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Autore: Kokato    26/12/2007    4 recensioni
*Fic su HANAKIMI. Ispirata al capitolo speciale del volume 14*
Lo diceva anche una disciplina zen, non ricordava esattamente quale.
Hokuto Umeda non ricordava mai niente di tutto ciò che non riusciva a sopportare.
Ma l’aveva comunque sentito, da qualche parte, un replicare senza diritti d’autore della sua ferrea logica di vita.
Se sei davanti ad un problema apparentemente senza soluzione fermati, e respira. E non cercare la soluzione fuori.
Perché quello che cerchi è già dentro di te.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hokuto Umeda odiava perdere di vista le sue prerogative

Hokuto Umeda odiava perdere di vista le sue prerogative.

Odiava agitarsi da un momento all’altro soltanto perché non sapeva come affrontare una data situazione.

Amava avere tutto in mano, così agguantato, fermo e sicuro in suo possesso senza bisogno di cercare o allungare le braccia per afferrarlo. Ed amava se stesso, di conseguenza a tutto questo, perché il suo raziocinio era abbastanza ferreo da rimanere sempre congelato, fisso nelle sue parti e nei suoi comparti stagni, gravido dei concetti in base a cui riusciva ad andare avanti nella vita senza incertezze e avendo sempre la soluzione di ogni problema e ogni questione già in se stesso.

Ma guarda un po’.

Lo diceva anche una disciplina zen, non ricordava esattamente quale.

Hokuto Umeda non ricordava mai niente di tutto ciò che non riusciva a sopportare.

Ma l’aveva comunque sentito, da qualche parte, un replicare senza diritti d’autore della sua ferrea logica di vita.

Se sei davanti ad un problema apparentemente senza soluzione fermati, e respira.

E non cercare la soluzione fuori. Perché quello che cerchi è già dentro di te.

Merda.

Dare ragione a degli psicopatici malati di yoga capaci soltanto di toccarsi il sedere con la punta del piede –facendo passare la gamba da sopra la spalla- era terribilmente fuori dalla sua logica, ma era costretto a farlo. Perlomeno per mantenerla tale.

Merda. Quel dannato Kayashima* lo stava influenzando in tutti i modi, tranne che positivi.

Ad ogni modo, anche Hokuto Umeda aveva i suoi momenti di empasse mentale.

In cui la sua logica non diventava altro che un grande, inutile, alquanto molliccio agglomerato di cadaveri di neuroni e cervella shakerati, che ondeggiava nella scatola cranica. Da lobo occipitale a lobo frontale… da lobo occipitale a lobo frontale. Poco utilizzabile al fine del concepimento di un idea sensata o benché meno logica o razionale.

Un immagine schifosa, ma decisamente calzante al fenomeno.

Ed ebbene, Hokuto Umeda, sapeva che quello era uno di quei momenti.

Pestò i piedi a terra, perché tanti erano davvero i ciottoli ovali che aveva calpestato sulla via, di sbieco, maldestramente.

Tante erano le scariche di dolore lungo la caviglia come piante rampicanti lungo una colonna di marmo e tanti gli improperi che gli avrebbe lanciato addosso una volta che se lo sarebbe ritrovato tra le grinfie.

Mais oui madame.

Lasciò passare senza danni rilevanti qualche studente in toga, graziandoli dalle sue impetuose richieste d’informazioni –hai mica visto un ragazzo con lo sguardo da bastardo, maniaco, sadico manipolatore da qualche cazzo di parte?- che sembravano piuttosto propensi a tuffarsi a capofitto nella prima aiuola che si trovavano a portata di mano pur di non avere a che fare con lui, allontanò una cicca di sigaretta con un breve, nervoso scatto del tallone. E continuava a mettere in conto.

Oh, se continuava a mettere in conto. Meticolosamente nel suo cervello tanto, ma tanto dotato.

Non li avrebbe neanche potuti contare con tutte le dita delle mani e dei piedi i debiti che avrebbe avuto da pagare.

Giganteschi, enormi debiti.

Piantò i piedi a terra, per la prima volta in non sapeva neanche più lui quante ore, riordinò le idee in quella testa che era stato a sbatacchiare troppo da una parte all’altra della scuola perché potesse ancora essere concepita nei normali comparti stagni che compongono un perlomeno usuale cervello umano.

Solo un grande, inutile, alquanto molliccio agglomerato di cadaveri di neuroni e cervella shakerati, che ondeggiava nella scatola cranica. Da lobo occipitale a lobo frontale… da lobo occipitale a lobo frontale. Poco utilizzabile al fine del concepimento di un idea sensata o benché meno logica o razionale.

Così poco utilizzabile che si stupì di riuscire a percepirlo.

Di riuscire a percepire un qualunque cosa, in realtà.

Accarezzare le narici, annidarsi, espandersi nella testa.

E per un attimo ricordò in che facile, stupido modo il suo genio riuscisse ad andarsene a puttane… per così poco.

Per quanto lui potesse essere annoverato nella categoria del “poco”. Ed il che, di successivo acchito, gli risultava assurdo soltanto nella già breve associazione delle due parole. Soltanto un peso in più per la sua testa in subbuglio, soltanto falso.

-Se sei davanti ad un problema apparentemente senza soluzione fermati, e respira..-

Posava le labbra sulla ruvida carta arrotolata, catturava i cerchi grigiastri appena attorno alla base, li rilasciava in un soffio aggraziato.

Si permise di sfuggire la vista di una nuvola di fumo particolarmente raffinata, per rivolgergli un sorriso obliquo da aspettativa delusa.

-…E non cercare la soluzione fuori. Perché quello che cerchi è già dentro di te-

Dannato bastardo, maniaco, sadico manipolatore.

-Quelle sigarette sono mie, brutto demente-

Ryoichi Kijima lo guardava, accucciato con le gambe compresse al busto, contro il muro dello spogliatoio di un club sportivo indefinito –come se gli interessasse davvero saperlo-, da sotto un ciuffo di capelli neri direttamente puntato all’aperto cielo di primavera. Unico al mondo a riuscire a far passare una pettinatura assolutamente ridicola e simil buffa per un taglio originale ed anticonformista, nonché dannatamente artistico. O almeno, così aveva l’ardire di sostenere.

-Ma dai.. scherzi?- chiese ridendo, ruffiano, analizzando l’oggetto incriminato con occhio critico.

E non trovando proprio niente, assolutamente nulla di anormale in quel che stava facendo. Nemmeno nell’ignorare il viso dall’espressione furiosa che Hoku chan gli rivolgeva da ormai poco meno di qualche centimetro di distanza, piegando il busto verso di lui ma rimanendo in piedi.

Senza scendere al suo livello. Senza lasciarsi coinvolgere da niente se non dalla sua furia potenzialmente distruttiva.

-Quel che è mio non è necessariamente tuo. Anche se tu probabilmente lo pensi-

Esalò, stringendo le mani sui fianchi sottili in una posizione di stizza plateale.

L’altro aspirò altro fumo facendo altro casino. Quasi lo sentì, il rumore delle nuvolette che appestavano i polmoni.

-Dovrò assolutamente pensare ad un modo per rimediare.. allora-

Cercò di essere il più veloce possibile, anche se sapeva che nessuno almeno dei presenti sarebbe stato contrario al partito preso.

Aveva afferrato le ciocche rossastre che facevano curva sinuosa sulla nuca, le aveva strette saldamente tra indice e pollice sentendo la leggera frizione di una presa davvero salda, e aveva tirato uno strattone. Così secco che era in dubbio che l’effetto di quel gesto sarebbe stato davvero quello desiderato.

Ignorò la sensazione di qualche capello che gli vezzeggiava il palmo della mano mentre si lasciava andare al vento punteggiando di rosso l’orizzonte –la cravatta, da buono appiglio quale era, era naturalmente coperta dalla toga-, ed affondò le labbra in quelle che aveva davanti –bellissime, irresistibili- con tutto lo slancio che aveva.

Addentò, afferrò, agganciò tutto quello che poteva.

Si resero conto che quello era un morso, un azzannare feroce. Non un bacio.

Ma era decisamente meglio. Cazzo se lo era.

Le lingue si rincorrevano, si afferravano, si dibattevano una contro l’altra senza controllo e senza legge.

I denti le cercavano di tanto in tanto, o si dedicavano piuttosto alla stuzzicante lusinga delle labbra tremanti e vaganti, incastrandole tra dente e dente, pressandole leggermente, per poi lasciarle di nuovo in balia del furore della danza.

Respiri catturati e rilasciati, ancora pregni del pastoso odore delle sigarette, rubati da una bocca all’altra. Raggiungevano il limite della gola fin sul baratro del non ritorno, venivano richiamati indietro ad impiastricciare, inacidire sempre di più il gusto che sentivano, a coprire il sentore dolce delle loro bocche –reale-, a riempirle. A gonfiare le guance tese.

Ne aveva ancora uno in bilico, che ancora si dipanava sul palato, quando Hokuto si separò, vacillante.

E si fermò dal fare un sorriso così lungo da tagliargli il viso da parte a parte.

Perché davvero non c’era niente che non fosse andato come doveva andare.

Non sarebbe stato certo lui però, ad ammetterlo. Perlomeno non per primo.

-Ho pagato il mio debito, Hoku chan?- domandò, con quella sua faccia da schiaffi.

Con quelle sue labbra da baciare all’infinito. Da mordere, azzannare all’infinito.

-Non sei nemmeno lontanamente prossimo al farlo, Ryo chan-

Arrivò finalmente a capire che nessuno dei due avrebbe ammesso, o emesso un giudizio, o detto alcunché su un qualunque elemento, o caratteristica, o dinamica del loro rapporto, mentre la sua bocca veniva di nuovo invasa. Senza accorgersi di logica conseguenza che non c’era nessun elemento, caratteristica, o dinamica, che avesse più attrattiva di quello che già avevano.

E che era un discorso mentale che aveva fatto smisurate volte. Non c’era nemmeno da perderci tempo.

Il loro tempo era già, assolutamente, degnamente occupato.

-Hokuto kun?-

-Hn-

-Avevi qualcosa da dirmi?-

-Cosa ti fa pensare.. ch.. che avessi qualcosa da dirti?-

-Perché ce l’hai ancora-

Si staccò ancora, perché era rimasto davvero troppo poco fiato nei suoi polmoni per poter parlare e baciare contemporaneamente –anche in condizioni normali, in verità, sarebbe stato incredibile se ne avesse avuto-, si sedette con un sonoro tonfo accanto a lui.

-Può darsi-

Allargò le braccia, afferrando le gambe, portandosele e stringendosele addosso al petto. Appoggiando la testa sulle ginocchia un po’ indolenzite. Rivolgeva la vista allo scorcio delle piste del club di atletica in ristrutturazione, ai macchinari dalla sconosciuta funzione che stazionavano in locazioni disordinate sull’immenso campo che s’estendeva all’orizzonte.

Non aveva proprio niente d’interessante, ma rimaneva a guardarlo giusto per il gusto di avere la vista riempita di qualcosa.

Qualunque cosa. Anche priva del suo più minimo interesse. Anche se non gli riempiva la mente.

-Tu.. che cosa farai.. adesso?-

Ryoichi sembrò pensarci su, senza poi tutto questo impegno, facendo volteggiare la sigaretta dimezzata nella mano senza un po’ di controllo dei suoi stessi movimenti, senza nemmeno stare ad osservare quel che stava facendo. Con il collo leggermente reclinato in avanti, la testa volta di conseguenza.

-Appenderò il diploma sul muro del corridoio di casa, con tanta cura, e starò a guardarlo con malinconia ricordando i bei tempi andati-

-Parli come un vecchio sul letto di morte-

-E tu che farai?-

Sputò quella punta di umorismo nero con un vago senso d’inadeguatezza, insieme ad un po’ di cenere che, non sapeva né come né quando, gli si era annidata in bocca. Non lo faceva parlare, bloccava le parole in bilico tra l’essere dette ed essere pensate.

Bastava la sua presenza per impedire ad Hokuto Umeda di parlare come Hokuto Umeda sempre faceva.

Appunto. Tranne che per quando lui entrava a far parte delle incognite delle sue equazioni mentali.

Hokuto soffiò aria priva di caligini dalle labbra ancora umide, sistemò la schiena lungo il muro da poco riverniciato, di un bel colore verdognolo che si adattava divinamente all’ambiente. Assestò i propri pensieri in aperta rivolta al suo sistema mentale dittatoriale, per trovare la risposta.

-Voglio tanti bei ragazzi.. tanti bei ragazzi intorno a me tutta la vita-

Disse, con un lungo obliquo sorriso delle labbra sottili e brillanti.

Non si aspettava nessuna dimostrazione di gelosia, o di violento possesso, o di ostilità al progetto.

E non ebbe nulla di tutto questo, assolutamente niente anzi. Solo un'altra boccata di fumo che infrangeva il profilo di una nuvola bianca del cielo e ne inquinava la candida vista. Un breve movimento di assestamento della testa prima della boccata successiva. Assolutamente niente.

-Probabilmente, allora, non andrai molto lontano da qui.. Dottor- maniaco- ninfomane- Umeda-

Una constatazione obiettiva, nulla di sentimentale o che tradisse un qualunque coinvolgimento.

Voce polare, il minimo ed indispensabile interesse alla faccenda, all’argomento del discorso. Non era neanche lì, in quel momento.

Non conoscevano la posizione uno dell’altro, la parvenza uno dell’altro, neanche più si conoscevano l’un l’altro.

Prima che le labbra e le bocche sempre pregne del sapore del tabacco si toccassero, si azzannassero.

Ma andava bene così. Rimaneva tutto nella freddezza, nella lucidità e alla luce del sole.

Andava schifosamente, gelidamente bene. Bene per la sua logica di vita.

-E… Masato?-

Lo chiese in poco meno di mezzo secondo. Come un respiro lasciato e tagliato a metà per poi essere inghiottito ancora.

Nemmeno adesso si aspettava una qualche reazione, in realtà. Non era quello che voleva, non era quello che desiderava da lui.

Una reazione diversa da quelle che di solito vedeva in lui, non era merce di scambio che valesse la pena aspettarsi.

Nessuna aspettativa era utile poi.

-I suoi genitori sono tornati. Sono andati tutti a vivere ad Okinawa**. Il padre ha trovato lavoro là-

Allungò la mano. Afferrò la sigaretta che si stava di nuovo per dirigere verso le sue labbra.

-Quindi?-

-Quindi cosa?-

Se ne appropriò con menefreghismo per il derubato.

Tirò la più lunga, asfissiante, infinita boccata della sua vita.

-Riuscirai a stare in piedi da solo.. senza avere qualcosa a cui aggrapparti?-

Per un attimo era sfuggito alla sua sistematica mente. Merda.

Non fece caso al breve tremore del braccio a contatto con la sua spalla. Non ci fece caso perché quella era il massimo della reazione che riusciva ad ottenere. Sapeva cosa significava, cosa nascondeva, sapeva di tutto ciò di cui era preludio e eloquente pronostico.

Di ciò che forse sapeva, che forse non sapeva di lui. Ciò che sfuggiva alla sua sistematica mente.

Ricordando che la sigaretta che aveva in mano era la sua, aspirò il doppio del fumo. Lo assaporò il triplo del tempo.

-Non capisco di che parli-

Fece dondolare la sigaretta di lato, in segno d’ovvietà.

-Questo non riesco a dimenticarlo-

Aspettò, senza fretta. Senza aspettative.

Nei occhi vide chiaramente che non c’era proprio nessuna volontà di rispondere.

Rimasero in silenzio, la sigaretta lasciata in balia del fuoco che la divorava centimetro per centimetro.

Immaginando magari di poter salire in cielo, aspirare le nuvole e assaporarle come il fumo che avevano sempre in bocca.

Ma sarebbe stato più dolce, più delicato sul palato. Non avrebbe impregnato il sapore dei loro baci.

Non avrebbe coperto quel che nascondevano.

Nuvole con l’azzurro del cielo infinito.

-Il cielo di Magritte-

-Hn?-

Si stupì di vedere il suo palmo vuoto allungarsi verso il cielo.

Con dentro niente, senza afferrare niente.

-Disegnerò un cielo.. un cielo anche più bello di quelli di Magritte..-

Chiudendo il pugno sul profilo di una nuvola ingannatrice, che sembrava tanto vicina, sentì che qualcosa c’era.

C’era qualcosa che ancora poteva afferrare.

-…è questo che farò-

Si sentì un traditore, dopo aver ascoltato quelle parole.

E non perché le grazie di Ryoichi Kijima non potevano bastare al soddisfacimento dei suoi obbiettivi di vita.

Non perché sapeva che ne avrebbe cercate altre, e di altrettante avrebbe goduto.

Non perché non era mai riuscito a dirgli quanto sapesse di lui, senza il suo permesso.

Non perché, per quanto continuasse a dirglielo sempre, lui non riusciva mai a dimenticare niente.

Niente dei loro baci, di quello che sapeva di lui senza che nemmeno lui lo sapesse.

Ma perché, beh, mentre vedeva il profilo longilineo del suo uomo stagliarsi all’orizzonte comprendo il profilo della nuvola che la sua mano non era riuscito ad afferrare, aveva capito, meglio di quanto avesse mai potuto fare. Meglio di quanto sarebbe mai riuscito a fare.

Ryoichi Kijima gli aveva fatto capire una cosa pressoché fondamentale al raggiungimento dei suoi obbiettivi.

La sua logica era davvero una gran cazzata.

Corse verso di lui.

Per afferrarla.

Perché lui afferrasse quel che tanto cercava.

-Potrai aggrapparti a me.. quando vorrai-

Sorrise.

Sentendo quando fosse buono il gusto, il suo sapore.

Il sapore dell’ultima boccata.

*Naturalmente parlo del padre del Kayashima del manga (il compagno di stanza di Nakatsu che vede gli spiriti e le entità spirituali, e che ama fare yoga, per l’appunto). Non so se anche lui frequentasse l’Osaka, né se come il figlio fosse appassionato anche lui di yoga, ma se così non è, beh, passatemi la licenza poetica per piacere XD

** Naturalmente anche questo me lo sono inventato di sana pianta XD

Ecco!!! Adesso chi di voi legge altre mie fanfic capisce perché le aggiorno una volta ogni morte di papa.

Praticamente sono stata mesi e mesi senza scrivere niente e bam.. da un momento all’altro mi si accende la lampadina sulla prima cosa che mi capita davanti.

Bah.. comunque è una cosina senza troppe pretese.

Ma se commentate mi fa piacere.

Baci.

   
 
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