As deep as the ocean.
Faceva freddo,
lì, ma ormai lei e la sua gente ci
avevano fatto l’abitudine. Nonostante gli inverni fossero
rigidi e spesso
difficili, si arrangiavano come potevano, con alghe e piccoli molluschi
che,
nonostante tutto, resistevano alle basse temperature. Era dura la vita
lì, dove
il gelo la faceva da padrone e il sole non si vedeva quasi mai, nemmeno
in
quelle rare giornate in cui faceva capolino all’orizzonte,
per via dello spesso
strato di ghiaccio che ricopriva la superficie del mare.
In fondo, a lei piaceva quella sensazione pungente
che l’acqua fredda sulla pelle provocava, forse per il
semplice fatto che quella
era l’unica sensazione che le era consentito provare. Lei e
la sua gente
vivevano in quel tratto di mare da secoli, a quanto sapeva, e non aveva
mai
vissuto altre realtà oltre quella. C’era chi aveva
viaggiato, e raccontava di
mondi lontani e sconosciuti: dicevano di aver nuotato in acque tiepide
e
limpide, ricche di alghe e coralli dai toni sgargianti e accesi;
parlavano di
pesci, interi banchi di pesci variopinti, dalle forme più
diverse e disparate.
Affermavano di aver visto gli umani. Era curiosa, lei: avrebbe tanto
voluto
vederli, sapere com’erano fatti. Aveva sentito tante leggende
su di loro, e
desiderava con tutta se stessa avvistarne uno. Invidiava chi, tra i
suoi
compagni più anziani, poteva vantarsi di essere entrato in
contatto con uno di questi
esseri così misteriosi e lontani. Alcuni li credevano solo
una leggenda, ma Rin
ne era certa, loro esistevano. E non vedeva l’ora di
incontrarne uno.
Osservò la sua coda, squamosa e lucente. Sirene.
Così li chiamavano gli umani, o
almeno così le avevano detto gli anziani. Era un nome
strano, pensò. Si-re-ne.
Lei era una sirena. Era
strano, ma le piaceva. E le veniva da sorridere sapendo che gli umani
avevano
dato un nome a lei e alla sua gente.
Una foca, che nuotava placida, la superò, facendole
un muto cenno di seguirla. Iniziarono a scivolare nell’acqua,
lasciandosi
trasportare dalle correnti. L’animale la precedette,
facendole strada attraverso
le correnti. Proseguirono per un po’, accompagnate solo dallo
sciaguattare
sordo del mare. La foca arrestò la sua corsa, indicando con
il muso un punto
non troppo lontano: lì il ghiaccio sembrava più
scuro, e proiettava un’ombra
strana ed insolita.
Rin si avvicinò, cauta, quasi avesse paura di
quell’oscurità; provò a toccare la
lastra, per capire se non fosse lo stesso
ghiaccio di sempre - perché, avrebbe potuto giurarci, non
aveva mai visto
quell’ombra prima di allora. E quando la misteriosa chiazza
nera si mosse, Rin
scattò in profondità, impaurita. Sentiva il cuore
battere all’impazzata:
avvicinò le mani al petto e le premette
all’altezza dei polmoni, come a voler
calmare quello scalpitare frenetico. Notò che
l’ombra si stava allontanando e,
raccolto il coraggio a due mani, la seguì senza alcuna
esitazione. Più che
altro, era la curiosità a farle muovere la coda, a farla
procedere: voleva
assolutamente capire cosa fosse e come fosse arrivato lì.
La foca la precedette ancora, invitandola a starle
dietro. La ragazza ubbidì silenziosamente, e
l’animale la condusse in un punto
in cui il ghiaccio era molto meno spesso e, quindi, più
fragile. Lo infranse
con qualche colpo, senza alcuna difficoltà. Fece leva con le
braccia, sporgendosi
per la prima volta oltre la superficie dell’acqua. Fuori
l’aria era gelida, ma
non come l’acqua. Più pungente, quasi dolorosa.
Era forse quello che gli umani
chiamavano vento?
Oltre quello spesso strato di ghiaccio che l’aveva
sempre sovrastata c’era solo altro ghiaccio. Tutto era
incredibilmente bianco,
tanto da risultare quasi abbagliante; anche là fuori non
sembravano esservi
forme di vita, escluse alcune foche e altri strani esseri che Rin non
aveva mai
visto.
Sentì un rumore assordante provenire da lontano, un
suono che mai aveva udito: era fastidioso, tanto che dovette portare le
mani
alle orecchie per attenuarlo. Ad appena qualche dozzina di metri da lei
c’era
uno strano animale, metallico, con lunghe lame lucenti e argentee al
posto
delle zampe: era lui ad emettere quel verso spaventoso, si rese conto,
quell’insopportabile
stridere.
Non riusciva a capire come, ma dalla pancia di
quello strano animale ne uscirono altri. Erano diversi,
però: sembravano simili
a lei, nel viso e nel busto; ma nessuno di loro aveva la coda, come
lei.
Somigliavano alle sue braccia, quei due arti strani come non ne aveva
mai visti.
Ne avevano parlato, gli anziani: le avevano chiamate gambe.
Dunque erano loro, gli umani? Rin si sentì
avvampare, e cercò conforto nell’acqua fredda,
immergendosi fino a lasciare
all’asciutto solo gli occhi.
Osservò con attenzione quei tre richiudere la
pancia dell’animale metallico e incamminarsi nella direzione
parallela alla
sua. Li seguì con lo sguardo, emozionata e stupita. Erano
creature così
affascinanti, come li aveva sempre immaginati: li vedeva scherzare e
parlare
tra loro, senza minimamente fare caso a lei. Proseguirono insieme per
un
tratto, prima che uno di loro si separasse e tornasse verso
l’animale
meccanico. Rientrò nella sua pancia e l’animale si
mosse, provocando un rumore
assordante; Rin si immerse di nuovo, per inseguirlo a nuoto mentre si
allontanava. Non le era difficile rincorrere quell’ombra
nitida sulla lastra di
ghiaccio: con le mani sfiorava la superficie fredda, per nuotare
più veloce -
non aveva alcuna intenzione di perderlo di vista.
Si fermò ancora, e scese di nuovo: Rin lo osservò
attraverso il ghiaccio, che lasciava intravedere piuttosto nitidamente
la sua
immagine. Era un ragazzo molto giovane, con i capelli biondo oro
raccolti in
una piccola coda e gli occhi blu, profondi come quel mare in cui lei
nuotava:
Rin pensò che fosse bellissimo.
Non riusciva a capire, però, cosa fosse quello
strano scompiglio che sentiva nello stomaco, quel calore che le aveva
invaso le
guance. Lo osservò ancora, e si chiese se quel sentimento
potesse essere l’amore,
quello di cui si parlava nei miti
e nelle favole degli anziani.
Alle sue orecchie giunse un suono, sconosciuto e
bellissimo: sembrava musica, una misteriosa canzone come non ne aveva
mai
sentite. Le ci volle un po’ per capire che non era altri che
il dolce umano ad
emettere quel suono: stava parlando. Lei non riusciva a capire cosa lui
dicesse, ma non le importava; quell’armonia, incredibile e
soave, la avvolgeva.
Assaporava quella voce, ad occhi chiusi; poi li riapriva, osservava
quel volto,
quegli occhi e quel suo luminoso sorriso.
La sua espressione, però, era mutata: sembrava
confuso, ora, e sorpreso. Si chinò, sfiorando il ghiaccio
con le dita. Forse...
forse l’aveva notata? Iniziò a picchiare contro la
lastra, colpendola con
entrambi i pugni, finché non fece male. Ma lui si era
limitato a raccogliere un
po’ di brina, e ora l’analizzava curioso.
Lo osservava, battendo a palmi aperti contro la
superficie trasparente e gelida, sperando che i loro sguardi
s’incontrassero.
Lui era così vicino, eppure... perché non
riusciva a vederla?
Rin avvertì una strana sensazione, che mai aveva
provato prima: la vista le si offuscò, e la giovane
iniziò a singhiozzare. Le
guance erano accaldate, così come le mani per via del
continuo picchiare. Lui
sembrava comunque non udirla, ma lei continuava a colpire con i piccoli
pugni
la lastra immensa, con la remota speranza di farsi notare o di anche
solo
scheggiare la gelida superficie. La foca che l’aveva
accompagnata la osservava,
confusa e stupita del comportamento della giovane. Se ne
andò, lasciando da
sola la piccola sirena, che nemmeno la vide allontanarsi.
Dette un altro paio di colpi, ma, stanca, si lasciò
andare, facendo scivolare le braccia lungo i fianchi. Sentiva freddo,
un gelo
terribile che non era dovuto all’acqua pressoché
congelata, né tantomeno alle
correnti provenienti da est. Non se ne andò,
però: rimase lì, a guardare quel
ragazzo - chissà qual era il suo
nome? -
lavorare e analizzare, completamente
affascinata. Lui sorrideva, fiero del suo operare e proseguì
nelle sue ricerche
fino al calar del sole, sempre basso all’orizzonte. Ripose
tutti i suoi
attrezzi e, una volta riposti nella pancia dello strano animale
meccanico, vi s’infilò
anche lui; l’animale riprese vita, i suoi occhi si accesero
di una strana luce
e quindi si allontanò, portando via quel giovane dai capelli
biondi e gli occhi
azzurri e profondi come il mare.
Rin, dal canto suo, non si mosse: rimase lì, dove
lui l’aveva lasciata, sfregandosi le braccia nude per
combattere il freddo. Lo
aspettò lì per tutta la notte e, non appena il
sole fece timidamente capolino
da dietro le montagne di ghiaccio, sentì quel fastidioso
rumore, quello
stridere dell’animale metallico che si avvicinava sempre di
più. Ed eccolo fermarsi
nello stesso punto del giorno precedente, e lasciar uscire il giovane
ricercatore; e tutto si svolse come il giorno prima: lui che, attento,
osservava il ghiaccio e la neve, prendendo appunti su un quadernetto.
Sorrideva
ogni volta che riusciva a scorgere qualcosa - chissà poi
cosa poteva vederci,
in una manciata di quella poltiglia bianca e fredda.
Lei lo osservava lavorare, senza muoversi, senza
dire una parola. E quando lui se ne andava, lei lo aspettava. Rimase
lì per
giorni, solo per guardare quegli occhi blu illuminarsi ogni volta che
vedevano
qualcosa di nuovo, che fosse aspettato o meno, per vedere quel sorriso
luminoso
nascere su quel volto talvolta arrossato dal freddo.
Quello era, dunque, un giorno come gli altri: lui
lavorava, e lei lo guardava lavorare senza battere ciglio; ormai si
sentiva
come una statua di ghiaccio, inerme e gelida. Al tramonto, come al
solito, il
ragazzo raccolse le sue cose e le poggiò sul dorso
dell’animale metallico;
prima di salire come aveva sempre fatto, però, si
guardò indietro, proprio nel
punto in cui Rin si trovava. Poi sorrise e salì ancora nella
pancia dell’animale,
allontanandosi verso ovest.
Lei lo aspettò, come aveva sempre fatto; ma il
mattino dopo non si sentì il rumore dell’animale
avvicinarsi e il giovane
esploratore non si ripresentò. Eppure lei non si mosse,
aspettandolo ancora e
ancora, sopportando il freddo e la solitudine. La sua gente non ha
più saputo
niente di lei, e ormai la credono persa per sempre, magari catturata da
qualche
umano.
«Ehi,
amico! Sicuro che vada tutto bene?»
Len si
massaggiò la costola che l’amico aveva
appena colpito con una gomitata. Si limitò ad un apatico
“sì”, che di convinto
aveva ben poco.
Kaito lo
osservò, sospettoso: forse era solo stanco
per quella lunga spedizione tra i ghiacci dell’Antartide,
forse non aveva
trovato tutto ciò che aveva sperato.
L’aereo
sembrava procedere al rallentatore - ormai
erano ore che erano seduti su quei seggiolini di prima classe, eppure
Len non
riusciva a rilassarsi.
«Sai,
ho visto una cosa, laggiù...»,
confessò, come
se avesse letto nella mente dell’amico. «So che
sembra una follia, ma...»
«...
Ma?»
«Credo...
credo di aver visto una sirena.»
«U-una sirena?!
»,
esclamò l’altro, piuttosto sorpreso.
«Oddio, spero tu stia scherzando!»
«Già,
forse... forse l’ho solo immaginata.»
Len
lasciò che il suo sguardo si perdesse oltre il
vetro dell’oblò: forse Kaito aveva ragione, forse
era solo frutto della sua
immaginazione. Eppure... quei capelli biondi che sfioravano
delicatamente le
spalle esili, quei suoi occhi azzurri, la sua coda azzurra e vaporosa,
che si
confondeva con il mare. Lui l’aveva vista lì,
sotto lo strato di ghiaccio, che
lo osservava; ed ora tornato lì, ogni giorno, per rivederla
ancora e ancora.
Ogni sera tornava alla base a bordo della slitta, sicuro che fosse
tutto un
miraggio, un’illusione; ma lei era lì, ogni
giorno, ad aspettarlo per
osservarlo lavorare. E lui, be’... se n’era
innamorato, come uno stupido. Si era innamorato
di una sirena.
«Attenzione:
siamo in arrivo all’aeroporto di Tokyo! Grazie per aver
volato con noi!»,
annunciò una voce metallica e fastidiosa.
«Sai,
Len? Dovremmo tornarci al Polo Sud, prima o
poi», propose Kaito, indossando la giacca e preparandosi
all’atterraggio. «Ci
sono così tante cose che vorrei ancora scoprire,
laggiù!»
«Già.
Dovremmo proprio.»