A differenza di Alec, per lui sembrava che esistesse soltanto il grigio e non il bianco e il nero. Anche lui aveva i capelli e gli occhi scuri, messi in risalto da due enormi basette ai lati del viso. Era basso e muscolo, caratteristica tipica dei batteristi. E lui era dannatamente bravo.
David era sicuramente il più dolce dei cinque. Non riusciva a trovare miglior parola per descriverlo. Era “dolce” sotto ogni punto di vista, a partire dalla tastiera e dal pianoforte, che suonava da quando era piccolo. Era alto quasi quanto lui, i ricci capelli biondi gli arrivavano alle spalle e circondavano un viso ovale dalla carnagione pallida. I suoi occhi erano verde-azzurro, ma non erano quelli ad attirare l’attenzione. Era il sorriso. Sorrideva sempre, in ogni occasione. Era il toccasana della band. Ed era stato il primo a dirgli di tenere gli occhi aperti. Era sempre stato il primo a capire le cose e sicuramente l’avrebbe fatto ancora.
E poi c’era John, il cantante.
Il fratello mancato. Il suo corrispettivo. La sua persona.
John era tutto, per lui. Era il suo migliore amico.
Sapeva che era uno dei pochi a sopportarlo per davvero. A volte pensava che nemmeno David, che lo conosceva dal liceo, riuscisse a sopportarlo appieno. Non aveva un bel carattere, per niente. Si arrabbiava spesso e dal nulla, rimaneva imbronciato per giorni ed era anche capace di non rivolgere più la parola alla persona che (apparentemente) l’aveva offeso. Era quest’ultima che doveva farsi avanti e scusarsi, anche quando aveva ragione. Ora che ci pensava, John non aveva mai ragione.
Era uno dei ragazzi più belli che avesse mai visto e quello aiutava molto la notorietà della band. John era alto, magro, dai capelli arruffati color biondo scuro, un viso dai tratti tipicamente italiani e due enormi occhi azzurri. Un azzurro profondo, un azzurro che colpiva. Erano dannatamente espressivi.
Solo lui riusciva a capirlo davvero. Forse sarebbe stato l’unico. E a John sembrava andargli più che bene.
- Lucy, ascoltami… -
- Non. Una. Parola. -
La sua voce era dannatamente ferma, nonostante le lacrime continuassero a solcarle le guance.
Con i ragazzi lei aveva un bel rapporto. Li adorava. Era sicuro che sarebbero rimasti sempre insieme, solo loro sei contro il mondo. E ora si ritrovavano a condividere l’ennesimo punto: il non sapere come consolarla. Come tirarla su di morale.
- Lulu, noi… -
- Non. Chiamarmi. Lulu. -
John ammutolì, poi si voltò verso Richie e alzò le spalle, come a dire “io ci ho provato”. Tico alzò gli occhi al cielo e si avvicinò leggermente alla giovane.
- So che è difficile, ma dovresti parlarne con noi. -
- No. -
Se non altro, a lui aveva lasciato finire la frase, constatò il chitarrista.
Alec e David si scambiarono uno sguardo d’intesa. Quei due non avrebbero mai capito niente. Il tastierista si sedette accanto a lei e le sorrise, quel sorriso rassicurante che lo caratterizzava.
- Stai tranquilla. Noi siamo qui. Saremo sempre qui. Ora sfogati pure, poi… per qualsiasi cosa, ci siamo noi. -
Lucy annuì, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti.
Anche quella volta, l’aveva spuntata lui.


 
Step 4 – One last “I love you”


Los Angeles, California
September 1992
 

Los Angeles era una città magica. L’aveva sempre amata, lei. Avrebbe voluto viverci volentieri, ma il New Jersey per lei era troppo importante, racchiudeva troppi ricordi per essere lasciato.
Aveva trovato degli amici, dei fratelli. E aveva trovato l’amore della sua vita.
Richie dormiva accanto a lei. Era stanco dal concerto della sera prima ed era sicura che non si sarebbe svegliato prima di mezzogiorno.
Lo show era stato un successo. Beh, i Bon Jovi lo erano. Erano una band di fama internazionale e ora giravano il mondo a fare musica. A portare un determinato messaggio a tutte quelle persone che andavano a vederli. E a loro piaceva, molto. Soprattutto a Richie.
Perché lei lo sapeva, lui l’aveva sempre voluto.
Non sapeva con quale logica si fossero messi insieme, loro due. Era semplicemente successo. Una sera, lui si era avvicinato e aveva appoggiato le labbra sulle sue. Non sapeva nemmeno cosa stesse facendo. Ma aveva presto capito che lei non si sarebbe ritratta, non si sarebbe opposta. Forse l’aveva sempre saputo.
O forse no.
Sapeva solo che lo amava.
E quello bastava.
Gli passò una mano fra i capelli e gli diede un leggero bacio a fior di labbra, per non svegliarlo.
- Ti amo – sussurrò, per poi alzarsi dal letto e uscire dalla stanza.
Lui non l’avrebbe svegliato.
Ma buttare gli altri giù dal letto sarebbe stato divertente.
 


Step 5 – memories


Los Angeles - California
March 1993
 

- Allora… è… finita? -
Richie rimase in silenzio.
Tipico. Non riusciva mai a parlare, in quei casi. E lei era stufa. Non ce la faceva più. Forse… forse era meglio così.
- Si. È finita. -
L’avrebbe sempre amato.
Avrebbe ricordato per sempre ogni singolo istante.
Sarebbe rimasto sempre il suo Richie, nonostante tutto.
Sempre.


 
Last Step – we deserve one last goodbye?



Woodbridge, New Jersey
April 2013
 
La mano sinistra del chitarrista stava tamburellando energicamente sul tavolo del bar, mentre la mano destra reggeva una tazza di caffè. Il chitarrista si guardò intorno: dove accidenti era finita sua figlia? Sua nonna l’aveva solo portata al centro commerciale.
E aveva promesso di essere lì per le quattro.
Alzò gli occhi al cielo, esasperato. Ava era la luce dei suoi occhi, la figlia migliore che una persona potesse avere, ma era come sua madre: vedeva un paio di scarpe, un vestito, una maglietta o qualsiasi altro tipo di vestiario e impazziva. Doveva comprarlo.
A volte scherzava con John sul fatto che il suo divorzio con Heather non l’avevano causato i tradimenti, ma l’esaurimento della carta di credito. Il cantante rideva fra sé: conoscendo l’attrice, avrebbe potuto essere vero.
Abbassò lo sguardo sul giornale, cominciando a leggere distrattamente la pagina dell’economia. Grafici, dati statistici, percentuali… non ci capiva niente, di quelle cose. Si ostinava a leggerle, però. Voleva almeno sapere che accidenti stava succedendo nel mondo.
Avrebbe dovuto limitarsi a fare musica, gli dicevano tutti. In effetti… guardò ancora l’orologio: le quattro e un quarto. Sua figlia avrebbe dovuto trovare la scusa migliore del mondo. E anche sua madre. Quando quelle due si coalizzavano era la fine del mondo.
Sambora.
Si sentiva a disagio, in quel posto. Il suo posto, la sua città, dov’era cresciuto. Racchiudeva troppi ricordi, dei quali in tutti quegli anni aveva provato a liberarsi, invano.
L’amava ancora.
Accidenti a lui e al suo orgoglio.
Accidenti a lei e alla sua testardaggine.
Ora ne pagavano le conseguenze. In peggio. In un certo senso, però, se l’erano andata a cercare, entrambi.
sentì qualcuno scostare la sedia davanti alla sua e sedersi. Non ci fece caso e continuò a fissare la pagina di giornale, senza leggerla. Era immerso nei ricordi.
- Ava, dovevi essere qui un quarto d’ora f… -
- Mi dispiace, ma non sono tua figlia. -
Quella voce. Alzò lo sguardò di scatto e ne fu così sorpreso che dovette strofinarsi gli occhi.
Tre volte.
Non poteva essere vero. Non poteva…non poteva essere… eppure era lì, davanti a lui. Nero su bianco. O viceversa. L’avrebbe riconosciuta ovunque.
Non se l’aspettava.
Incrociò i suoi occhi verdi. L’unico verde che poteva vedere. Lo aveva sempre considerato un colore speciale e ora sapeva il perché: era il colore dei suoi occhi. Di quei grandi occhi.
Verde. Come le piante, l’erba, le foglie. Il colore che, per uno strano gioco di parole, dava colore. A cosa? Al mondo? Alla sua vita.
Il chitarrista sorrise, quasi compiaciuto.
- Ciao Richie. -
- Ciao, Lucy. -
 
Ed è proprio vero quel che dice Eraclito: tutto torna. 





Note dell'autrice:
Si, sono ancora qui.
No, non preoccupatevi, non intaserò il fandom dei Bon Jovi. 
Si, questa è un'altra OS.
No, non sono sicura che ce ne sarà un'altra.
Okay, dopo essermi resa ancor più strana di quel che sono, eccomi qui con un'altra OS sui Bon Jovi, in particolare su Richie Sambora. E' uscita una sera dove, particolarmente triste *i lettori esclamano un "oh, che novità!"* stavo ascoltando One Last Goodbye e... colpo di genio. Beh. Insomma.
Stranamente, questa è una delle poche OS di cui vado fiera. Ho passato giorni a tormentarmi, indecisa se pubblicarla o meno e alla fine ho optato per il si, non so il perché. Sarà l'istinto. O il mio inconscio che si diverte a farmi brutti scherzi. 
Quindi, basandomi sulla canzone, ho deciso di dividere la canzone in step. Ognuno di essi riguarda un evento significato nella vita di Richie e in quella di Lucy. La bambina che non l'ha mai trattato come un bimbo speciale. Per lei, Richie non era un piccolo angelo sceso in terra. Per lei, Richie era solo Richie. 
Lascio a voi la storia ed eventuali commenti, per qualsiasi cosa (insulti compresi, andateci piano però!), su Twitter sono @SayaEchelon95

Alla prossima!
Kisses
Vava_95
  
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