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Autore: miss potter    18/06/2013    1 recensioni
Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere.
Ernesto Che Guevara
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Mi lascio lo sgabuzzino e il cucciolo alle spalle, invitandolo a mettersi comodo mentre esco di qui e il mio è poco più che un mormorio, confuso col rombo lontano di un motore. Ripiombo così, con tale facilità, nel gelo e nella consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono e di terribilmente sbagliato per me e per chi mi sta attorno, e mi controlla.

Non avrei potuto dirgli e fargli altro. Nemmeno sostenere quel silenzio e quella particolare razza di sguardi per un attimo oltre.

In Direzione, incontro Grigoriy il quale, non appena mi scorge, getta a terra una cicca calpestandola sotto l’alta suola di uno scarpone e s’allarga in un magro sorriso di circostanza mentre torna su alcuni documenti, firmando senza leggerli.

«Allora?» chiede sospirando, simulando operoso tedio.

Mi tolgo il cappello e mi abbandono sulla prima sedia comoda che trovo, niente di meglio che un fantoccio gonfio e sporco. Ho le mani ancora sporche di sangue. Tutti le hanno notate, tranne me.

«Allora cosa?» dico, e allungo il collo per nulla interessato alle carte sulle quale sta fingendo di lavorare.

«Il ragazzo muto.»

Mi passa un paio di fogli, ridacchiando. Li prendo, ma non li sto guardando davvero.

«Non è muto. È solo furbo.»

«Ingenuo…” sospira. “Non sa che fine fanno qui i furbi?»

«Gli ho raddrizzato le dita, comunque. Ho pensato di metterlo al servizio degli uomini, sai… lucidare stivali, spazzolare giacche. Cose di questo genere.»

L’aria paradossalmente distesa del mio compagno viene improvvisamente spintonata da una prepotente espressione perplessa, dura, di leggero e levitante sospetto che poco dona ad un animo originariamente abulico, un placido felino che si sforza a ruggire mal reprimendo, dietro un paio d’occhi scuri ma incredibilmente trasparenti, tutto il suo smarrimento.

«Perché lo fai?» mi chiede, e mi sento inspiegabilmente braccato.

Ma se avessimo la forza e l’ardire di guardarci allo specchio e se predisponessimo di tale privilegio materiale, al campo, vedremmo più che uomini perduti, probabilmente. O forse nulla, solo ombre e il riflesso guizzante di bambini ignoranti che non hanno mai smesso di giocare a guardie e ladri, come se la guerra non fosse mai iniziata, o finita, e le nostre madri dovessero uscire da un momento all’altro ammonendoci per esserci sporcati i vestiti nuovi di fango.

Pateticità, la chiamano.

«Perché faccio cosa

Non devo giustificarmi. Non ho giustificazioni.

«Lo sai… Questa cosa, insomma…» stringe gli occhi, scostandoli dai miei solo per un secondo, e scuote appena il capo come se non riuscisse a trovare le parole per le quali si è persa l’abitudine, di questi tempi, insieme all’affabilità. «Dell’importartene.»

«È solo un ragazzo. Non tormentarmi.»

«Solo un ragazzo? Jan, ti prego. Non macchiarti del suo stesso peccato.»

«Di essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato?»

«D’innocenza.»

Uno spiffero alle mie spalle sembra volermi segare il collo in due, benché ben riparato dal colletto della giacca di lana e da un fazzoletto, ma non è per il freddo che tremo. Non proprio, no. Non è più il freddo dell’al di fuori a farmi così male.

Credo, piuttosto, che sia la consapevolezza della solitudine, che è un gelo ben diverso, più sferzante e assassino di questo, al quale sto cercando un possibile ma poco probabile rimedio.

Credevo di trovarlo tra chi, come me, si ripara a suon di divise di lana e medaglie e buoni propositi, mentre fuori la tempesta imperversa e si ride in faccia a chi ne resta travolto.

È davvero inevitabile tutto questo?

«Non è… niente, d’accordo? Non è nessuno.»

«Nessuno, capitano. Esatto.»



 
 
La giornata si trascina al solito, lenta e cristallizzata nella sofferenza, e ha iniziato a nevicare.

Un leggero e quasi impalpabile manto candido si posa ovunque, su ogni cosa che stia allo scoperto, macchine, tronchi segati, capannoni, uomini e cibo marcio, senza discriminazioni, sciogliendosi al contatto dei fumi che eruttano le ciminiere o al fiato caldo dei fantasmi che si vede gironzolare qua e là. E sono dettagli come questi su cui uno s’appoggia, qui, aggrappandosi con unghie e denti per non crollare definitivamente sotto il peso di questa insopportabile realtà che trascina, malefica, nell’abisso cieco della monotonia.

C’è una coda di una decina, o forse più, di persone fuori dall’ambulatorio, in piedi nella tormenta: chi si tiene un braccio, probabilmente rotto, chi la testa con le dita violacee immerse nei capelli unti di sangue, chi altri lo stomaco, piegato in due dalle fitte del colera.

Alzo un mano e grido il mio nome, e tutti si girano con le lacrime agli occhi, luminosi di speranza o semplicemente irritati dal vento ghiacciato che solleva loro gli stracci.

Entro lasciando il primo della fila ancora fuori, e quasi sobbalzo ricordandomi solo all’ultimo momento del mio piccolo ospite.

Il ragazzino è dove l’avevo lasciato, accucciato sulla barella con le ginocchia piegate contro il petto e le braccia smilze ad abbracciarsele.

Trema dalla punta dei capelli a quella delle povere scarpe. Ed è più cereo del normale.

«Ragazzo, devi andartene. Ho delle visite da fare» dico semplice e freddo come solo un medico militare riuscirebbe a fare, indossando sopra la casacca da capitano il camice da dottore.

«Ragazzo? Mi hai sentito?»

Trema, quello, trema come una marmitta appena avviata. Solo che la sua pelle ha la temperatura di un ghiacciolo e non del ferro surriscaldato, no affatto.

«Stai congelando.»

Alza lo sguardo e mi guarda stranito. Certo, mi merito un premio per l’ovvietà della mia affermazione.

Lo prendo per un braccio e lo faccio scendere, indicandogli la mia poltrona.

«Resta fermo lì, d’accordo? Non muovere un muscolo, non una parola mentre visito. Ma ti sarà piuttosto facile, no? Non proferire parola…» borbotto, quasi tra me e me, dirigendomi verso la porta.

Mi volto troppo in fretta per poterlo dire con certezza ma credo di avergli visto nascere un mezzo sorriso sulle labbra screpolate e rosse e, bizzarro ma vero, quest’allucinazione mi dà la forza per inaugurare l’ennesima giornata di visite mediche con la consapevolezza che, per sette su dieci di loro, dovrò firmare più certificati di decesso che ulteriori prescrizioni farmaceutiche.


 
 
I malati non l’hanno nemmeno notato, se non di sfuggita. Troppo occupati a non svenirmi tra le braccia e preoccupati per se se stessi e per il proprio referto per accorgersi della sua presenza sullo sfondo di quella tragedia umana in cui si susseguivano comparse in costumi da scheletri in una danse macabre sempre uguale in cui parlare di finale infelice si sarebbe probabilmente potuti scadere nell’eufemismo più agghiacciante.

Congedato l’ultimo infermo, affondo le mani insudiciate nella neve appena fuori dalla porta e me le strofino sul camice. Più che in un ambulatorio, così conciato darei meno nell’occhio se fossi in un mattatoio.

«Spero di non aver urtato troppo la tua sensibi… Ehi! Giù le zampe!»

Lo sorprendo a sfiorare lo stetoscopio, abbandonato su un bracciolo della poltrona, ma, a differenza di qualche ora prima, non sussulta né indietreggia. Semplicemente non stacca gli occhi dallo strumento, come incantato o in una sorta di trance mentre passa le lunghe dita rozzamente fasciate sullo strumento, e quell’abbozzo di sorriso ora per me è reale e tangibile verità, come un delicato acquerello rosato su una tela immacolata che si espande, silente, bagnando a poco a poco la carta e penetrandone i pori.

Lo osservo accarezzare il microfono e gli auricolari, in muta adorazione di un oggetto tanto comune quanto arrugginito e datato, e mi lascio trasportare per un attimo cullato dal momento.

Annego in un impercettibile sospiro a tratti strozzato se penso da quanto tempo è che qualcuno non mi tocca in quel modo…

«Smettila.»

Gli strappo lo strumento da sotto le dita e ne segue con gli occhi i movimenti metallici per tutto il gesto di riallacciarmelo intorno al collo.

«Sei davvero così appassionato di scienza?»

Non mi aspetto alcun tipo di risposta, semmai un cenno o un piccolo spostamento degli occhi.

I suoi mi dicono che sì, ne è affascinato, ed io rispondo che, forse, non mi nuocerebbe un assistente.

«Devi lavarti, ragazzino. Non puoi andare a letto lercio come sei» e capisco che più che una barella e una poltrona senza molle non ha visto, da quando è qui. «Dormirai nella cella d’isolamento vicino ai dormitori degli ufficiali. Non ti ho ancora visitato, tecnicamente, e… potresti avere qualche malattia trasmissibile, ecco.»

Non credo nemmeno io alle parole che dico.

Perché importarsene?

«Lo farò domattina, visitarti. E poi, dopo la colazione, inizierai a lavorare per i miei uomini, come prestabilito. Sarai sotto la mia responsabilità ma ubbidirai a loro come faresti con me, è chiaro? Niente giochetti, niente… iniziative. Tu lavori, continui col tuo mutismo, mangi quando devi mangiare, riposi solo quando noi ti diamo il permesso di farlo. Mi sono spiegato?»

Ovviamente.
 
 
  
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