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Autore: BeautifulMessInside    31/05/2013    1 recensioni
"Non hai paura di morire?" - "Non ho molte ragioni per vivere."
Cara non sarebbe dovuta salire su quell'aereo, non sapendo che Joseph Michaelson, detto il Lupo, sarebbe stato sul suo stesso volo.
Joseph non avrebbe dovuto salvare la ragazza, non sapendo chi lei fosse. Ma Joseph non ha idea di chi sia Cara e lei non può sapere che lui davvero farà il grosso sbaglio di salvarla.
Assassini, famiglie potenti, attrazioni pericolose e segreti nascosti in una storia dove non tutto è come sembra.
Genere: Angst, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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cap9

Ciao!!! Scusate l’immenso ritardo.. Il mio esame di abilitazione si avvicina e le mie risorse scarseggiano! Volevo comunque pubblicare qualcosa per ringraziarvi tutti della lettura e delle vostre splendide parole! Non è molto lungo, ma spero faccia un minimo di chiarezza… A presto! E se avete tempo, pregate un po’ per me!!!

Martina

 

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Quel posto era una vera bettola, i muri gocciolavano e tutta quell’umidità puzzolente iniziava a penetrargli la pelle della schiena. L’effetto del miorilassante era ormai sparito, quindi, ad occhio e croce, erano passate almeno due ore da che gli scagnozzi di Mancini l’avevano depositato in quella stanza scura. Il tizio che aveva di fronte, incaricato di “intrattenerlo”, si era già stancato da un pezzo di prenderlo a pugni ed ora ne stava lì, con gli occhi incollati al suo telefono e la mente rapita da qualche stupido videogame o sito porno.

Joseph stirò i muscoli del collo, prima a destra poi a sinistra, finendo testa al muro nel tentativo di roteare il capo. Era attaccato alla parete di mattoni e cemento, letteralmente incatenato per i polsi come in una sorta di stanza delle torture medioevale, senza poter far altro che allungare e piegare le ginocchia. Il suo cervello era tornato al pieno dell’attivazione e tutti i suoi pensieri giravano attorno all’unica idea di uscire di lì, possibilmente intero. Continuava a chiedersi se Nathaniel fosse da qualche parte nella sua stessa situazione o se la sua assenza significasse che qualcuno di quegli psicopatici aveva osato fargli del male. La sola idea gli fece ribollire il sangue. Finì inevitabilmente per fissare il tizio davanti a lui ed immaginarsi, a chiari colori, l’intreccio delle sue budella sul pavimento. Poco male che non avesse coltelli con sé, avrebbe squartato tutti a mani nude se fosse stato necessario.

La porta della stanza si aprì di colpo mostrando, nella scia di luce dall’esterno, il nuovo aspetto pulito ed ordinato di Cara. Doveva essersi fatta un’altra doccia o magari un idromassaggio con quel coglione di Little K perché l’odore di muschio bianco era stato completamente sovrastato da una nuova fragranza di miele e lavanda. Stucchevole. I suoi capelli rimbalzavano perfetti in morbide onde ed indossava disinvolta un paio shorts e una maglietta.

“Vattene Call.”

Ordinò senza nemmeno guardare l’altra persona nella stanza, i suoi occhi erano fissi, puntati come armi addosso alla miseria di Joseph. Il tizio eseguì senza fiatare. La porta gli si chiuse dietro e Cara rimase in silenzio all’angolo della stanza. Quello era il suo mondo, quelle le sue persone, eppure, dopo solo qualche ora trascorsa tra le dita ruvide di Little K e le risate sguaiate degli altri merli, una specie di forza inconscia l’aveva trascinata fino a quel sotterraneo. Scemata l’onda d’adrenalina ed eccitazione, nel profondo di sé era emerso il bisogno. Bisogno di pace, di silenzio, bisogno di tornare a quella semplice dimensione in cui null’altro importava tranne lei, lei e la sua vendetta, lei ed il suo scopo, lei e Joseph Michaelson.

Non era così che doveva andare. Cara era volata in Sud Africa col solo scopo di monitorare la situazione, seguire le mosse delle autorità, trovare un buco nella sorveglianza che le permettesse di prelevare il Lupo. Ironia della sorte, l’assassino era stato rispedito negli Stati Uniti mezz’ora dopo il suo atterraggio. Aveva dovuto pensare in fretta, disponendo un perfetto piano B nel giro di qualche minuto.

Ty le aveva fornito la scusa e Sonia gli strumenti.

Una volta sull’aereo tutto ciò che avrebbe dovuto fare era attirare la sua attenzione, distrarlo da qualsiasi fuga avesse pianificato, studiare le sue mosse fino all’atterraggio. Arrivati poi a terra, con l’aiuto degli altri merli, avrebbe raggiunto lo scopo originale. Non erano previste conversazioni, non erano previsti contatti diretti, tantomeno era previsto il sesso… Ma cos’altro avrebbe potuto fare in fin dei conti? Lo schianto dell’aereo era fuori da ogni ipotesi e mai, mai, nemmeno trovandocisi in mezzo, Cara avrebbe potuto immaginare che uno come il Lupo l’avrebbe salvata. Da quell’istante in poi non aveva potuto far altro che improvvisare, cercare di calarsi nella parte, usare ogni arma in suo possesso per conquistarne la fiducia e garantirsi la sopravvivenza. Era brava in questo, dopotutto aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita fingendo di essere nulla più che una cameriera squattrinata eppure, dopo pochi giorni in quella recita, non avrebbe più saputo indicare con certezza la linea di confine tra finzione e realtà.

Odiava l’uomo che le stava davanti, disprezzava il suo nome, le sue mani sporche di sangue, la sua presunzione. Mosse qualche passo verso il prigioniero, ispezionandolo attentamente con lo sguardo. Detestava i suoi lineamenti marcati, le sue labbra morbide e perfette, i capelli scompigliati, i suoi muscoli scolpiti… Lo odiava così tanto che non aveva resistito più di tre ore senza tornare a guardarlo.

Cara si avvicinò di due passi ancora, guardandolo dall’alto. Dalla tasca posteriore dei pantaloni tirò fuori dell’acqua e piano svitò il tappo.

“Scommetto che hai sete.”

Piegò le ginocchia e gli avvicinò la bottiglia alla bocca solo per vederlo ritrarsi e girare il capo dall’altro lato a labbra serrate.

“Credi che sia davvero così vile? Non copierei mai lo stile di un Michaelson.”

Precisò, mandando giù due sorsi pieni di liquido trasparente. Joseph tornò a guardarla, ancora sospettoso, ma assalito dai bisogni primari. Mosse i polsi cercando ancora una volta di venir fuori dalle catene, ma rinunciò ben presto. Cara gli si inginocchiò di fronte, incrociando le gambe a quelle di lui, portandogli lentamente la bottiglia alla bocca. Il liquido gli scivolò abbondante sulla lingua e sul viso. Joseph si sforzò di mandarne giù quanto più possibile. Quel gesto di pietà avrebbe di certo avuto un caro prezzo.

Cara lasciò cadere il contenitore a terra. Barbie, pensò l’assassino, Barbie, sforzandosi di ricordare il suo vero nome e non più quello della ragazza che aveva salvato e desiderato. Doveva dimenticare quel nome per sempre, anche se la donna di fronte a lui in quel momento, così vicina ed apparentemente inoffensiva, le somigliava tanto.

“Perché sei qui? Perché non mi uccidi e basta?”

Lei gli poggiò le mani sulle cosce.

“Tu sei stato gentile con me. Sto solo cercando di ricambiare il favore.”

“Non voglio la tua pietà.”

“E non ne avrai, sta’ tranquillo.”

Ribatté lei, come se in quell’istante preciso si fosse ricordata di cosa rappresentasse Joseph. La sua vendetta. Si tirò su ed afferrò una sedia. Per almeno cinque minuti nessuno dei due disse nulla.

“Tu e Little K, eh?”

Alla fine fu Joseph a parlare per primo, incapace di resistere alla tentazione di guardarla con sufficienza. Cara sollevò le spalle

“Perché? Credi di essere migliore di lui?”

L’assassino incatenato accennò un sorriso sardonico

“Perfino un cane sarebbe meglio di lui.”

Cara lasciò cadere le sue parole senza degnarle di una risposta, come se fosse troppo impegnata a pensare ad altro per affrontare una simile conversazione.

“Sarebbe lui?”

Incalzò Joseph

“…Il tizio che ti ha tradita, quello per cui avevi perso la voglia di vivere.”

Stavolta lei sollevò gli occhi, colpita dall’incredibile attenzione che lui sembrava aver prestato ad ogni sua parola.

“Non sprecherei mai le mie lacrime per un uomo.”

“Quindi era una bugia… Ogni tua parola lo era.”

Era un’ovvietà, ma Joseph dovette sforzarsi per non suonare disperatamente deluso nell’ammetterlo ad alta voce. Cara gli rivolse uno sguardo più attento, ricercando nel suo aspetto una conferma della vulnerabilità traspirata dalle sue parole. Se ne stava lì, forzatamente fermo ma rilassato, le mani ciondolanti e le gambe allungate, senza ombra di timore in viso.

“In realtà non ti ho mai mentito…”

Lui sollevò il mento. Mai come in quella situazione aveva dubitato della sua capacità di leggere le persone.

“…Cara è il mio nome… E negli ultimi quattro anni ho davvero vissuto un’insulsa vita da cameriera aspettando questo momento, fidanzato traditore incluso…”

Si prese un attimo di pausa, accogliendo alla mente un’immagine di Ty e dei suoi hotdog affogati nella senape

“…Ovviamente sapevo già che si sbatteva un’altra, ma non posso lamentarmi troppo… Dopotutto non sono mai stata una fidanzata appassionata.”

Joseph trattenne tra le labbra un commento sarcastico. Lui riusciva a vedere passione in ogni sua mossa.

“Dimmi come hai fatto.”

La richiesta dell’assassino attirò gli occhi di Cara su di sé, lucidi e brillanti come veri lapislazzuli.

“Fatto cosa?”

“Come sapevi che mi sarei trovato su quell’aereo? Come sapevi cosa fare?”

Lei inspirò. Non è bene aprirsi con le proprie vittime, è vero, la si potrebbe anzi definire una vera mossa da dilettanti eppure, guardando Joseph seduto a terra, sporco di sangue e polvere, quasi crocifisso al muro e coi polsi stretti nel ferro, Cara sentì che le parole le danzavano dentro impazienti di uscire. Averlo lì, dove nessun altro poteva vedere o sentire, proprio come nel minuscolo bagno dell’aereo, risvegliava in lei la voglia di non essere null’altro che il ciclone di emozioni che si portava dentro. Sorrise d’orgoglio, ma di un orgoglio amaro

“Tutta la mia vita negli ultimi nove anni, tutto ciò che ho fatto, detto o anche solo pensato, tutto è stato per arrivare fino a qui, ad un solo passo da William Michaelson.”

“E’ per questo che Mancini ti ha assoldata?”

Cara scosse la testa

“Lui non mi ha assoldata, mi ha salvata.”

Joseph sollevò un sopracciglio perplesso, nella varietà del lessico umano di certo non avrebbe mai definito Robert Mancini un salvatore.

“…Negli ultimi nove anni, mentre mi addestravo e vivevo la mia finta esistenza, ho studiato ogni più piccolo aspetto della tua famiglia, seguito le vostre mosse, cercato i vostri punti deboli… Aspettato pazientemente che arrivasse il momento giusto…”

“Johannesburg.”

Dedusse lui.

“…Non riuscivo a credere che ti fossi fatto fregare dalla polizia, tanto meno che Vladimijr Pushkin fosse riuscito a farmi un simile favore. Il Lupo servito su un piatto d’argento e dietro di lui, inevitabilmente, un fratello dopo l’altro.”

“Non ha senso…”

L’assassino scosse la testa

“…Come potevi sapere che ti avrei salvata?”

Qualcosa si accese nelle iridi della ragazza

“Non lo sapevo. Non sapevo nemmeno che ti avrebbero reimbarcato per New York mezz’ora dopo il mio arrivo a Johannesburg. Se l’avessi saputo mi sarei di certo risparmiata uno scomodo viaggio…”

Prese fiato

“…Nessuno aveva previsto che Elia buttasse giù un intero aereo per te. Tutto quello che dovevo fare era attirare la tua attenzione. Starti dietro. Una volta a terra gli altri merli avrebbero fatto il resto.”

“E come sapevi che avrebbe funzionato?”

Si mosse lentamente raggiungendolo di nuovo. Gli si inginocchiò di fronte

“Perché conosco tutto di te, perfino le tue fantasie più nascoste. E so che tutte o quasi prevedono un piccolo angelo biondo desideroso di sporcarsi le ali...”

Con quegli occhi blu gettati nei suoi, Joseph non trattenne un brivido. Molto probabilmente quella donna sconosciuta avrebbe potuto cavargli l’anima e srotolargliela davanti come un libretto d’istruzioni.

“…Quello che non potevo immaginare è che ti sarei piaciuta tanto da salvarmi.”

Joseph abbassò lo sguardo, sbuffando nel tentativo di sminuire e deridere quella sua assurda convinzione. Riusciva a sentir chiara la vergogna della sua stupidità, ma non le avrebbe di certo concesso un balletto di esultanza.

“Il modo in cui mi hai guardata in quel bagno, come se fossi la creatura più fragile ed innocente del pianeta, come se mi desiderassi più di ogni altra cosa al mondo…”

Cara sentì il cuore battere più veloce

“…Mi hai fatto desiderare di esserlo davvero.”

Eccola. Chiara e terribilmente fastidiosa. La vera ragione per cui si trovava lì.

L’assassino sollevò il viso e se la trovò vicina, di nuovo a pochi centimetri di distanza, candida e delicata come la prima che l’aveva vista, con i suoi grandi occhi color oceano sgranati e luccicanti. La sicurezza di pochi minuti prima svanita nel nulla, il desiderio di vendetta offuscato dalla semplicità della vicinanza.

Cara lasciò scorrere i polpastrelli sul taglio ancora aperto sopra il suo zigomo, delicatamente, quasi non volesse provocargli alcun dolore. Joseph trattenne il respiro stringendo le redini della sua psiche. Lo stava fregando ancora, giocando con la sua mente come un’abile illusionista. La ragazza che aveva davanti non esisteva davvero, la sua ragazzina dell’aereo non era reale, anche se in quel momento sembrava tornata, nulla di lei era reale, nulla. Doveva convincersene una volta per tutte, prima che la voglia di riaverla riuscisse a sgattaiolare fuori dalle barriere della sua ragione.

Quella donna era un mostro. Doveva essere un mostro. Una specie di mutaforma in grado di trasformarsi all’occorrenza, ora una spietata assassina, ora un’innocente ragazzina.

Cara si portò le dita alle labbra, senza nemmeno rendersene conto, assaggiando per la prima volta il gusto di un assassino. L’aveva sempre immaginato amaro, avvelenato dalla rabbia e dalla morte, e invece no… Sulla sua lingua Joseph fu dolce come zucchero filato e salato come il mare.

Lui si irrigidì, spiazzato da quel gesto totalmente inaspettato. Non poteva farci nulla. Nonostante fosse il nemico, nonostante desiderasse ora più che mai spezzarle il collo,  se lei lì, in quel preciso momento, l’avesse toccato ancora una volta, non avrebbe potuto dirsi certo di saper controllare il proprio corpo.

Trattenne a stento la voglia di roteare gli occhi al cielo. Vendetta o meno, quella donna sarebbe stata la sua fine.

La cosa più sicura da fare era cambiare argomento. Immediatamente.

“Che cosa ti ha fatto mio padre?”

Ogni ombra di seduzione le sparì dal viso nell’arco di un secondo. Cara si ritirò nel guscio come una lumaca quando gli si toccano le antenne. Allontanandosi da Joseph il più possibile inspirò a pieni polmoni.

Sapeva come rispondere, ma quel macigno non sembrava proprio voler venir fuori.

 “Ha ucciso la mia famiglia.”

Rispose infine senza guardarlo. Le parole uscirono come lame, come se per la prima volta stesse verbalizzando il suo dolore, come se fino a quel momento le avesse tenute dentro, respinte, rimosse, stipate nel subconscio per non sentirne il peso insopportabile.

Joseph aggrottò le sopracciglia, non aveva idea di cosa c’entrasse la famiglia di Cara Phillis con la sua, ma l’ombra apparsa di colpo sul viso di lei non lasciava adito a dubbi. In qualche modo William era responsabile della morte di queste persone e la ragazza viveva solo per un unico scopo, ripagare la morte con la morte. Vendetta, il più antico dei moventi dopo la gelosia.

“Io ucciderò la sua…”

Aggiunse fissando il nulla, pregustando il sapore dell’espiazione e lasciandosi colare in una specie di realtà parallela.

“…E poi ucciderò anche lui.”

“Il rapporto della polizia dice che i tuoi sono morti in un incidente.”

Cara sorrise a labbra strette

“E’ quello che volevo credessi, ma non è andata così…”

Inevitabilmente i ricordi presero a scorrerle davanti agli occhi

“…I tirapiedi di tuo padre hanno ucciso i miei genitori a sangue freddo, senza pensarci due volte.”

Strinse i pugni e finalmente gli rivolse lo sguardo

“Vuoi sapere qual è il ricordo che ho più nitido di quella sera?”

Joseph non osò rispondere.

Non si sfugge da Michaelson…”

Ripeté cercando di trattenere il disgusto ed imitare lo stesso tono solenne

“…Così hanno detto. Le ultime parole che mio padre ha sentito prima di morire.”

Lui rimase in silenzio, bloccato dall’autenticità di quei pezzi di memoria che lei gli stava offrendo e che lui non riusciva a collegare. Per amor della sua stessa sopravvivenza avrebbe dovuto indagare, cercare di capire, individuare il punto debole della sua motivazione eppure, consapevole di essere nulla più di un assassino, non avrebbe mai potuto mancare di rispetto alla morte. Anche lui aveva perso sua madre qualche anno prima, l’unico genitore biologico che avesse ed unica persona al mondo che mai lo avesse amato.

Era stata una stupida emorragia celebrale a portarla via e Joseph non aveva potuto far altro che accettarlo. Il caso, il destino o Dio, se così lo si vuol chiamare, non sono certo nemici che puoi rincorrere e massacrare. Nessuna vendetta per lui.

Guardando il vuoto negli occhi di Cara in quel momento qualcosa gli si mosse dentro. Se l’assassino di sua madre avesse avuto un nome ed un volto, anche lui avrebbe spaccato le montagne pur di aver giustizia.

Cosa avrebbe potuto mai dire o fare che potesse farle cambiare idea? E perché poi? William meritava di morire, per mano di Cara e di almeno un milione di altre persone.

“Perché vuoi uccidere anche noi?”

Lei sospirò, come se fosse ovvio

“Morire e basta sarebbe troppo semplice. Voglio che prima sappia cosa vuol dire restare soli al mondo.”

 

--------

 

Elia spinse la porta dello Sweet Lorraine seguito da due dei suoi uomini più fidati, troppo nervoso e preoccupato per notare le guardie di Pushkin che lo seguivano ormai da ore.

Il suo olfatto allenato non mancò di cogliere immediatamente l’odore di sangue stagnante che riempiva la sala. Ogni nervo nel suo corpo si tese, ormai era certo che qualcosa fosse andato storto ed il cadavere scomposto di Xavier, imbrattato delle sue stesse cervella, ne fu la conferma.

Salì le scale due gradini alla volta, la pistola stretta nella mano destra.

Dentro l’appartamento di Joseph la puzza di morte divenne quasi insopportabile. Un altro cadavere. Lo raggiunse di fretta, sollevato alla scoperta che non si trattava di uno dei suoi fratelli. Quella faccia sconosciuta portava chiari i lineamenti del suo tormento. Russi.

Notando i segni netti di un’arma da taglio se ne sentì sollevato. Doveva essere opera di Joseph, il che poteva solo dire che suo fratello si era difeso. Tirò fuori il telefono dalla tasca della giacca e compose nuovamente lo stesso numero. Nessun segnale all’altro capo. Idem per il cellulare di Nathaniel.

Senza trattenere l’esasperazione, si rivolse ai suoi compagni

“Controllate il palazzo.”

Loro si mossero e lui rimase lì, fermo ed inerme, totalmente perso nelle supposizioni. Dove diavolo erano finiti? Era così assorto nei propri pensieri che solamente dopo un secondo si rese conto di non essere solo. La presenza era palpabile, vicina, respirava la sua stessa aria in maniera quasi impercettibile.

Strinse l’impugnatura dell’arma e si voltò di scatto, più che pronto a fare fuoco.

Lei.

Il mondo di Elia smise di girare. Il freddo, crudele, intoccabile William Michaelson IV  riuscì chiaramente a sentire il crack del suo cuore di ghiaccio sotto la camicia di cotone italiano.

Lei era lì.

In carne ed ossa davanti ai suoi occhi.

“Sei anche più bello di quanto ricordassi.”

Il dolce suono della sua voce gli piombò addosso come un treno in corsa. Due anni, due interi anni di nottate in bianco, tutte spese a chiedersi dove fosse finita ed eccola lì, comparsa dal nulla come un fantasma, come se non se ne fosse mai andata davvero. I lunghi capelli, scuri e mossi, le incorniciavano il viso, la pelle chiarissima sempre perfetta ed i suoi grandi occhi marroni che sembravano volerne saltar fuori, contornati dal pesante trucco nero.

Katrina.

Sua moglie.

“..Tu?”

Lei sorrise, riempiendo la stanza di luce e togliendo ad Elia ogni forza rimasta. In quel momento non era più uno spietato assassino, tantomeno un soldato addestrato alla peggior guerra. Era solo creta, morbida creta nelle mani di una donna.

Gli fu chiaro più che mai. E’ proprio questo che intendono dire quando descrivono l’amore come la peggiore delle debolezze. 

Katrina, stretta in un paio di aderentissimi pantaloni neri, si mosse a passi lenti verso di lui, costringendolo ad abbassare pistola e difese senza che nemmeno se ne accorgesse.

“E’ davvero passato troppo tempo.”

Aggiunse, lasciandogli notare di non aver mai perso il marcato accento sovietico. Lui non mosse un muscolo, tramutato in pietra dal tocco delle sue dita sottili sul collo della giacca. Poteva sentirla. Era reale.

Lei era reale.

“Dov’eri?”

Katrina sollevò le iridi scure, accarezzando quel viso che credeva d’aver dimenticato.

“Perdonami Elia.”

Sussurrò. Lui chiuse gli occhi per un solo istante.

“Per cosa?”

Anche l’altra mano di Katrina si posò sul suo petto, leggera e morbida contro il lino del vestito

“Per tutto quanto…”

I loro corpi si sfiorarono. Il suo profumo gli riempì le narici. Tuberosa. Lo stesso di sempre.

“…Ma soprattutto…”

Per l’ombra di un secondo sentì il suo respiro sulle labbra

…Per questo.”

Concluse stringendo la presa attorno al bavero della giacca e facendo forza. Il ginocchio destro di Katrina gli si piantò dritto tra le gambe, togliendogli di colpo la vista. Tramortito dal dolore non si accorse nemmeno della sua maestria nel togliergli di mano la pistola.

Un rapido cenno verso la porta ed altri tre, forse più, gli furono addosso. Elia sentì lo scatto consecutivo di almeno tre semiautomatiche. Sollevò piano lo sguardo. Lei era ancora lì.

“Che stai facendo?”

Teneva la sua pistola tra le dita, ma senza puntargliela contro.

“Ti spiegherò tutto Elia…”

Gli girò intorno a debita distanza

“…Ma prima dovrai venire con me.”

Elia seguì i suoi movimenti, registrando con la coda dell’occhio ogni minimo particolare. Quattro uomini armati, di certo non russi. Vicini, ma pur sempre troppo lontani. Nonostante avesse con sé un’arma di riserva sarebbe stato impossibile raggiungerne anche solo uno senza lasciare agli altri il tempo di sparare.

Ma gli avrebbero sparato sul serio? Katrina avrebbe davvero lasciato che gli sparassero?

“Dove?”

Domandò dopo l’attenta valutazione di ogni via di fuga.

“Dove i tuoi preziosi fratelli aspettano.”

Spalancò gli occhi. Se c’era Pushkin dietro quest’attacco e quello di Johannesburg, e se c’era anche Katrina in mezzo, avrebbe solo potuto dire che sua moglie era tornata al padre già da un pezzo. Perché continuare quella faida allora? Perché Pushkin era in città? Perché sembrava non voler dar loro pace?

C’era un solo modo per scoprirlo. Seguirla.

 

-----------

 

Il russo vestito di nero, appollaiato sul tetto come una poiana annoiata, strinse gli artigli attorno al binocolo al primo cenno di movimento. Più figure di quante ne fossero entrate stavano uscendo dal palazzo.

Ruotando l’obiettivo mise a fuoco la silhouette di Elia Michaelson. Non c’era dubbio che fosse lui. La donna che gli sfilava accanto d’altra parte… Consumò il tasto dello zoom cercando di arrivarle il più vicino possibile.

Quei capelli e quel viso, stampati nella sua memoria.

Katrina Pushkina, la figlia perduta del suo signore, camminava a passi svelti nel centro di New Orleans accanto al suo indegno marito.

Che fosse tornata? Che i Michaelson la stessero tenendo nascosta?

Spinse immediatamente il tasto della trasmittente

“Signore?”

All’altro capo il famigerato Vladimijr Pushkin

“Sono tutti morti?”

“Non ancora signore.”

“Allora perché sprechi il mio tempo Dmijtri?”

“Katrina signore.”

L’improvviso silenzio dall’altro lato fu il segno del suo completo interesse

“Perché osi nominare mia figlia?”

L’altro mandò giù calibrando le parole. Due sillabe di troppo ed avrebbe pagato lui le conseguenze di quella scoperta.

“E’ viva. Ed è qui signore, a New Orleans. Con Elia Michaelson.”

Non poteva vederlo, ma riuscì perfettamente ad immaginare la collera che riempiva ogni cellula del suo corpo. Il solo sentir nominare Elia aveva annullato ogni gioia nel saper viva la sua unica erede.

“Seguiteli. Dovunque vadano.”

Quella non era questione per i suoi scagnozzi. Una tal rivelazione meritava il suo intervento in carne, ossa ed esercito completo.

“Dmijtri?”

“Sì signore?”

“Perdili di vista e pagherai con la tua testa.”

 

 

 

 

 

  
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