Ciao!!!
Scusate l’immenso ritardo.. Il mio esame di abilitazione si avvicina e le mie
risorse scarseggiano! Volevo comunque pubblicare qualcosa per ringraziarvi
tutti della lettura e delle vostre splendide parole! Non è molto lungo, ma
spero faccia un minimo di chiarezza… A presto! E se avete tempo, pregate un po’
per me!!!
Martina
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Quel posto era una vera
bettola, i muri gocciolavano e tutta quell’umidità puzzolente iniziava a
penetrargli la pelle della schiena. L’effetto del miorilassante era ormai
sparito, quindi, ad occhio e croce, erano passate almeno due ore da che gli
scagnozzi di Mancini l’avevano depositato in quella stanza scura. Il tizio che
aveva di fronte, incaricato di “intrattenerlo”, si era già stancato da un pezzo
di prenderlo a pugni ed ora ne stava lì, con gli occhi incollati al suo
telefono e la mente rapita da qualche stupido videogame o sito porno.
Joseph stirò i muscoli del
collo, prima a destra poi a sinistra, finendo testa al muro nel tentativo di
roteare il capo. Era attaccato alla parete di mattoni e cemento, letteralmente
incatenato per i polsi come in una sorta di stanza delle torture medioevale,
senza poter far altro che allungare e piegare le ginocchia. Il suo cervello era
tornato al pieno dell’attivazione e tutti i suoi pensieri giravano attorno
all’unica idea di uscire di lì, possibilmente intero. Continuava a chiedersi se
Nathaniel fosse da qualche parte nella sua stessa situazione o se la sua
assenza significasse che qualcuno di quegli psicopatici aveva osato fargli del
male. La sola idea gli fece ribollire il sangue. Finì inevitabilmente per
fissare il tizio davanti a lui ed immaginarsi, a chiari colori, l’intreccio
delle sue budella sul pavimento. Poco male che non avesse coltelli con sé,
avrebbe squartato tutti a mani nude se fosse stato necessario.
La porta della stanza si
aprì di colpo mostrando, nella scia di luce dall’esterno, il nuovo aspetto
pulito ed ordinato di Cara. Doveva essersi fatta un’altra doccia o magari un
idromassaggio con quel coglione di Little K perché l’odore di muschio bianco
era stato completamente sovrastato da una nuova fragranza di miele e lavanda.
Stucchevole. I suoi capelli rimbalzavano perfetti in morbide onde ed indossava
disinvolta un paio shorts e una maglietta.
“Vattene Call.”
Ordinò senza nemmeno
guardare l’altra persona nella stanza, i suoi occhi erano fissi, puntati come
armi addosso alla miseria di Joseph. Il tizio eseguì senza fiatare. La porta
gli si chiuse dietro e Cara rimase in silenzio all’angolo della stanza. Quello
era il suo mondo, quelle le sue persone, eppure, dopo solo qualche ora
trascorsa tra le dita ruvide di Little K e le risate sguaiate degli altri
merli, una specie di forza inconscia l’aveva trascinata fino a quel
sotterraneo. Scemata l’onda d’adrenalina ed eccitazione, nel profondo di sé era
emerso il bisogno. Bisogno di pace, di silenzio, bisogno di tornare a quella
semplice dimensione in cui null’altro importava tranne lei, lei e la sua
vendetta, lei ed il suo scopo, lei e Joseph Michaelson.
Non era così che doveva
andare. Cara era volata in Sud Africa col solo scopo di monitorare la
situazione, seguire le mosse delle autorità, trovare un buco nella sorveglianza
che le permettesse di prelevare il Lupo. Ironia della sorte, l’assassino era
stato rispedito negli Stati Uniti mezz’ora dopo il suo atterraggio. Aveva
dovuto pensare in fretta, disponendo un perfetto piano B nel giro di qualche
minuto.
Ty le aveva fornito la scusa
e Sonia gli strumenti.
Una volta sull’aereo tutto
ciò che avrebbe dovuto fare era attirare la sua attenzione, distrarlo da
qualsiasi fuga avesse pianificato, studiare le sue mosse fino all’atterraggio.
Arrivati poi a terra, con l’aiuto degli altri merli, avrebbe raggiunto lo scopo
originale. Non erano previste conversazioni, non erano previsti contatti
diretti, tantomeno era previsto il sesso… Ma cos’altro avrebbe potuto fare in
fin dei conti? Lo schianto dell’aereo era fuori da ogni ipotesi e mai, mai,
nemmeno trovandocisi in mezzo, Cara avrebbe potuto immaginare che uno come il
Lupo l’avrebbe salvata. Da quell’istante in poi non aveva potuto far altro che
improvvisare, cercare di calarsi nella parte, usare ogni arma in suo possesso
per conquistarne la fiducia e garantirsi la sopravvivenza. Era brava in questo,
dopotutto aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita fingendo di essere nulla
più che una cameriera squattrinata eppure, dopo pochi giorni in quella recita,
non avrebbe più saputo indicare con certezza la linea di confine tra finzione e
realtà.
Odiava l’uomo che le stava
davanti, disprezzava il suo nome, le sue mani sporche di sangue, la sua
presunzione. Mosse qualche passo verso il prigioniero, ispezionandolo
attentamente con lo sguardo. Detestava i suoi lineamenti marcati, le sue labbra
morbide e perfette, i capelli scompigliati, i suoi muscoli scolpiti… Lo odiava
così tanto che non aveva resistito più di tre ore senza tornare a guardarlo.
Cara si avvicinò di due
passi ancora, guardandolo dall’alto. Dalla tasca posteriore dei pantaloni tirò
fuori dell’acqua e piano svitò il tappo.
“Scommetto che hai sete.”
Piegò le ginocchia e gli
avvicinò la bottiglia alla bocca solo per vederlo ritrarsi e girare il capo
dall’altro lato a labbra serrate.
“Credi che sia davvero così
vile? Non copierei mai lo stile di un Michaelson.”
Precisò, mandando giù due
sorsi pieni di liquido trasparente. Joseph tornò a guardarla, ancora
sospettoso, ma assalito dai bisogni primari. Mosse i polsi cercando ancora una
volta di venir fuori dalle catene, ma rinunciò ben presto. Cara gli si
inginocchiò di fronte, incrociando le gambe a quelle di lui, portandogli
lentamente la bottiglia alla bocca. Il liquido gli scivolò abbondante sulla
lingua e sul viso. Joseph si sforzò di mandarne giù quanto più possibile. Quel
gesto di pietà avrebbe di certo avuto un caro prezzo.
Cara lasciò cadere il
contenitore a terra. Barbie, pensò l’assassino, Barbie, sforzandosi di ricordare
il suo vero nome e non più quello della ragazza che aveva salvato e desiderato.
Doveva dimenticare quel nome per sempre, anche se la donna di fronte a lui in
quel momento, così vicina ed apparentemente inoffensiva, le somigliava tanto.
“Perché sei qui? Perché non
mi uccidi e basta?”
Lei gli poggiò le mani sulle
cosce.
“Tu sei stato gentile con
me. Sto solo cercando di ricambiare il favore.”
“Non voglio la tua pietà.”
“E non ne avrai, sta’
tranquillo.”
Ribatté lei, come se in
quell’istante preciso si fosse ricordata di cosa rappresentasse Joseph. La sua
vendetta. Si tirò su ed afferrò una sedia. Per almeno cinque minuti nessuno dei
due disse nulla.
“Tu e Little K, eh?”
Alla fine fu Joseph a
parlare per primo, incapace di resistere alla tentazione di guardarla con
sufficienza. Cara sollevò le spalle
“Perché? Credi di essere
migliore di lui?”
L’assassino incatenato
accennò un sorriso sardonico
“Perfino un cane sarebbe
meglio di lui.”
Cara lasciò cadere le sue
parole senza degnarle di una risposta, come se fosse troppo impegnata a pensare
ad altro per affrontare una simile conversazione.
“Sarebbe lui?”
Incalzò Joseph
“…Il tizio che ti ha
tradita, quello per cui avevi perso la voglia di vivere.”
Stavolta lei sollevò gli
occhi, colpita dall’incredibile attenzione che lui sembrava aver prestato ad
ogni sua parola.
“Non sprecherei mai le mie
lacrime per un uomo.”
“Quindi era una bugia… Ogni
tua parola lo era.”
Era un’ovvietà, ma Joseph
dovette sforzarsi per non suonare disperatamente deluso nell’ammetterlo ad alta
voce. Cara gli rivolse uno sguardo più attento, ricercando nel suo aspetto una
conferma della vulnerabilità traspirata dalle sue parole. Se ne stava lì,
forzatamente fermo ma rilassato, le mani ciondolanti e le gambe allungate,
senza ombra di timore in viso.
“In realtà non ti ho mai
mentito…”
Lui sollevò il mento. Mai
come in quella situazione aveva dubitato della sua capacità di leggere le
persone.
“…Cara è il mio nome… E
negli ultimi quattro anni ho davvero vissuto un’insulsa vita da cameriera
aspettando questo momento, fidanzato traditore incluso…”
Si prese un attimo di pausa,
accogliendo alla mente un’immagine di Ty e dei suoi hotdog affogati nella
senape
“…Ovviamente sapevo già che
si sbatteva un’altra, ma non posso lamentarmi troppo… Dopotutto non sono mai
stata una fidanzata appassionata.”
Joseph trattenne tra le
labbra un commento sarcastico. Lui riusciva a vedere passione in ogni sua
mossa.
“Dimmi come hai fatto.”
La richiesta dell’assassino
attirò gli occhi di Cara su di sé, lucidi e brillanti come veri lapislazzuli.
“Fatto cosa?”
“Come sapevi che mi sarei
trovato su quell’aereo? Come sapevi cosa fare?”
Lei inspirò. Non è bene
aprirsi con le proprie vittime, è vero, la si potrebbe anzi definire una vera
mossa da dilettanti eppure, guardando Joseph seduto a terra, sporco di sangue e
polvere, quasi crocifisso al muro e coi polsi stretti nel ferro, Cara sentì che
le parole le danzavano dentro impazienti di uscire. Averlo lì, dove nessun
altro poteva vedere o sentire, proprio come nel minuscolo bagno dell’aereo,
risvegliava in lei la voglia di non essere null’altro che il ciclone di
emozioni che si portava dentro. Sorrise d’orgoglio, ma di un orgoglio amaro
“Tutta la mia vita negli
ultimi nove anni, tutto ciò che ho fatto, detto o anche solo pensato, tutto è
stato per arrivare fino a qui, ad un solo passo da William Michaelson.”
“E’ per questo che Mancini
ti ha assoldata?”
Cara scosse la testa
“Lui non mi ha assoldata, mi
ha salvata.”
Joseph sollevò un
sopracciglio perplesso, nella varietà del lessico umano di certo non avrebbe
mai definito Robert Mancini un salvatore.
“…Negli ultimi nove anni,
mentre mi addestravo e vivevo la mia finta esistenza, ho studiato ogni più
piccolo aspetto della tua famiglia, seguito le vostre mosse, cercato i vostri
punti deboli… Aspettato pazientemente che arrivasse il momento giusto…”
“Johannesburg.”
Dedusse lui.
“…Non riuscivo a credere che
ti fossi fatto fregare dalla polizia, tanto meno che Vladimijr Pushkin fosse
riuscito a farmi un simile favore. Il Lupo servito su un piatto d’argento e
dietro di lui, inevitabilmente, un fratello dopo l’altro.”
“Non ha senso…”
L’assassino scosse la testa
“…Come potevi sapere che ti
avrei salvata?”
Qualcosa si accese nelle
iridi della ragazza
“Non lo sapevo. Non sapevo
nemmeno che ti avrebbero reimbarcato per New York mezz’ora dopo il mio arrivo a
Johannesburg. Se l’avessi saputo mi sarei di certo risparmiata uno scomodo
viaggio…”
Prese fiato
“…Nessuno aveva previsto che
Elia buttasse giù un intero aereo per te. Tutto quello che dovevo fare era
attirare la tua attenzione. Starti dietro. Una volta a terra gli altri merli
avrebbero fatto il resto.”
“E come sapevi che avrebbe
funzionato?”
Si mosse lentamente
raggiungendolo di nuovo. Gli si inginocchiò di fronte
“Perché conosco tutto di te,
perfino le tue fantasie più nascoste. E so che tutte o quasi prevedono un
piccolo angelo biondo desideroso di sporcarsi le ali...”
Con quegli occhi blu gettati
nei suoi, Joseph non trattenne un brivido. Molto probabilmente quella donna
sconosciuta avrebbe potuto cavargli l’anima e srotolargliela davanti come un
libretto d’istruzioni.
“…Quello che non potevo
immaginare è che ti sarei piaciuta tanto da salvarmi.”
Joseph abbassò lo sguardo,
sbuffando nel tentativo di sminuire e deridere quella sua assurda convinzione.
Riusciva a sentir chiara la vergogna della sua stupidità, ma non le avrebbe di
certo concesso un balletto di esultanza.
“Il modo in cui mi hai
guardata in quel bagno, come se fossi la creatura più fragile ed innocente del
pianeta, come se mi desiderassi più di ogni altra cosa al mondo…”
Cara sentì il cuore battere
più veloce
“…Mi hai fatto desiderare di
esserlo davvero.”
Eccola. Chiara e
terribilmente fastidiosa. La vera ragione per cui si trovava lì.
L’assassino sollevò il viso
e se la trovò vicina, di nuovo a pochi centimetri di distanza, candida e
delicata come la prima che l’aveva vista, con i suoi grandi occhi color oceano
sgranati e luccicanti. La sicurezza di pochi minuti prima svanita nel nulla, il
desiderio di vendetta offuscato dalla semplicità della vicinanza.
Cara lasciò scorrere i
polpastrelli sul taglio ancora aperto sopra il suo zigomo, delicatamente, quasi
non volesse provocargli alcun dolore. Joseph trattenne il respiro stringendo le
redini della sua psiche. Lo stava fregando ancora, giocando con la sua mente
come un’abile illusionista. La ragazza che aveva davanti non esisteva davvero,
la sua ragazzina dell’aereo non era reale, anche se in quel momento sembrava
tornata, nulla di lei era reale, nulla. Doveva convincersene una volta per
tutte, prima che la voglia di riaverla riuscisse a sgattaiolare fuori dalle
barriere della sua ragione.
Quella donna era un mostro.
Doveva essere un mostro. Una specie di mutaforma in grado di trasformarsi
all’occorrenza, ora una spietata assassina, ora un’innocente ragazzina.
Cara si portò le dita alle
labbra, senza nemmeno rendersene conto, assaggiando per la prima volta il gusto
di un assassino. L’aveva sempre immaginato amaro, avvelenato dalla rabbia e
dalla morte, e invece no… Sulla sua lingua Joseph fu dolce come zucchero filato
e salato come il mare.
Lui si irrigidì, spiazzato
da quel gesto totalmente inaspettato. Non poteva farci nulla. Nonostante fosse
il nemico, nonostante desiderasse ora più che mai spezzarle il collo, se lei lì, in quel preciso momento, l’avesse
toccato ancora una volta, non avrebbe potuto dirsi certo di saper controllare
il proprio corpo.
Trattenne a stento la voglia
di roteare gli occhi al cielo. Vendetta o meno, quella donna sarebbe stata la
sua fine.
La cosa più sicura da fare
era cambiare argomento. Immediatamente.
“Che cosa ti ha fatto mio
padre?”
Ogni ombra di seduzione le
sparì dal viso nell’arco di un secondo. Cara si ritirò nel guscio come una
lumaca quando gli si toccano le antenne. Allontanandosi da Joseph il più
possibile inspirò a pieni polmoni.
Sapeva come rispondere, ma quel
macigno non sembrava proprio voler venir fuori.
“Ha ucciso la mia famiglia.”
Rispose infine senza
guardarlo. Le parole uscirono come lame, come se per la prima volta stesse
verbalizzando il suo dolore, come se fino a quel momento le avesse tenute
dentro, respinte, rimosse, stipate nel subconscio per non sentirne il peso
insopportabile.
Joseph aggrottò le sopracciglia,
non aveva idea di cosa c’entrasse la famiglia di Cara Phillis con la sua, ma
l’ombra apparsa di colpo sul viso di lei non lasciava adito a dubbi. In qualche
modo William era responsabile della morte di queste persone e la ragazza viveva
solo per un unico scopo, ripagare la morte con la morte. Vendetta, il più
antico dei moventi dopo la gelosia.
“Io ucciderò la sua…”
Aggiunse fissando il nulla,
pregustando il sapore dell’espiazione e lasciandosi colare in una specie di
realtà parallela.
“…E poi ucciderò anche lui.”
“Il rapporto della polizia
dice che i tuoi sono morti in un incidente.”
Cara sorrise a labbra
strette
“E’ quello che volevo
credessi, ma non è andata così…”
Inevitabilmente i ricordi
presero a scorrerle davanti agli occhi
“…I tirapiedi di tuo padre
hanno ucciso i miei genitori a sangue freddo, senza pensarci due volte.”
Strinse i pugni e finalmente
gli rivolse lo sguardo
“Vuoi sapere qual è il
ricordo che ho più nitido di quella sera?”
Joseph non osò rispondere.
“Non si sfugge da Michaelson…”
Ripeté cercando di
trattenere il disgusto ed imitare lo stesso tono solenne
“…Così hanno detto. Le
ultime parole che mio padre ha sentito prima di morire.”
Lui rimase in silenzio,
bloccato dall’autenticità di quei pezzi di memoria che lei gli stava offrendo e
che lui non riusciva a collegare. Per amor della sua stessa sopravvivenza
avrebbe dovuto indagare, cercare di capire, individuare il punto debole della
sua motivazione eppure, consapevole di essere nulla più di un assassino, non
avrebbe mai potuto mancare di rispetto alla morte. Anche lui aveva perso sua
madre qualche anno prima, l’unico genitore biologico che avesse ed unica
persona al mondo che mai lo avesse amato.
Era stata una stupida
emorragia celebrale a portarla via e Joseph non aveva potuto far altro che
accettarlo. Il caso, il destino o Dio, se così lo si vuol chiamare, non sono
certo nemici che puoi rincorrere e massacrare. Nessuna vendetta per lui.
Guardando il vuoto negli
occhi di Cara in quel momento qualcosa gli si mosse dentro. Se l’assassino di
sua madre avesse avuto un nome ed un volto, anche lui avrebbe spaccato le
montagne pur di aver giustizia.
Cosa avrebbe potuto mai dire
o fare che potesse farle cambiare idea? E perché poi? William meritava di
morire, per mano di Cara e di almeno un milione di altre persone.
“Perché vuoi uccidere anche
noi?”
Lei sospirò, come se fosse
ovvio
“Morire e basta sarebbe
troppo semplice. Voglio che prima sappia cosa vuol dire restare soli al mondo.”
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Elia spinse la porta dello
Sweet Lorraine seguito da due dei suoi uomini più fidati, troppo nervoso e
preoccupato per notare le guardie di Pushkin che lo seguivano ormai da ore.
Il suo olfatto allenato non
mancò di cogliere immediatamente l’odore di sangue stagnante che riempiva la
sala. Ogni nervo nel suo corpo si tese, ormai era certo che qualcosa fosse
andato storto ed il cadavere scomposto di Xavier, imbrattato delle sue stesse
cervella, ne fu la conferma.
Salì le scale due gradini
alla volta, la pistola stretta nella mano destra.
Dentro l’appartamento di
Joseph la puzza di morte divenne quasi insopportabile. Un altro cadavere. Lo
raggiunse di fretta, sollevato alla scoperta che non si trattava di uno dei
suoi fratelli. Quella faccia sconosciuta portava chiari i lineamenti del suo
tormento. Russi.
Notando i segni netti di
un’arma da taglio se ne sentì sollevato. Doveva essere opera di Joseph, il che
poteva solo dire che suo fratello si era difeso. Tirò fuori il telefono dalla
tasca della giacca e compose nuovamente lo stesso numero. Nessun segnale
all’altro capo. Idem per il cellulare di Nathaniel.
Senza trattenere
l’esasperazione, si rivolse ai suoi compagni
“Controllate il palazzo.”
Loro si mossero e lui rimase
lì, fermo ed inerme, totalmente perso nelle supposizioni. Dove diavolo erano
finiti? Era così assorto nei propri pensieri che solamente dopo un secondo si
rese conto di non essere solo. La presenza era palpabile, vicina, respirava la
sua stessa aria in maniera quasi impercettibile.
Strinse l’impugnatura
dell’arma e si voltò di scatto, più che pronto a fare fuoco.
Lei.
Il mondo di Elia smise di
girare. Il freddo, crudele, intoccabile William Michaelson IV riuscì chiaramente a sentire il crack del suo
cuore di ghiaccio sotto la camicia di cotone italiano.
Lei era lì.
In carne ed ossa davanti ai
suoi occhi.
“Sei anche più bello di
quanto ricordassi.”
Il dolce suono della sua
voce gli piombò addosso come un treno in corsa. Due anni, due interi anni di
nottate in bianco, tutte spese a chiedersi dove fosse finita ed eccola lì, comparsa
dal nulla come un fantasma, come se non se ne fosse mai andata davvero. I
lunghi capelli, scuri e mossi, le incorniciavano il viso, la pelle chiarissima
sempre perfetta ed i suoi grandi occhi marroni che sembravano volerne saltar
fuori, contornati dal pesante trucco nero.
Katrina.
Sua moglie.
“..Tu?”
Lei sorrise, riempiendo la
stanza di luce e togliendo ad Elia ogni forza rimasta. In quel momento non era
più uno spietato assassino, tantomeno un soldato addestrato alla peggior
guerra. Era solo creta, morbida creta nelle mani di una donna.
Gli fu chiaro più che mai.
E’ proprio questo che intendono dire quando descrivono l’amore come la peggiore
delle debolezze.
Katrina, stretta in un paio
di aderentissimi pantaloni neri, si mosse a passi lenti verso di lui,
costringendolo ad abbassare pistola e difese senza che nemmeno se ne
accorgesse.
“E’ davvero passato troppo
tempo.”
Aggiunse, lasciandogli
notare di non aver mai perso il marcato accento sovietico. Lui non mosse un
muscolo, tramutato in pietra dal tocco delle sue dita sottili sul collo della
giacca. Poteva sentirla. Era reale.
Lei era reale.
“Dov’eri?”
Katrina sollevò le iridi
scure, accarezzando quel viso che credeva d’aver dimenticato.
“Perdonami Elia.”
Sussurrò. Lui chiuse gli
occhi per un solo istante.
“Per cosa?”
Anche l’altra mano di
Katrina si posò sul suo petto, leggera e morbida contro il lino del vestito
“Per tutto quanto…”
I loro corpi si sfiorarono.
Il suo profumo gli riempì le narici. Tuberosa. Lo stesso di sempre.
“…Ma soprattutto…”
Per l’ombra di un secondo
sentì il suo respiro sulle labbra
…Per questo.”
Concluse stringendo la presa
attorno al bavero della giacca e facendo forza. Il ginocchio destro di Katrina
gli si piantò dritto tra le gambe, togliendogli di colpo la vista. Tramortito
dal dolore non si accorse nemmeno della sua maestria nel togliergli di mano la
pistola.
Un rapido cenno verso la
porta ed altri tre, forse più, gli furono addosso. Elia sentì lo scatto
consecutivo di almeno tre semiautomatiche. Sollevò piano lo sguardo. Lei era
ancora lì.
“Che stai facendo?”
Teneva la sua pistola tra le
dita, ma senza puntargliela contro.
“Ti spiegherò tutto Elia…”
Gli girò intorno a debita
distanza
“…Ma prima dovrai venire con
me.”
Elia seguì i suoi movimenti,
registrando con la coda dell’occhio ogni minimo particolare. Quattro uomini
armati, di certo non russi. Vicini, ma pur sempre troppo lontani. Nonostante
avesse con sé un’arma di riserva sarebbe stato impossibile raggiungerne anche
solo uno senza lasciare agli altri il tempo di sparare.
Ma gli avrebbero sparato sul
serio? Katrina avrebbe davvero lasciato che gli sparassero?
“Dove?”
Domandò dopo l’attenta
valutazione di ogni via di fuga.
“Dove i tuoi preziosi
fratelli aspettano.”
Spalancò gli occhi. Se c’era
Pushkin dietro quest’attacco e quello di Johannesburg, e se c’era anche Katrina
in mezzo, avrebbe solo potuto dire che sua moglie era tornata al padre già da
un pezzo. Perché continuare quella faida allora? Perché Pushkin era in città?
Perché sembrava non voler dar loro pace?
C’era un solo modo per scoprirlo.
Seguirla.
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Il russo vestito di nero,
appollaiato sul tetto come una poiana annoiata, strinse gli artigli attorno al
binocolo al primo cenno di movimento. Più figure di quante ne fossero entrate
stavano uscendo dal palazzo.
Ruotando l’obiettivo mise a
fuoco la silhouette di Elia Michaelson. Non c’era dubbio che fosse lui. La
donna che gli sfilava accanto d’altra parte… Consumò il tasto dello zoom
cercando di arrivarle il più vicino possibile.
Quei capelli e quel viso,
stampati nella sua memoria.
Katrina Pushkina, la figlia
perduta del suo signore, camminava a passi svelti nel centro di New Orleans
accanto al suo indegno marito.
Che fosse tornata? Che i
Michaelson la stessero tenendo nascosta?
Spinse immediatamente il
tasto della trasmittente
“Signore?”
All’altro capo il famigerato
Vladimijr Pushkin
“Sono tutti morti?”
“Non ancora signore.”
“Allora perché sprechi il
mio tempo Dmijtri?”
“Katrina signore.”
L’improvviso silenzio
dall’altro lato fu il segno del suo completo interesse
“Perché osi nominare mia
figlia?”
L’altro mandò giù calibrando
le parole. Due sillabe di troppo ed avrebbe pagato lui le conseguenze di quella
scoperta.
“E’ viva. Ed è qui signore, a
New Orleans. Con Elia Michaelson.”
Non poteva vederlo, ma
riuscì perfettamente ad immaginare la collera che riempiva ogni cellula del suo
corpo. Il solo sentir nominare Elia aveva annullato ogni gioia nel saper viva
la sua unica erede.
“Seguiteli. Dovunque
vadano.”
Quella non era questione per
i suoi scagnozzi. Una tal rivelazione meritava il suo intervento in carne, ossa
ed esercito completo.
“Dmijtri?”
“Sì signore?”
“Perdili di vista e pagherai
con la tua testa.”