Give
me a reason to believe that you’re gone,
I see your shadow so I know they’re all wrong.
Soffitto: nessuna luce
artificiale, penombra, bianco.
Regolarità.
Nessuna decorazione sui muri: lisci, compatti. Anonimi. Solo la porta da un
lato – scorrevole, automatica, quasi nascosta; mimetizzata.
Finestra, dall’altro lato: se sull’esterno o su una stanza illuminata è un
dettaglio privo di significato.
Irrilevanza.
Consapevolezza di qualcosa fra le dita: lenzuola. La morbidezza appena
percepita sotto un corpo troppo stanco per avere ancora sensibilità gli
suggerisce confusamente la presenza di un letto sotto la sua persona.
Con cautela muove le dita, e i polpastrelli scivolano appena sulla consistenza
della stoffa pulita. Gira appena la testa: non sente dolore.
Calma.
Sente per tutto il proprio corpo la spossatezza che appena svegli non si
dovrebbe sentire.
Potrebbe vedere cosa c’è oltre la finestra. Basterebbe alzarsi a sedere e
vedrebbe.
Volta la testa dall’altro lato.
Chiude gli occhi.
Non sa perché, ma sente solo di voler dormire.
Ha riaperto e chiuso gli
occhi un numero incalcolabile di volte per la poca coscienza che ha quando non
dorme. Nella sua testa, si rende conto, ci sono ricordi confusi fatti di
macchie di colore e forme indistinte, ombre e sensazioni.
La cosa più definita è il dolore in qualche parte del corpo che adesso non
sembra fare male e il calore di una mano che tiene la sua; non ha la minima
idea di cosa dovrebbe suggerirgli.
Sente voci, ogni tanto: riecheggiano nella stanza, con una sfumatura metallica
che può darti solo una comunicazione verbale tramite un apparecchio come il
telefono. Non sa da dove viene, e dimentica la maggior parte del contenuto
delle brevi conversazioni unilaterali che queste voci hanno con lui.
Suonano familiari, a modo loro. Si addormenta sempre prima che un nome prenda
forma e riemerga dal caos totale che è la sua testa.
Ha provato a mettere in ordine quel susseguirsi di immagini confuse. Dicono che
potrebbe aiutare e allora si è sforzato, ma non ha ottenuto nulla che non sia
un grande mal di testa quando, come unico punto fermo in tutto quel nulla,
arriva niente più di un colore: rossa è la sabbia in cui affondano i suoi
piedi, rossi gli abiti della persona che lo fa camminare, rosse due lance che
lo trafiggono, rossi gli occhi che lo guardano e promettono qualcosa che non
sente mai – rosso, come tutto quel sangue
che ad un certo punto appare dal nulla, e lo fa tremare, lo fa sentire come se
lo stessero soffocando.
Urla e si agita, poi si sente calmare all’improvviso.
Quando riapre gli occhi, deve cominciare da capo; sente ancora quella
spossatezza che il riposo non dovrebbe portare con sé.
Non sa quando ha trovato la forza per alzarsi. Sente il corpo pesante tanto
quanto prima, non importa quanto dorma – ma le immagini e le persone si sono
fatte più chiare, più nitide, alcune parole gli rimangono nella testa ora.
Ha scoperto che la finestra che aveva visto non fa altro che riflettere la sua
persona quando vi sta davanti; non lo ha ancora realizzato, ma dall’altra parte
c’è più di ciò che quella sorta di specchio gli rimanda come immagine, ci sono
persone che guardano, che osservano, che aspettano da un momento all’altro che
faccia qualcosa di pericoloso ed imprevedibile.
Qualcuno, ogni tanto, passa a prenderlo: ha capito che non può uscire da solo,
che non è permesso – ma la persona che lo accompagna fuori, a guardare quello
spruzzo di cielo che rimane in quel posto orribile che è il mondo, è sempre
diversa.
Non la conosce. O riconosce.
Le uscite non durano mai a lungo, per una serie di motivi di cui non è stato
messo al corrente; la prima volta, di fronte a quella forzata ignoranza degli
eventi e di ciò che lo circondava, aveva provato un’irritazione latente e
fastidiosa. Non era riuscito a tenerla viva per più di una manciata di secondi:
la sola assenza di scopo aveva reso inutile sapere o meno.
Uscire e rientrare era una cosa strana, uno sbocciare timido di niente più che
un accenno di sensazione: varcava la soglia di una stanza sempre chiusa e gli
sembrava di respirare una boccata d’aria dopo una lunga apnea, lo solleticava
un istinto di fuga verso la libertà che non riusciva nemmeno a riconoscere
appieno – e poi, così com’era arrivata, quella sensazione andava via e non gli
sembrava poi così speciale.
Ai suoi occhi c’era solo altra aria, forse più fresca, ma sempre ossigeno;
inspira ed espira. Nient’altro.
Tornare all’essenzialità della camera era come muoversi all’indietro e a
rallentatore: una manciata di secondi per un accenno di quella che era l’ombra
di un panico e una paura ben più grandi provati in passato, forse ancora
nascosti da qualche parte nel suo subconscio per dargli quella sensazione di
indesiderata familiarità.
Una volta dentro, spariva nella completa ed inerme rassegnazione.
Aveva imparato persino a combattere quel poco di volontà di sapere che ogni
tanto sembrava fare capolino, trovando la soluzione nel ripetersi meccanico di
gesti sempre uguali: oltrepassava la soglia, si lasciava accompagnare al
piccolo letto, si sedeva, guardava la finestra, dava il tempo all’unico altro
momentaneo occupante della stanza di controllare il marchingegno che aveva al
polso, segnare qualcosa su una cartelletta e uscire.
Non rispondeva mai al suo: «A domani, Ikari-san.»
Non cambiava mai routine.
«Shinji-kun.»
Non gli si era mai mozzato il respiro in gola con tanta forza come ora.
Era stato come risvegliarsi da un incubo: un mescolarsi completo e terrificante
dell’affanno di una fuga sfiancante seppur onirica e, insieme, il profondo
sollievo di quando si riemerge dall’acqua che il fiato rimasto bruciava già nei
polmoni.
Allo stesso modo lui aveva visto Kaworu, lì in piedi vicino a quella finestra
che dava sul nulla – o sul senso di colpa, perché aveva iniziato distrattamente
a pensare che mostrargli niente oltre il proprio riflesso fosse una punizione.
Aveva sorriso, come la prima volta che si erano visti troppo distanti per
potersi parlare, mentre Kaworu suonava il pianoforte nel mezzo del nulla e
della distruzione; pace nel mezzo di un post guerra, gli era sembrato. Poi gli
aveva sorriso da co-pilota, da compagno, da amico, un incurvarsi di labbra
leggero che gli donava, perché Shinji non riusciva davvero ad immaginarlo nel
pieno di una risata sguaiata.
Silenzioso ed elegante – e difficile,
anche se non avrebbe saputo spiegare oltre la cosa.
Aveva allungato una mano, Shinji, e poi l’aveva ritratta per paura.
Non di Kaworu, no. Della consapevolezza calata di su lui con forza, quella che
una volta era stata concentrata in un collarino di dubbio gusto che aveva
permesso di disporre della vita altrui come di un gioco; in lui si era fatta
strada la presa di coscienza spaventosa che forse qualcuno, oltre la porta o la
finestra, avrebbe potuto ucciderlo se solo avesse sfiorato Nagisa. Tuttavia,
ancor più di quello, lo aveva sfiorato un pensiero innaturale e terribile
quanto logico: se qualcuno si prendeva la briga di assicurarsi di poter mettere
comodamente fine alla sua vita allora, in un modo contorto che non comprendeva,
lui era pericoloso.
Per se stesso, ma soprattutto per gli altri.
Così, com’era arrivato, l’istinto di sfiorare Kaworu se ne era andato, prodotto
di un impulso momentaneo; in lui era affiorato prepotentemente un ricordo
confuso ma palpabile, fatto di ansia e paura, diversa da quella della morte:
c’era in lui l’ombra del senso di inadeguatezza e del timore del rifiuto, delle
ferite dell’animo più che di quelle del corpo, di un’avversione pressoché
totale al contatto – quello che non aveva ricevuto da chi lo avrebbe voluto,
ritrovandosi in un circolo vizioso di rinuncia per ciò che era stato bramato
con tutte le forze che un essere umano può trovare dentro di sé.
Eppure Kaworu non aveva detto nulla, non gli aveva rimproverato quel
ripensamento né altro: aveva solo sorriso.
Shinji aveva pianto.
Scrivere.
Gli è stato chiesto di farlo e, per essere completamente sincero, si sarebbe
voluto rifiutare; non aveva avuto la forza di opporsi completamente e Kaworu
aveva detto che valeva la pena provare, che avrebbe aspettato tutto il tempo
che fosse servito all’altro per mettere su carta la massa intricata di pensieri
che si susseguivano quasi privi di nesso logico.
La sua mente, aveva provato a spiegare al coetaneo, era come un nastro video di
tanti, troppi anni prima; come una pellicola antica i cui fotogrammi erano
stati tagliati e poi incollati male, nell’ordine sbagliato, ottenendo un
prodotto insulso e di impossibile comprensione.
Kaworu ascoltava – replicava poco, solo quando necessario, quando Shinji
boccheggiava nell’evidente e spasmodica ricerca di risposte – e rimaneva fermo
a guardarlo senza interromperlo.
Shinji scriveva, o almeno provava: passava più tempo nella contemplazione del
foglio bianco che nella stesura di un qualsiasi tipo di testo sullo stesso.
Una volta, Kaworu aveva persino sorriso divertito, avvicinandosi di soppiatto e
piegandosi in avanti, per sbirciare da sopra la spalla del castano; giocosamente
gli aveva persino fatto passare un braccio attorno alle spalle, instaurando il
contatto più diretto da quando si era fatto trovare per la prima volta in
quella stanza altrimenti spoglia e priva di qualsiasi attrattiva.
«Ancora niente?» lo aveva apostrofato, più come una semplice ed impersonale
osservazione che come un rimprovero – Shinji, lo aveva notato, non sentiva in
quella vicinanza dei corpi un calore soffocante che gli causasse impaccio… né
un tipo di calore che avrebbe saputo descrivere a livello fisico.
C’era, ma non c’era.
«Uhm… è un po’ difficile.» aveva replicato, insicuro e confuso.
«Frasi casuali.»
«Cosa?»
«Puoi provare ad iniziare con delle frasi casuali. O con le parole. Solo
parole. Come ti vengono in mente.»
Era sembrata una cosa così semplice da essere elementare, il tipo di soluzione
che dovrebbe venirti in mente subito e al tempo stesso un consiglio tipico di
Kaworu, che riusciva a far sembrare una cosa complicata facile come respirare.
O facile come avrebbe dovuto essere.
Allora Shinji aveva inspirato, cercando di non pensare troppo a quella
vicinanza – e Nagisa, che capiva senza bisogno che lui spiegasse mai nulla, si
era lentamente ritirato, misurando nuovamente a piccoli passi la stanza – ed
osservando il foglio e la matita, socchiudendo gli occhi e concedendosi il
privilegio di scrivere solo ciò di cui la sua mente si riempiva.
Pagine e pagine di un nome ripetuto all’infinito.
«Ikari-san.»
I momenti come quello sono orribili. Deve stare seduto su una sedia a lasciarsi
studiare da una persona che vede ogni giorno, ma che non riesce a rientrare
nella sfera di ciò che potrebbe definire “familiare”.
Odia tutto di quella stanza o, per meglio dire, tutto lo atterrisce e lo fa
sentire a disagio: dai fili che si diramano dal suo corpo quando l’uomo gli
posiziona gli elettrodi addosso facendolo sembrare una macchina come tutto ciò
che ha composto la sua vita fino a quel momento – gli Eva, la Nerv –, con quale
calma quello si muove come se avessero tutto il tempo del mondo, come si ritrova
con le mani che tremano senza riuscire a focalizzarne la ragione, il modo in
cui l’uomo gli si siede di fronte tenendo in mano una cartelletta su cui
scrive, scrive, scrive e non gli dice mai cosa stia annotando.
Non gli piace il fatto che non ci siano odori definiti, come se fosse lì e in
nessun posto allo stesso tempo.
Non gli piace che non ci sia Kaworu, con la familiarità che lo fa sentire
tranquillo anche in una stanza fatta di solo un letto e quattro mura e che
renderebbe claustrofobico chiunque, a lungo andare.
«Ikari-san, oggi le mostrerò qualche immagine. Alcune saranno più confusionarie
di altre, ma lei si prenda tutto il tempo e mi dica se le ricordano qualcosa,
va bene? Le identifichi.» lo incalza con cortesia e professionalità.
Shinji vorrebbe dirgli che la sua testa è fin troppo piena di frammenti di
ricordi che non sa catalogare né collocare, ma quella cortesia fatta di sola
educazione più che di gentilezza è abbastanza da farlo sentire incapace di
rifiutare, proprio come è stato quando gli ha detto di scrivere.
Perciò annuisce e basta, si guarda nervosamente intorno; gli lascia sistemare il
visore ottico che gli manda immagini addosso come una valanga da giorni, o
magari mesi, non lo sa proprio – cerca di non pensarci, si fa distrarre da
Kaworu ogni volta che torna in stanza.
Alcuni giorni va male, davvero male, e pensa che non dimenticherà mai le cose
che ha visto; in realtà, quando Kaworu gli chiede di parlagliene, Shinji si
accorge di non ricordarle già più.
Si sente sollevato, in quei momenti, e Kaworu sembra premiarlo sorridendogli
ancora.
La prima immagine è solo cielo, nient’altro.
Fiori, che forse ormai non sbocciano più da nessuna parte.
Il logo di quella che è stata la Nerv.
Il progetto cartaceo di chissà quale unità Eva.
La foto di sua madre.
La foto di suo padre.
Man mano che passano, con un filo di voce sufficiente a farsi sentire nel
silenzio completo, dà un nome alle cose che vede.
Ayanami Rei. Come sempre, gli causa una fitta di emicrania veloce e passeggera,
che l’uomo non annota nemmeno più sulla sua cartelletta.
Mare. Non ha mai capito perché, dopo Rei, venga il mare.
L’Eva-02.
Sabbia.
Asuka.
Rosso.
Di nuovo, c’è sangue ovunque – grida.
Si raggomitola nel suo angolo di stanza, fra quelle quattro pareti che sembrano
soffocanti quando Kaworu non c’è e rassicuranti quando la sua presenza ne
riempie lo spazio in maniera quasi invisibile.
Stringe le gambe al petto e trema appena – Kaworu, a pochi passi, lo guarda.
Quella fra loro, adesso, è un tipo di distanza che sente di aver già
sperimentato una volta, in luogo simile a quello, fatto di pareti spoglie e un
letto e nient’altro che suggerisse un’identità propria avvalorandone l’esistenza.
Ricaccia indietro scie e ombre di immagini che sta già dimenticando, quando la
mano di Nagisa gli sfiora la spalla: ha un tocco che lo calma, ad assicurargli quasi
che la realtà di quella stanza è perfetta e immutabile.
Però, chissà perché, gli sembra sempre che non faccia mai niente più che
sfiorarlo.
Sente, a volte, di volergli gridare contro che vuole solo un abbraccio, ciò che
ha accennato una volta e mai concluso, sempre rimandato – sente la fretta di
chi ha paura, la smania di chi non trattiene tra le mani nulla di ciò che
vorrebbe non lasciare andare mai e “lasciar andare” è una cosa che gli è sempre
riuscita bene, benché non lo desiderasse affatto. Ma Kaworu non capisce, lo
guarda e sorride con la dolcezza enigmatica che gli ha rivolto in ogni istante,
nel suo silenzio e nella sua immobilità sembra che non possa avvicinarsi più di
quanto fa e Shinji, davvero, non capisce.
Allora il panico si impadronisce di lui e stringe le gambe al petto, ancora,
ancora, perché l’unica cosa che tutto il dolore non si porta via è il suo corpo
– se stesso, invece, è un continuo perderlo e ritrovarlo in quel che somiglia
ad uno stato di perpetuo dormiveglia.
Non importa quante volte pronunci o scriva un nome, è solo carta, è solo
inchiostro.
Kaworu è un nome che si manifesta in
persona, ricordi e una stretta al petto che lo fa soffocare e poi, mentre muore
dentro, gli dà pace.
Shinji è convinto che quelle quattro mura lo schiacceranno e
che una visione folle lo salverà; oltre la finestra-specchio, in una stanza che
non vede, viene monitorato continuamente, preda di una follia che lo ha reso l’involucro
vuoto della vita e pieno solo di un ricordo che si ripete come un nastro rotto –
hanno provato a svegliarlo, ma grida, si dibatte e scappa via.
Passa ore a scrivere del nome dei morti che non possono tornare e di un unico
barlume di lucidità tradotto in disperazione.
«Non posso credere che non ti rivedrò mai più,
c’è ancora qualcosa che devo dirti.»
Poche cose, riguardanti le
citazioni più che altro.
In apertura quella di “Even in death”
(Evanescence). In chiusura, “Sakura Nagashi” (Utada Hikaru).
La verità è che Evangelion
3.0 mi ha uccisa in molti modi: non c’è mai fine alla sofferenza, qui 3
Non so quanto ciò che nella mia testa era chiaro sia emerso in tutto ciò. Spero il minimo indispensabile che renda tutto comprensibile.