Un gioco chiamato Destino
C’era stato un tempo, anni fa, in cui Alexandra Udinov era stata felice.
Un tempo in cui viveva ancora in Russia, i suoi genitori erano vivi e lei passava le giornate giocando a pallone con Yuri.
Nessuna preoccupazione l’affliggeva.
Nessuna missione da completare.
Nessuna spia che le dava la caccia.
Nessuno da vendicare.
Solo lei e i suoi genitori.
Solo lei, Yuri e quel pallone che non riusciva a tirare in porta.
Ed ora eccoli lì, sette anni dopo.
L’uno difronte all’altra a chiedersi se era già stato tutto scritto, se dipendeva dalle carte che erano toccate loro in mano o dal modo in cui le avevano giocate. [*]
Lui la guarda con risentimento.
-Traditrice.- le dice.
Prova a spiegargli, Alex, con le lacrime agli occhi, il cuore ferito, e le labbra che vorrebbero spiegargli tutto.
E ci prova.
Sì, ci prova.
Ma lui non capisce.
-Sei stata manipolata così bene che nemmeno tu sai più a cosa credere.-
Lei non sa più come rispondere ed esce.
Lo lascia lì, solo, legato ad una sedia e con il desiderio di ucciderla.
-Per liberarti.-
Gliel’ha detto lui stesso.
Si chiude la porta alle spalle e vi scivola contro piangendo lacrime di tristezza e di paura.
Lacrime di chi si sente ormai solo, di chi è schiacciato da qualcosa di più grande e si sente in trappola.
Lacrime di chi è vittima di un gioco.
Un gioco chiamato Destino.
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[*] Frase tratta (più o meno) da “L’ombra del vento” di Zafòn.