Storie originali > Noir
Ricorda la storia  |      
Autore: goldenfish    25/06/2013    0 recensioni
*Presentata al contest 'la città e il noir' di sistolina e Elle sinclaire*
Il fatto che un quattordicenne fumi ti fa rabbrividire, ma chi sei tu per prenderti la libertà di educare un ragazzo? Tu che non sai educare neanche te stesso? Ti limiti solo a sperare che non diventi come te ma, per quanto ti pianga il cuore nell'ammetterlo, sei abbastanza realista da sapere che si trasformerà sicuramente in un trentenne sbandato e malandato, sempre con un piede in prigione e l'altro nei bordelli, con una sacchetta di coca in tasca. Non va neanche a scuola, sei tu che gli hai insegnato a leggere e a scrivere, ma è sempre stato più interessato al tuo lavoro che ad imparare l'alfabeto.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Sangria
***

 

Ti piace sentire i mugolii di quella donna, il sudore che le cola lungo il collo per poi nascondersi nell'incavo dei seni ti rende euforico. Gli occhi socchiusi per il terrore, le palpebre strizzate per la disperazione e le ciglia bagnate di lacrime, la pelle scossa da continui brividi, le gambe che tremano per la tensione. Meglio di una scopata. Godi nel vedere il suo sangue sporcare la lama del tuo coltello. La donna balbetta delle preghiere mentre tu le affondi lentamente quella lama lucente nella carne. Ha le guance bagnate e i capelli appiccicati alla fronte umida. Cazzo se ti piace quel lavoro. Il capannone dove l'hai rinchiusa puzza di muffa e di marcio. E' un luogo freddo, spoglio che contrasta con il calore che senti bruciare nel tuo petto, le pareti ricoperte da lastre grige sembrano morire sotto il rossore di quel liquido che impregna la maglia della donna. L'odore di ferro, però, è lo stesso: penetrante e piacevole. Senti l'acquolina in bocca. Il pavimento di uno sporco color crema, ha la maggior parte delle mattonelle crinate e una vecchia scrivania si erge solitaria in mezzo alla stanza e sembra inghiottita dalla desolazione di quel luogo. Il vento fa scontrare ripetutamente i rami spogli degli alberi contro il soffitto del capannone producendo rumori metallici e fruscii. Guardi rapidamente l'orologio, segna le 17.30 e la luce sta già lasciando spazio alle tenebre. Devi muoverti a completare il lavoro perché non hai nessuna luce artificiale con te. La donna ti guarda con le guance rigate di lacrime di odio, sembra domandarti il perché, vedi la disperazione tenderle ogni muscolo del viso, che si deforma per le smorfie di dolore. Tu non ti chiedi mai il perché, hai paura di rimetterci la ragione. Tu esegui e basta. Ti pagano per farlo.

Affondi completamente il coltello nel petto di lei, le ginocchia serrate hanno un fremito e le dita stringono convulsamente i braccioli di ferro della sedia a cui l'avevi legata, per poi rilassarsi e immobilizzarsi per sempre. La pelle acquista in poco tempo quel colore grigiastro come se tutta la luminosità della sua carnagione fosse fluita via con il suo sangue che, ora, si allarga velocemente sul pavimento. Sembra una rosa appena sbocciata, pensi deliziato. Sfili dalla tasca una boccetta di plastica e la riempi fino all'orlo di sangue, una specie di trofeo. Esci dal capannone. Non hai paura che ritrovino il cadavere, l'importante è che non trovino te. Bruci i guanti di lattice che fasciano le tue mani. Sei soddisfatto del tuo anonimato: una faccia banale in una società banale, sei uno che si confonde con la folla di cui ci si dimentica facilmente. I tuoi lineamenti a metà tra l'uomo maturo e l'adolescente non comportano nessun segno di riconoscimento. La tua carta d'identità parla chiaro: occhi grigi, capelli rossi, altezza 1.82, stato:celibe. Segni particolari: nessuno.

 

Ti svegli all'improvviso, senza neanche passare per quella piacevole sensazione del torpore mattutino. Controlli la sveglia dalle cifre enormi, segna le 6 di mattina. Poco male. Quell'altro dorme ancora, non vuoi svegliarlo. I ragazzini devono dormire molto.

Un sequestro durato 8 anni. Te lo sei portato via il giorno del suo sesto compleanno durante la sua festa al parco. I genitori non si erano neanche accorti. Lo nascondevi in cantina, le ricerche per quel bambino dagli occhioni verdi e i boccoli neri, dapprima insistenti, iniziarono a sfumare anno dopo anno. I suoi stessi genitori avevano deciso di chiudere il caso, ammettendo che effettivamente poteva essere morto. L'avevi visto crescere sotto i tuoi occhi, ogni anno diventava più alto e abbandonava il corpo da poppante per quello di un adolescente. Adesso era un quattordicenne.

Vattene” gli avevi detto in un giorno di pioggia “Esci e torna dai tuoi genitori” ti eri pentito di quello che avevi fatto e volevi riparare, in qualche modo. Ti eri accorto che non era lui il giorno stesso che lo avevi rapito, ma non volevi crederci. Preferivi rimanere aggrappato a quella flebile speranza che ti teneva ancora vivo il cuore. Nei meandri della tua mente sapevi già la verità, ma tutto il resto del tuo corpo, della tua anima non volevano accettare quella triste evidenza che vedeva il tuo fratellino sepolto sotto tre metri di terra umida e pullulante di vita. Erano così simili che quando lo vedesti ti si strinse il cuore, non saresti stato in grado di lasciartelo portare via sotto gli occhi. L'avevi preso. Solo un per un po', pensasti, poi lo riporterò dai suoi genitori. Quel “un po'” si era trasformato velocemente in un mese e poi in due e poi in sei, fino ad arrivare ad un anno. Le tue intenzioni erano buone, davvero. Te lo ripetesti con così tanta convinzione ed insistenza che finisti per crederci anche tu.

“No” ti aveva risposto lui scrutandoti sotto la frangia di ricci, gli chiedesti il motivo. “Perché ti amo” ti aveva risposto. Ti passasti le mani tra i capelli leggermente unti e inarcasti un sopracciglio, gli domandasti se sapeva il significato di quella parola. Lui annuì. “Vuoi rimanere con me?” “Si”. Avevi già sentito parlare di quel disturbo. Come si chiamava? Sindrome di Istanbul? Ti suonò male. Aveva a che fare con una città del nord Europa, della Svezia se la memoria non t'ingannava. Stoccolma? Si, Stoccolma. Sindrome di Stoccolma. Cercasti sull'enciclopedia e sorridesti.

Ti prepari il solito caffè stretto, fuori è ancora notte. Controlli il calendario: 12 Gennaio. Quei pochi lampioni che segnano la tua via, riflettono la loro luce malinconica sul vetro della finestra, sorseggi la bevanda calda nella penombra di quella che consideri una cucina. Ti rilassa e poi hai gli occhi sensibili, non vorresti rimanere abbagliato,per quanto la lampadina a risparmio energetico abbia una luminosità piuttosto bassa. Non hai niente da fare, come sempre, così decidi di fare la tua famosa sangria, che tutti i tuoi amici amano. Quali amici? Sono anni che non hai più un amico. L'unico che ti è rimasto affianco è Marco, quello che dorme di là. Sai la ricetta a memoria: versi il vino rosso da due soldi nella brocca di plexiglas, insieme al succo d'arancia e di limone. Tagli accuratamente un'arancia e un limone. Lasci anche la buccia per rendere l'aroma dei due agrumi il protagonista della bevanda, ti piace il sapore intenso e acidulo tipico di questi frutti. Fai la stessa cosa per la mela e la pesca sbucciate. Completi l'operazione aggiungendoci una generosa quantità di zucchero. Lo lascerai riposare in frigo per un paio d'ore, prima di aggiungerci il ghiaccio e il tuo personale ingrediente che la rende ancora più appetibile. Ti lecchi le dita grondanti di succo dei vari frutti, un goccia è scivolata fino al gomito lasciandoti la pelle appiccicosa e profumata. Ti sciacqui nel lavabo ricoperto di piatti sudici e acqua stagnante. Dovresti pulire le tubature intasate un giorno o l'altro: la doccia è inutilizzabile da più di una settimana, quell'odore di fogna aleggia indisturbato per tutto l'appartamento e i muri iniziano a marcire. Guardi l'enorme macchia di umido che si è formata sul soffitto. L'intonaco sporco sta iniziando a staccarsi. Per terra ci sono pezzi ovunque. Non hai mai tempo di pulire o sistemare qualcosa di quella casa fatiscente, non puoi permetterti neanche di pagare un esterno per farlo. Il denaro ti basta a malapena per mangiare e non compri vestiti nuovi dal giorno del rapimento. Ti senti in colpa verso Marco che, nonostante tutto, non si è mai lamentato; non gli hai neanche fatto un regalo per il suo compleanno. Il divano ha conservato qualche pezzo qua è la di pelle rossa, puzza di stantio e di muffa, stai iniziando a diventare allergico alla polvere, a forza di dormire li. Hai ceduto il tuo letto al ragazzo, una brandina arrugginita e solo 5 lenzuoli di ricambio. Il cesto dei panni sporchi è straboccante, prima o poi dovrai andare in lavanderia. Lo segni sul calendario con una penna verde. 3 febbraio : lavanderia. Maledici mentalmente il tuo secondo lavoro che non ti rende quasi nulla. Cerchi di prenderla con filosofia, è praticamente tutta la vita che ti proteggi dietro questo schermo illusorio. La tua vita fa schifo. Punto. E non sei neanche in grado di mantenere un'altra persona, ma ti ostini a farlo comunque. Sperperi tutti i soldi che guadagni in cene e altre cazzate per ingraziarti le vittime. E' così che lavori. Alla fine quello che spendi per saldare i debiti è molto più di quanto immagini, e rimani solo con lo stretto necessario per mangiare. Povero ed egoista. Non potrebbe esserci una combinazione peggiore. Il frigo sembra essere l'unica cosa funzionante e te lo dimostra con quel fastidioso ronzio perenne. Guardi fuori dalla finestra. Non potresti aspettarti altro in un quartiere costituito per lo più di case popolari, che il Comune dona gentilmente a tutte quelle persone a reddito zero o poco superiore. Sembra una piccola comunità dentro la città, come un lazzaretto: ci sono le famiglie, il vecchietto in pensione mezzo matto, la casalinga grassa ed esaurita, il macellaio che vende carne scaduta, facendola passare per frollata, l'alimentari di 5 metri per 6. A volte ti sembra di vivere nella Francia dell'800, nei bassifondi dipinti ne Les Miserable. Nessuno paga l'affitto lì, ma la situazione è veramente pessima, basti pensare ai lampioni eternamente fulminati, i vetri delle lampadine sono ancora sparpagliati per terra e la spazzatura è ammassata accanto ai bidoni saturi di sacchi. L'odore è pungente e sei sicuro che qualcosa, la sotto, stia andando in putrefazione. Non ricordi neanche l'ultima volta che hai visto il camioncino bianco di Marche Multiservizi passare, per svuotare quei cassonetti arrugginiti. Tu fai la raccolta differenziata, stai attento a non mischiare carta e plastica e lavi accuratamente ogni scatoletta di mais o di tonno, molte persone non lo fanno però. Forse per ripicca contro il Comune che sembra avere abbandonato quel quartiere, come se vivesse proiettato in un'altra dimensione, senza accorgersi che parte dei suoi cittadini stanno marcendo dentro case fatiscenti costruite con materiali scadenti. La tua palazzina era di un bel colore salmone, un tempo. Adesso il suo cemento crepato è esposto alle intemperie climatiche, dall'afa di Agosto alle gelate di Gennaio. L'armatura di molte colonne fa capolino dalla struttura, è arrugginita e potrebbe ferire qualcuno. Le scale per raggiungere il tuo appartamento hanno le piastrelle di grès ,che una volta ricoprivano gli scalini, quasi tutte spezzate. Ti è capitato più volte di inciampare e di tagliarti con uno di quegli spigoli appuntiti. Gli unici colori presenti sono quelli delle vernici spray usate per i graffiti che imbrattano le pareti delle case e le strade. I graffiti ti piacciono, purché siano carichi di colore e ben progettati. Rimani rapito dal liquido marroncino che goccia dalla grondaia del condominio. Ti domandi da quando non la ripuliscono, sei sicuro che sia stracolmo di foglie secche e uccellini morti. Pullulante di mosche e cimici. Storci il naso. Hai provato più volte di telefonare il Comune per avvertirlo che il porfido della piazzetta davanti alla tua abitazione sta saltando, che molti dei platani hanno rami pericolanti e che la fontana ha smesso di zampillare da un po' e che tutta l'acqua ha lasciato spazio al muschio umido. I primi anni ti preoccupavi personalmente di tagliare l'erba di quel giardinetto e di ridipingere l'unica panchina che si ergeva solitaria in un angolo, a nessuno sembrava interessare però e ,anzi, alcuni si lamentavano se tardavi di qualche giorno rispetto al calendario che, tra l'altro, avevi scritto e appeso tu, così ci rinunciasti e lasciasti crescere indisturbata l'erba che soffocava sotto i tuoi occhi le aiuole di camomilla e violette. La panchina è stata smantellata poco dopo perché corrosa dalla ruggine.

Un uccellino si dimena tra gli artigli di un gatto senza coda e tu ammiri rapito quella scena. Trovi quella cruenta immagine analoga alla tua vita. Un brivido ti percorre la schiena quando il gatto affonda i denti nel corpo vibrante del passerotto sporcandosi il muso del liquido scarlatto che fuoriesce copioso dalla ferita della bestiolina. Continua a sbattere le ali forsennatamente inconscio che, anche se riuscirebbe a fuggire, morirebbe nel giro di qualche ora per dissanguamento. Sorridi malinconico al pensiero di essere sempre il gatto. Cacciato dall'esercito per rissa e uso di sostanze stupefacenti, eri uno dei migliori soldati, prossimo a diventare caporale maggiore. Avevi lasciato la scuola a 15 anni per arruolarti in accademia, il tuo nome in cima alla lista ti sembrava più grande e importante degli altri. Fu la prima ed unica volta in cui ti sentisti fiero di te stesso. Con un QI di 145 ti eri subito distinto tra tutti, progredendo velocemente. I tuoi superiori ti vantavano con le altre accademie e ti descrivevano sempre come uno che avrebbe fatto strada, un genio, un caso su un milione. Smontavi e rimontavi il tuo fucile in tempi record e se non eri il più dotato fisicamente, potevi vantare una mentalità da stratega invidiabile e un'assoluta dedizione all'esercito. “Quel ragazzo ha la natura dalla propria parte” commentavano gli altri alludendo al tuo sangue freddo e alla tua mira precisa. Il tuo sogno era di entrare nel AISI, le forze segrete per la sicurezza interna del paese. Forse eri troppo imbevuto di film polizieschi, ma sentivi che quello era il posto che ti spettava nella società. Non dimenticherai mai la delusione dipinta negli occhi del tuo generale quando ti scoprirono ad inalare una striscia di cocaina nella tazza del cesso. Ricordi le sue parole alla perfezione e l'intera scena in cui ti comunicava la tua espulsione dalle Forze armate e l'allontanamento dalla tua amata professione. Cerchi di non pensarci perché quei ricordi, impressi vividamente nella tua memoria, sembrano bruciare come un ferro rovente. Fu lo strattone definitivo che lacerò irrimediabilmente gli ultimi brandelli che tenevano uniti il tuo cuore già sanguinante. Fu così che ti trasformasti nella persona orribile che sei adesso. Un reietto della società, della stessa dignità di una pantegana che striscia indisturbata nelle fogne della tua merda di quartiere. Tu uccidi per vivere. Come il gatto che si avventa sul corpo esangue dell'uccellino. Ha le ali spezzate. La natura ti è stata benigna nelle virtù, ma ti ha privato dell'amore che vorresti aver ricevuto e provato. Che fregatura del cazzo, pensi. Ti ha costretto a vendere la vita delle altre persone per salvare la tua. Hai sempre disprezzato i deboli, ma tu non sei da meno. Egoista, povero, debole e ipocrita. Che merda di uomo.

Il giornale vecchio di due giorni ti fa da sottopentola o sottobicchiere, i cerchi di unto e di bagnato rendono illeggibili gran parte degli articoli. Il resto del carlino, a un euro in edicola. L'avevi comprato solo perché regalavano, in omaggio, un libro di psicologia. Ti piace la psicologia, ma sei troppo freddo per comprenderla, troppo distante dal mondo dei sentimenti, non riusciresti mai a metterti nei panni di qualcun altro perché la sua logica ti sfugge,ti appare contorta e autodistruttiva. “Ho seguito il cuore” potrebbe risponderti, tu non hai mai seguito il cuore, ma solo la mente. Forse è per questo che la tua esistenza appare così vuota. Forse è per questo che Hyena è il serial killer più ricercato.

Togli la sangria dal frigo insieme ad una delle dieci boccette di plastica. Versi un'abbondante mestolata in una tazza rossa,sviti accuratamente l'ampolla stando attento a non versare neanche un po' di quel liquido che minaccia pericolosamente di uscire. Ognuna di esse contiene un'essenza diversa e introvabile. Una, due, tre gocce al massimo. Il liquido di quel rosso intenso si disperde velocemente diventando un tutt'uno con la sangria. Sangue. Sangre, in spagnolo significa sangue, no?! Un'idea malata che ti venne in mente una notte. Da allora aggiungesti sempre qualche goccia di sangue nella tua bevanda: diventava molto più buona con quel retrogusto di ferro e di carogna.

Quel sangue porta ancora il suo profumo, di lavanda, se chiudi gli occhi la sua immagine appare vivida nella tua mente, tutto grazie a quell'odore.

Faceva tutto parte del piano, l'avevi studiato accuratamente. “Ciao, piacere Giorgio” era seduta ad un tavolo, da sola. Le avevi sorriso e lei ti aveva invitato a sederti. Aveva le mani incredibilmente morbide nonostante ti avesse confessato di amare il giardinaggio, gli occhi neri risplendevano costantemente di vita e determinazione, incorniciati da folte ciglia corvine. La carnagione olivastra metteva in risalto il sorriso quasi perfetto, quel maledetto spazio tra gli incisivi ti infastidiva un po'. Eri sempre stato bravo a recitare. Diventasti quell'amante che tutte le donne vorrebbero avere: dolce, discreto e spiritoso. Conquistasti la sua fiducia con estrema facilità, lei era così innamorata di te, da non essersi nemmeno accorta dell'averti confessato tutti i suoi punti deboli, ti riempiva di baci e carezze. Tu le regalavi un rosa alla settimana e la portavi a cena praticamente ogni giorno. Non che avessi soldi da spendere, ma la somma che ti avrebbero pagato per quel bocconcino mulatto, avrebbe coperto tutti i conti aperti che ti eri lasciato alle spalle. Ti piaceva molto come sistemava i capelli dai riflessi blu dietro le orecchie e la sua voce appena rauca era vellutata e avvolgente.

Ti sentivi apprezzato con lei: rideva alle tue battute infelici, si complimentava per il tuo acume e per la tua intelligenza. Ti interrogasti spesso su come un'importante imprenditrice come lei potesse trovare interessante un uomo comune come te.

Ti eri così affezionato alla sua presenza che ti dispiacque perfino, quando decidesti di portarla in quel capannone desolato con la scusa di una scappatella intima e trasgressiva. Poco prima di morire i suoi occhi brillavano ancora di quella luce rara.

Chi ti aveva commissionato l'omicidio, però, era stato chiaro “quella donna, dalle innate abilità di imprenditrice e senza scrupoli per quanto riguarda la concorrenza, sta minacciando di schiacciare la mia impresa. In soli sette anni è diventata incredibilmente potente e io sono il principale concorrente. Non ci metterà molto a sopprimermi, è troppo in gamba e troppo influente. Anche più di me. Uccidila e ti pagherò con un assegno in bianco. Senza di lei la sua impresa fallirà di sicuro.” Sentisti i brividi di piacere percorrerti la schiena e accettasti subito. Se quella donna doveva morire, sarebbe morta. Sentimenti a parte.

Assapori la tua sangria, lasciando che le papille gustative percepiscano quel sapore sdolcinato di lavanda e morte. In un certo senso è come riaverla con te: una parte di lei sta scendendo lungo il tuo esofago scaldandoti lo stomaco, una sensazione molto soddisfacente. Quasi quanto l'averla uccisa. Presto baratterai la sua vita con un bellissimo assegno in bianco. Speri di risollevarti un po' e cerchi di non pensare a tutti i conti da saldare che ti pesano sulle spalle come un macigno. Finalmente avresti potuto comprare un nuova bicicletta a Marco, risparmiandogli la fatica di pedalare su una vecchia Graziella arrugginita e storta. Ti porti il bicchiere alla bocca e decidi di fare un giro. La luce inizia a filtrare dai vetri riscoprendo il verde dell'erba che spunta a ciuffi tra il porfido.

Suonano alla porta.

La luce fredda del corridoio ti ferisce gli occhi costringendoti a strizzare le palpebre. Ti domandi chi è che l'ha riparata e lo maledici per non averla lasciata così com'era.

Salve Giorgio, mi chiedevo se Marco potesse venire ad aiutarmi questo pomeriggio. Sai, ho il salotto da ridipingere”. L'uomo ti sorride untuoso, ti scosti un ciuffo rosso da davanti agli occhi. Sono grigi e incredibilmente grossi, per un rosso. Appoggi un braccio allo stipite della porta, come per impedirgli di vedere, oltre la soglia, la tua casa perennemente immersa nella penombra. “No” rispondi secco “Oggi ha da fare”. L'uomo sembra deluso e s'incurva nel suo pile verde. Cerca di rabbonirti con qualche constatazione assolutamente fuori luogo. “Si vede che siete fratelli, Marco ti assomiglia tantissimo” dice, tu lo guardi sprezzante “Lui è moro, io sono rosso”. Anche il tuo fratellino lo era, succede quando si ha madri diverse. Un tempo ti infastidiva quando ti facevano notare queste differenze, ma detto da uno come lui ti irrita e basta. Provi un perverso piacere nel metterlo in imbarazzo. “Si, ma gli atteggiamenti sono i tuoi” cerca di correggersi lui “Forse” ribatti assumendo un'aria superiore. L'uomo capisce che non riuscirà mai a rientrare nelle tue grazie e se ne va, con la coda fra le gambe, accennando un timido saluto. Se sapesse chi sono girerebbe sicuramente alla larga, quel pedofilo schifoso. L'avevi visto più volte avvicinarsi pericolosamente a Marco, lo guardava intensamente, come se lo stesse spogliando con gli occhi. Con quegli orribili occhi porcini dalle palpebre troppo grasse. Perchè abitava ancora in quello schifo di quartiere? Osservò l'uomo barricarsi dietro la porta di legno scheggiata. Eravate vicini da sempre ma il suo campanello non riportava alcun nome, così non hai mai saputo quale fosse e non ti sei mai curato di chiederglielo. I muri interni della palazzina, un tempo bianchi, si sono sporcati e ai bordi, verso il pavimento di falso marmo, sono decorati da bellissime impronte di scarpe. Di tutte le misure, di tutte le marche. I corrimano sono stati riverniciati da poco e il loro verde brillante stona orribilmente con la decadenza dell'intera costruzione. L'ascensore è “in manutenzione” da ormai 2 anni e la vecchietta della porta accanto, ti costringe ad aiutarla costantemente con le borse della spesa, con la scusa che la sua osteoporosi le impedisce di sollevare dei pesi. Ti domandi ancora come riesca ad andare in palestra ogni due giorni. Eppure la vedi: con la tuta blu e il borsone a tracolla, che scende rapidamente le scali, come se fluttuasse. Tutto sommato, però, ti piace. Sempre meglio del pedofilo. O della zitella del piano di sopra che ti fa sempre la punta, nonostante tu le abbia spiegato numerose volte che non sei uno da relazioni durature, che lei non è il tuo tipo di donna eccetera. Ti saluta sempre con quella voce languida e sembra sciogliersi ogni volta che le sorridi. Povera donna. Ti fa quasi pena con quelle spalle ossute e i capelli fini e stopposi, a metà tra il biondo e il castano. Aspetti che il condominio sia ritornato in silenzio e ti chiudi la porta alle spalle.

Marco si è svegliato, senti il rumore dell'acqua che scorre. Lo saluti dall'uscio, ma non ti risponde. Ti raggiunge dopo poco con gli occhi gonfi per il sonno e i riccioli bagnati appiccicati alla fronte, si muove trascinando i piedi sul pavimento di parquet scadente, a tratti scheggiato a tratti scolorito e rigonfio per l'umidità che aleggia nella tuo monolocale.

Alza la mano in segno di saluto e poi sparisce dietro la porta della cucina. Provi sempre una desolazione immensa quando ti trovi a studiare lo squallore della tua abitazione buia e perennemente dall'odore di chiuso e di fumo. Non sei tu a fumare però. Le pareti di un giallo piscio sono tappezzate da quadri pop art di cattivo gusto e la yucca nell'angolo del salotto è l'unica nota di vita e di colore. Sul tavolo e sui banconi della cucina sono sparsi fogli di giornale e lattine vuote. Il tappeto azzurrino l'hai ereditato da tua madre e il buco che si sta formando proprio nel centro, ne è la dimostrazione. Raccogli dal pavimento le bottiglie di birra che sono accatastate ai piedi del divano e le lasci a mollo nel lavabo dall'acqua putrida e scura che le inghiottisce nascondendole alla vista. Svuoti il posacenere di plastica sempre nel lavabo e raccatti in giro i pacchetti di Malboro che Marco ha sparso per la casa. Non sai da quanto tempo ha iniziato e non gliel'hai mai chiesto. Il fatto che un quattordicenne fumi ti fa rabbrividire, ma chi sei tu per prenderti la libertà di educare un ragazzo? Tu che non sai educare neanche te stesso? Ti limiti solo a sperare che non diventi come te ma, per quanto ti pianga il cuore nell'ammetterlo, sei abbastanza realista da sapere che si trasformerà sicuramente in un trentenne sbandato e malandato, sempre con un piede in prigione e l'altro nei bordelli, con una sacchetta di coca in tasca. Non va neanche a scuola, sei tu che gli hai insegnato a leggere e a scrivere, ma è sempre stato più interessato al tuo lavoro che ad imparare l'alfabeto. Ti domandi spesso come sarebbe diventato se l'avessi lasciato con i suoi genitori. Sei conscio di avere condannato la vita di un ragazzo, per un puro egoismo personale. Non ha neanche amici. Gli hai chiesto perché non trova dei ragazzetti della sua età con cui uscire qualche volta, “Perchè sono infantili” ti ha risposto lui. L'hai davvero privato della sua infanzia, troppo maturo per la sua età ti senti in colpa per averlo obbligato a crescere così in fretta. Ti auguri di morire prima di poter assistere impotente alla sua degradazione, così come tua madre fece con te. Ti chiedi cosa penserebbe lei di te, se fosse ancora viva.

Giorgio” ti chiama dall'altra stanza Marco, con la sua voce leggermente stonata “Posso bere un po' di sangria?” “Si” gli rispondi “Non troppa però, che l'alcool a stomaco vuoto fa male specialmente alla tua età” “Tanto morirò giovane” scherza lui. La sua voce però, appare malinconica e amara. Credi che la sua maturità lo renda inconsciamente consapevole e ti sale dentro una gran tristezza. “Non dire cazzate!” replichi, per convincere più te stesso che lui. Forse quello è il rimorso più doloroso da sopportare. Domandi a Marco l'ora e lui ti risponde che sono le 7.30. Ti ricordi che quel giorno il bar in cui lavori come avventizio non ha bisogno di te. Ventisette anni di uomo e ancora ti senti impotente e inutile come un ragazzino, costretto ad elemosinare qualche lavoretto dalla società per continuare a sopravvivere. Non sei costretto ad uccidere però, e lo sai bene. Ma ti piace e non saresti capace di rinunciarvici. Decidi di punto in bianco di andare a riscuotere quel giorno l'assegno, giusto per risollevarti un po' il morale. Senti già l'odore dei soldi e questo ti fa sentire meglio. “Che bicicletta vuoi?” chiedi al ragazzo che sta in piedi, appoggiato sulla gamba sinistra “Nessuna, ne ho già una” “Mi pagano oggi”, Marco scrolla le spalle e ti spiega che la sua Graziella gli piace e che faresti meglio a comprarti dei nuovi vestiti. Forse ha ragione, saresti andato in centro a prendere qualcosa per te e per lui.

 

Qualcuno inizia a battere contro la porta. I colpi sono pesanti e insistenti. Vai ad aprire. “Chi è lei?” chiedi scocciato. Quel uomo non l'hai mai visto e deduci che non è del tuo quartiere: portamento eretto, occhi scuri e penetranti, i capelli brizzolati tenuti indietro con un pesante strato di gel. Gli occhiali Ray-Ban appesi alla tasca della giacca scura. Ti sorride solo con le labbra, lo sguardo è fottutamente insistente e sembra guardare te e contemporaneamente l'interno del tuo appartamento. Per la prima volta ti senti a disagio e abbassi lo sguardo. Emana rispetto da ogni poro della pelle. Sfila dalla tasca dei pantaloni un distintivo e te lo sbatte davanti agli occhi, impassibile, senza neanche risponderti. Ti scosti immediatamente dall'uscio, come per invitarlo ad entrare e lui ti sorpassa deciso, sistemandosi proprio nel centro del tuo salotto, con le mani appoggiate sui fianchi. Dal suo viso asciutto non trapela alcuna espressione, si limita a studiare la tua abitazione minuziosamente, scovando cose che neanche tu sapevi di avere. Non ti fa nessuna domanda. Ti appoggi contro il tavolino di plastica bianca che usi per mangiare, le tue gambe non sono in grado di sostenerti. Marco ti ha raggiunto: ha dipinta sul volto un'espressione di preoccupazione, ti ha lanciato diversi sguardi interrogativi e tu ti sei limitato a scuotere la testa, come a dire “Andrà tutto bene” o “Non so cosa voglia” o “Lascia perdere”, lasciando a lui libera interpretazione. I tuoi occhi seguono freneticamente ogni movimento dell'uomo, ma il tuo sguardo è lontano, focalizzato indietro nel tempo alla ricerca di quel particolare che ha condotto da te l'ispettore. Decidi che non ne hai tralasciato nessuno, ma una strana ansia ti attanaglia lo stomaco e te lo contorce. Hai la nausea e ti viene da sboccare. In bocca hai il tipico sapore acidulo del vomito. L'unica cosa che ti riallaccia al presente è il calore che emana il corpo di Marco, in piedi accanto a te che si contorce le dita dietro la schiena.

Osservi impotente l'uomo che si sposta liberamente per la tua casa, invadendo la tua privacy e tu non puoi neanche protestare, o meglio non ne hai le forze. Quella visita del tutto inaspettata ti ha privato di ogni energia, non riesci più neanche a deglutire e quasi ti dimentichi di respirare. Quel gesto si è fatto difficoltoso, ma cerchi di apparire calmo e tranquillo. Come chi non ha nulla da nascondere. L'uomo si dirige verso di te risvegliandoti dal coma. Ti chiede se conosci una certa Marika De Angelis, ti viene subito in mente la mulatta, fai di si con la testa. Ti domanda quando l'hai vista l'ultima volta. Fai una rapida successione di calcoli, rispondi che non la vedi dal 25 dicembre, esattamente una settimana prima dell'omicidio. “In che rapporti eravate?” “Amicizia” “Sa perché qualcuno dovrebbe averla uccisa?” “No, era una donna fantastica” menti, ma solo sul no. “Che lavoro fa lei?” “Barista avventizio” “Dov'era il 2 gennaio?” “Cos'è successo in quella data?”. Provi a recitare la parte del falso ingenuo. “Non li legge i giornali? E' stata uccisa la sua amica” pronuncia quella parola sibilando, volontariamente. “Mi scusi, è solo che questa visita mi ha un po' scosso” è chiaro che non ti crede, lo capisci dal suo sguardo strafottente “E perché mai? Se è vero quel che afferma non ha niente da temere no?!” “No, immagino di no”. Fa una leggera pausa e scosta lo sguardo su Marco “E tu chi sei?” “Suo fratello” risponde prontamente il ragazzo “Fratello” ripete con la sua voce fredda l'ispettore. Torna a scrutare te “Ha un colore dei capelli molto raro. Sa quanti rossi ci sono a Pesaro?” “No” non sai dove vuole andare a parare e questo ti spaventa. “Pochi, molto pochi. Così pochi che non passano mai inosservati” deglutisci “Una cameriera del ristorante La Poderosa ha detto che la sera dell'omicidio ha visto la signorina de Angelis a cena con un rosso” “Poteva essere un altro” arranchi tu. Socchiude gli occhi scuri come un felino “Forse”, sai bene che non può affermare niente senza delle prove evidenti e, a quanto pare, la tua casa è risultata pulita. Ringrazi mentalmente il tuo frigo malandato dai cassetti più piccoli del loro incastro. E' proprio lì che nascondi le boccette di sangue: nello spazio che si crea tra il cassetto per le verdure e il fondo del frigo. “Lei è Giorgio Tagliavento, giusto?” annuisci “Sa bene che prima di farle visita ho fatto delle ricerche su di lei, vero?” annuisci di nuovo “Ho scoperto un paio di cose interessanti sul suo conto, la prima è che è stato cacciato dall'esercito per comportamenti violenti e uso di stupefacenti. Dico bene?” “Si” ammetterlo è come avere una pugnalata allo stomaco, ma stringi i denti e cerchi di sostenere il suo sguardo. “Secondo: suo padre e sua madre divorziarono quando era poco più di un adolescente, vero? No, non mi risponda, ho il documento di divorzio proprio dentro la giacca, lo vuole vedere?” scuoti la testa, non hai bisogno di rispolverare una così vecchia ferita. Stizza gli occhi come se stesse pensando “Suo padre si risposò qualche anno dopo, con un'altra donna e ebbe un figlio. Il suo fratellastro. Ora mi sorge spontaneo un dubbio. Se i necrologi non mentono, suo fratello morì esattamente 6 anni dopo essere nato, investito da un'auto, precisamente, allora chi è il ragazzo che afferma di essere suo fratello?” prese fiato per poi sfoderarti un sorriso sprezzante e di sfida “Il tutto è spiegabile solo se lei è un negromante. Lo è signor Tagliavento?” Neghi quell'assurda domanda e senti mille spilli perforarti la schiena, mentre la tua fronte inizia a brillare di sudore, che l'oscurità della stanza maschera perfettamente. “Ragazzo” continua l'uomo rivolgendosi a Marco “Come ti chiami?” “Alessio” mente lui “Chi sei veramente?” “Suo fratello” ripete con tono glaciale. Ammiri quel sangue freddo. E' la prima volta che il tuo ti abbandona, lasciandoti in preda dell'agitazione, così debole e vulnerabile. Il detective si gratta uno zigomo con aria sorpresa. “Non so davvero chi tu sia e non riesco neanche ad immaginarlo. Un sequestro sicuramente, ma purtroppo non ne ho le prove e tu non vuoi collaborare” sbuffa e poi si riconcentra su di te “Tagliavento questa volta le è andata bene, probabilmente il ragazzo soffre della sindrome di Stoccolma. Il caso della signorina De Angelis è ancora aperto e lei è ancora nel giro dei sospettati. Indagherò anche su questa storia di Alessio, sempre se si chiama così.” conclude. Sei stato messo all'angolo con una sconcertante facilità e, quell'idea di essere stato battuto, sottomesso, piegato è come una scintilla che accende la miccia della tua vera essenza di serial killer, che fluisce veloce in tutto il corpo. Ti senti come rinato. Tutte le ansie ti abbandonano e torni ad essere lo spietato Hyena. Sostenere lo sguardo di quell'uomo ora ti risulta facile e banale. Godi nel capire che quel momento di debolezza ti ha abbandonato definitivamente. I tuoi occhi si armano del solito schermo di vetro che ti permette di rimanere ignoto e sfuggente per il tuo interlocutore. Decidi di sorprenderlo “Signore” inizi con tono amichevole e trascinato, le braccia a penzoloni contro il corpo e le gambe che sostengono il tuo peso. “Ammetto di avere rapito il ragazzo” dici alzando le mani come per farti beffa della sua autorità “Ammetto che l'ho fatto per sostituire il mio fratellino” continui “Si da il caso, però, che il caso è chiuso da ormai 7 anni, come da richiesta dei genitori del qui presente ragazzo” appoggi una mano sulla spalla di Marco che ti guarda fiero “Inoltre non ha modo d'incastrarmi perché, come può vedere, il ragazzo non mostra segni di violenze di alcun tipo e, anzi, mi pare felice di vivere con me, per quanto la mia situazione economica è a dir poco vergognosa” con la coda dell'occhio vedi Marco annuire. Ha imitato la tua posa. Ti sfugge un sorriso. “Riaprirò il caso e contatterò i genitori” ti minaccia l'uomo, adesso sembra lui quello ad essere in difficoltà: ha le mani incrociate sul petto e si è allontanato da te. “Ma come, ispettore, non li legge i giornali?” scimmiotti “La sua famiglia ha dichiarato pubblicamente che si sarebbe trasferita, non ha neanche specificato il luogo. Tempo che avrete trovato loro, avrete perso noi” lo guardi soddisfatto. Per quanto sia più alto di te, appare così piccolo sotto il tuo sguardo tagliente, che non puoi fare a meno di ridacchiare.

 

E' pieno giorno ormai. Il sole filtra attraverso le serrande e i raggi si riflettono in tutta la stanza e sulla vostra pelle. Senti la voce monotona e acuta della zitella del piano di sopra, una donna che urla ad un bambino di andare a scuola. La vita procede come tutti i giorni in quel quartiere, è come se una sfera vi separasse dal resto del mondo.

 

Il detective ti guarda sorpreso e un po' atterrito. Continui “Per quanto riguarda la signorina Marika...” t'interrompe “Questo lo lascia decidere alla polizia” ribatte il detective. “Che maleducato, signore, perché non mi lascia finire?”. Avanzi verso di lui che indietreggia di qualche passo “Ebbene anche in questo caso sono io il colpevole”. L'uomo strabuzza gli occhi. “Peccato che non abbiate alcuna prova.” ammetti “Le troveremo” “Forse” “Le troveremo e poi ti sbatteremo dentro schifoso!” “Che bisogno c'è di alzare il tono? La sento benissimo”. Prenderlo in giro in quel modo ti diverte e non poco, ti piace metterlo in difficoltà. “Per ora però non avete niente contro di me” “Perchè l'ha uccisa?” “E no, detective, mi stupisco di lei! Pensa davvero che sono così idiota da rivelarle il movente? Sarebbe come fornirle la prova numero uno!” oltre che per il lavoro sporco ti pagano per la discrezione. L'uomo abbassa i suoi occhi scuri e inizia a scrutarsi le scarpe. “Su, non faccia così!” lo deridi “Scommetto che ha risolto tanti casi, non potrà certo lamentarsi se uno rimane irrisolto” “La vita di una persona è unica, e vale tanto quanto le altre!” esclama adirato. Lo guardi interrogativo “Davvero? Sa che io ancora non so chi ha ucciso mio fratello?”. Si sta sforzando di controbattere o, perlomeno, di rispondere. Alla fine, però, rinuncia e serra le sottili labbra in una smorfia di tensione. Scocchi la lingua. Vedi i muscoli delle mandibole dell'ispettore pulsare sotto il sottile strato di pelle rosea. Ti dirigi verso la cucina e prendi tre bicchieri di vetro, l'uomo ti segue con lo sguardo.

Appoggi i bicchieri sul tavolino di plastica e ci versi una copiosa porzione della tua sangria, poi ti dirigi vero la finestra e alzi la serranda facendo esplodere la luce in casa tua. Il tuo appartamento ora risulta immenso nella sua desolazione. Fuori, sul balcone, il cadavere dell'uccellino è in balia delle mosche e delle formiche. “Beva, avanti. Tutto questo parlare deve averle seccato la gola” ti giri verso di lui. Sta esitando. “Non sono mica così sprovveduto da darle una bevanda avvelenata. Può stare tranquillo uscirà vivo da qui. Le do la mia parola” prometti. Lo senti borbottare un “Non me ne frega un cazzo della tua parola” ma lo ignori volutamente e ti limiti ad osservarlo mentre appoggia le labbra contro il vetro freddo del bicchiere e sorseggia il liquido rosso al suo interno. Fuori i rami spogli degli alberi sembrano accarezzare il cielo azzurro e terso, le auto che sfilano sopra i vetri rotti dei lampioni e i soliti bidoni della spazzatura stracolmi d'immondizia. Il gatto di quella mattina che si stiracchia in mezzo all'erba ancora umida di rugiada. Senti gli occhi abbagliati dalla luce e li sbatti ripetutamente, per idratarli.

Raggiungi Marco e il detective per bere in loro compagnia. Vuoti il bicchiere e sorridi a quell'uomo dai capelli brizzolati “Le piace?” chiedi. Annuisce, poi si congeda.

“Non si crogioli troppo nel suo anonimato. Troverò un modo per incastrarla Giorgio, non per niente mi chiamano il detective sensitivo. Non s'illuda di rimanere impunito, io troverò quelle prove. Le sento distintamente, come se le avessi sotto il naso”. Gli sorridi cordialmente mentre si chiude la porta alle spalle. “Non immagina quanto” mormori appena ti rendi conto di quanto sia fresca e squisita la fragranza che emana quell'uomo, ora che nell'appartamento è tornato ad aleggiare l'odore di stantio. “Non immagina quanto”.

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Noir / Vai alla pagina dell'autore: goldenfish