Il rapporto tra lui ed Irvin
si potrebbe definire “silenzio consapevole”: è una condizione per la quale
Rivaille non ha mai dovuto sentirsi obbligato a dire tutto ciò che gli passava
per la testa perché Irvin capisse, o almeno intuisse.
A sua volta, Rivaille non è mai stato tipo da fare troppe domande – non è da
lui credere che un rapporto di rispetto o amicizia debba basarsi sull’ossessiva
sete di informazioni. Conosce Irvin abbastanza da
potersi fidare di lui senza dovergli fare continuamente domande.
Si sono osservati a lungo abbastanza da riconoscersi tanto nelle abitudini
quanto nei momenti in cui, tacitamente, hanno bisogno di stare soli.
Irvin sembra il tipo di persona in grado di prendere
tutto ciò che ha e gettarselo alle spalle senza indugio per il bene comune;
dopotutto, ha quasi avuto l’esigenza
di diventare capace di farlo.
Rivaille lascia che gli altri lo credano, e tiene per sé il ricordo di una missione
catastrofica proprio come porterebbe con sé nella tomba un segreto militare.
Il numero di morti in quella battaglia era stato così elevato da far venire il
voltastomaco anche al soldato più preparato.
A rimanere in piedi erano rimasti in pochi – troppo pochi per riportare
indietro ciò che restava dei corpi mutilati scampati alle fauci dei giganti,
troppo pochi per sostenersi, troppo pochi per gioire dell’essere ancora vivi,
per farsi peso delle vite degli altri, per sopportare la vergogna di tornare
indietro da fallimento e non da eroi. Troppo pochi per riuscire ad avere ancora
forza, o speranza.
Avanzare per una strada fatta di pietra e sguardi curiosi che si trasformavano
in muta accusa era stato persino più difficile che combattere; Rivaille aveva
messo un piede davanti all’altro, ancora, ancora, e poi aveva guardato la folla
e li aveva visti: sguardi di sufficienza, come se ne avessero il diritto poi,
come se non stessero lì a tremare di paura ad aspettare che quelli come lui –
quelli che morivano – gli salvassero
il culo ogni volta.
Aveva fatto schioccare la lingua, stizzito. Poi Irvin
si era bloccato, e solo in un secondo momento Rivaille aveva notato una donna
affrettarsi dietro una bambina.
Irvin si era fermato, troppo stanco per tutto, troppo
abbattuto per dire ad una bambina che suo padre non era tornato indietro; lei
però aveva solo sorriso e allungato le piccole mani, tra di esse un semplice
foglio di carta e nient’altro.
Rivaille era certo che, nel riprendere a camminare, Irvin
non stesse piangendo ma che non farlo gli stesse costando uno sforzo immenso –
lo vedeva dalle spalle che tremavano.
Rivaille è stato nell’ufficio di Irvin un numero di
volte di cui ha perduto il conto ormai, specialmente a ridosso delle spedizioni
fuori dalle mura.
La scrivania dell’altro è ordinata ed ospita per lo più documenti ben impilati
l’uno sull’altro; nel secondo cassetto a sinistra è contenuto solo un foglio di
carta un poco ingiallita – su di esso, solo due parole.
Irvin la chiama “speranza”.
Wilkommen zurük.
Bentornati.
Suonava come “grazie di essere ancora vivi”.
Questa cosina mi è balenata in testa dal nulla, ma tant’è.
Un grazie a Zexion per il suggerimento in tedesco e a
Kanra per la sopportazione delle mie paturnie (L)