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Autore: LeGuignol    28/06/2013    0 recensioni
Idea nata per il contest "Io ti ho creato... io ti incontro!" di S.Slappy, al quale poi ho rinunciato.
Tra enigmi e rompicapi, ho incontrato personalmente un mio personaggio. Quello che non mi aspettavo, é che mi avrebbe dato una lezione!
(Attenzione! Contiene spoiler sul volume 7 / puntata 25 di Death Note)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Premessa (che si prega di leggere).
Eh eh eh, io salto sempre a piè pari le premesse, proprio non le reggo! Ecco perché ho pensato di mettere quell’avvertimento tra parentesi ^^
La fanfiction in origine doveva partecipare al contest “Io ti ho creato e io ti incontro” indetto da Slappy ma, temendo di essere andata fuori tema, alla fine non ho avuto nemmeno il coraggio di presentarla. In poche parole, il contest richiedeva di incontrare personalmente un proprio personaggio utilizzato in una precedente fanfiction e farci una chiacchierata. La storia ormai c’è, quindi contest o no ho deciso ugualmente di pubblicarla. Ho scelto R, apparsa in "Il dono". La lettura di questa fanfiction richiede per forza di cose anche la lettura preventiva dell'altra, mi dispiace; altrimenti avrete un'alta probabilità di non capirci un tubo ^^




IO TI HO CREATO... ED IO TI INCONTRO!
 
Di tutti i personaggi che avevo creato, R era la mia preferita.
Non che ne avessi creati molti, in verità. Però lei, per me, aveva qualcosa di diverso. Era la protagonista di una one-shot su Death Note, dove l’avevo utilizzata per sviluppare una trama vagamente tormentata che mi frullava nella testa già da un po’. Più che altro, lo confesso, R era una rappresentazione romanzata dei miei sentimenti scaturiti da una stupida cotta adolescenziale verso L, il bizzarro investigatore di Death Note.
Forse è per questo che ero riuscita a scrivere la storia di getto, cosa per me piuttosto rara. Ricordo che la velocità con cui i pensieri si erano concretizzati in parole scritte mi aveva meravigliato non poco. Infatti, nel mio caso, la normalità era passare anche interi quarti d’ora su una frase, arrovellandomi sulla scelta dei termini, rigirando cento volte le parole nella mente, e infine cancellando il tutto e ricominciando da capo.
Al contrario, con R mi ero trovata subito a mio agio. La vedevo chiaramente nella mia testa, tutto di lei mi sembrava semplice da descrivere.
Avevo cercato di farne emergere il carattere attraverso i pensieri e le azioni, anziché ricorrere ad una descrizione diretta. Sul lato fisico non avevo speso nemmeno una parola; nel contesto della storia l’aspetto di R mi era sembrato del tutto irrilevante. Forse mi ero sbagliata, visto che alcuni lettori mi avevano fatto notare la mancanza di particolari fisici come una pecca della storia. Nonostante ciò, non avevo modificato una sola frase. R mi piaceva così com’era, chiara nella caratterizzazione e indefinita nell’aspetto.  
Eppure, io R me l’ero immaginata bene: era una giovane donna dai capelli castani e dagli occhi scuri, con la pelle chiara. I tratti del viso non presentavano elementi distintivi, di corporatura era più magra che snella. In lei niente era appariscente o degno di nota, né l’aspetto né il modo di vestire.
Il fatto che avesse potuto sembrare esageratamente calma o matura per la sua età non mi aveva preoccupato; del resto, la Wammy’s House era un istituto per ragazzi superdotati, era naturale che i suoi occupanti non rientrassero del tutto nei canoni.
In origine doveva avere vent’anni, ma sarebbe stato assurdo che una ragazza maggiorenne vivesse ancora in un orfanotrofio. Così, la sua età si era abbassata di quattro anni.
Ecco, il mio personaggio era pronto per essere calato nell’universo di Death Note e muoversi nell’ambientazione che avevo pensato per lui. Nient’altro che una trama leggera che ruotava attorno ad un’unica idea, ovvero l’amore non corrisposto di una ragazza per il co-protagonista.
Nonostante la storia fosse semplice, e per di più pubblicata su un fandom in cui ero praticamente sconosciuta, R aveva lasciato ugualmente una piccola impronta dietro di sé regalandomi una manciata di recensioni che mi avevano riempito di gioia. Le avevo lette e rilette, avevo risposto con mille ringraziamenti, poi nel giro di pochi giorni, da quell’incostante che ero, avevo già dimenticato R e i suoi problemi.
Finché un contest indetto su EFP non me l’aveva fatta ricordare. Il contest richiedeva di scrivere una storia in cui incontrare un personaggio originale comparso in una propria fanfiction.
R era l’unico personaggio creato da me che mi stuzzicasse talmente la curiosità al punto da volerla incontrare. Non sarebbe stato nemmeno troppo difficile: mi sarebbe bastato rispolverare quella vecchia fanfiction e chiudere gli occhi per ritrovarmi a Winchester, nei pressi della quale si trovava l’istituto per piccoli geni conosciuto come Wammy’s House. Avere una fantasia galoppante in molti casi tornava utile!
Di Winchester conoscevo appena due luoghi, e per di più visti tramite foto: la cattedrale, splendido esempio di stile gotico, e la passeggiata lungo il fiume contornata dai giardini ben curati. Quest’ ultima mi parve più adatta per un appuntamento.
Detto fatto, mi accoccolai comodamente sulla mia poltrona preferita, abbassai le palpebre, e mi ritrovai su un viale lungo la sponda dell’Itchen, il fiume che attraversava la cittadina inglese.
Mi sedetti su una panchina e mi guardai intorno. Mi trovavo appena fuori Winchester, in un luogo tranquillo con qualche villetta con giardino. Dietro di me vidi un cottage in tipico stile inglese. Dall’insegna appresi che era una sala da tè.
Probabilmente la Winchester della mia mente non era nemmeno lontanamente simile a quella reale,  ma sperai che fosse almeno verosimile. Se non altro, l’erba curata del prato e le nuvole scure, presagio di pioggia imminente, sapevano di Inghilterra.
Di R, però, nemmeno l’ombra. Dopo un buon quarto d’ora passato a fissare con sguardo vacuo le anatre che nuotavano qua e là, mi venne il sospetto che non sarebbe venuta all’appuntamento. Del resto, il fatto che io fossi impaziente di incontrarla non significava che la cosa fosse reciproca. Riflettendoci, non l’avevo trattata poi troppo bene nella mia fanfiction.
Guardai il pontile poco distante da me, al quale erano ormeggiate alcune barchette a nolo. Probabilmente nelle belle giornate qualche turista si cimentava in una gita lungo il fiume, ma con quel cielo che non prometteva niente di buono le barche erano tutte al loro posto. Era comprensibile, perché mai rischiare una doccia alla modica cifra di… Non avendo nulla di meglio da fare, mi avvicinai al pontile per dare un’occhiata al cartello con i prezzi del noleggio.
Con sorpresa però scoprii che su di esso era stato fissato con lo scotch un foglio con un disegno a penna, raffigurante il pontile stesso con le rispettive barchette. Sul pontile c’era un anatroccolo uscito da un uovo appena schiuso; sull’anatroccolo comparivano due lettere, M ed O. Altre due lettere, B ed E, erano state messe sul remo di una barchetta. Infine, sulle ali di un’anatra che si era alzata in volo vi erano una L e una T. Quel disegno era un rebus!
Da appassionata di enigmistica, per riflesso cercai subito di risolverlo. Solo dopo aver trovato la soluzione, ovvero “bere molta limonata”, mi sovvenne che quello era un posto piuttosto insolito per un rebus. Tuttavia il riferimento alla limonata, la bevanda preferita di R, mi diede un suggerimento su chi potesse esserne l’autore.
Un angolo del foglio era leggermente sollevato dal cartello sottostante. Provai a rimuoverlo, e quella che sembrava la tessera di un puzzle cadde a terra.  Era stata ricavata ritagliando una cartolina illustrata. La raccolsi e sorrisi fra me; a quanto pareva, qualcuno mi aveva preparato un enigma di benvenuto, ed io non avevo nessuna intenzione di tirarmi indietro.
Sicuramente il punto di partenza doveva essere la soluzione del rebus, anche se non avevo la più pallida idea di come utilizzarla. Mi guardai intorno, e notai a una trentina di metri un chiosco che vendeva snacks e bevande. Tanto valeva cominciare da lì.
Giunta al chiosco, vidi che effettivamente fra le bevande in vendita rientrava anche la limonata. Le bottigliette erano allineate sulla parete di fondo, ma non mi sembrò che ve ne fosse una che si distinguesse dalle altre. Incerta sul da farsi, ne acquistai una supponendo che forse nel disegno dell’etichetta avrei trovato un indizio aggiuntivo. Però, quando mi allontanai con la bottiglietta e la esaminai, non scorsi nulla che potesse essermi d’aiuto. Forse mi ero sbagliata, sottovalutando la difficoltà del rebus.
Ad un tratto però mi venne un’illuminazione. La soluzione del rebus citava “molta” limonata. Forse il trucco stava nella quantità. Tornai immediatamente al chiosco.
«Mi scusi, non avrebbe per caso una bottiglia più grande?» chiesi al venditore.
«A dire il vero non ne vendo. La gente a passeggio preferisce le bottiglie piccole. Ma se vuoi, ho la bottiglia da cinque litri che uso per preparare la granita» mi rispose lui.
Sentivo di essere sulla strada giusta: se R mi aveva lasciato un indizio, non poteva che essere in una bottiglia che nessuno avrebbe acquistato.
In breve, me ne andai con il mio bottiglione di limonata seguita dallo sguardo perplesso del venditore e mi sedetti nell’erba. Lo posai davanti a me e l’osservai per bene. Esultai quando vidi che, nascosta tra il vetro e l’etichetta, vi era un’altra tessera del puzzle. In più, notai che all’interno del tappo c’era un foglietto ripiegato più volte. Lo aprii e trovai un indovinello.
 

Lavora da mezzogiorno a mezzanotte per aggiustare le mutande rotte

 
In un primo momento non mi venne in mente nessuna soluzione, finché non pensai che, come per il rebus, anche la risposta all’indovinello potesse essere legata ad R. Infatti, la prima stesura della fanfiction su di lei non implicava nessuna capacità deduttiva legata all’osservazione del linguaggio del corpo, bensì all’uso di una bussola che la guidasse nelle decisioni – idea che poi avevo lasciato perdere, in quanto troppo surreale.
La parola “bussola” calzava perfettamente con la soluzione dell’indovinello. Mi alzai, abbandonando a malincuore la bottiglia al suo destino – anche se odiavo gli sprechi, era davvero troppo pesante per portarmela dietro – e mi incamminai lungo il fiume, alla ricerca di qualcosa che potesse essere attinente ad una bussola.
Dopo una manciata di minuti giunsi ad uno spiazzo con alcune panchine e una tavola di orientamento.
Poteva essere quella, la mia meta! Studiai attentamente le località raffigurate sulla tavola per mezzo di casette stilizzate, e non mi ci volle molto per scoprire che una di loro, ovvero la Wammy’s House,  era fasulla. Staccai la sagoma della casetta e trovai sul retro il terzo pezzetto di puzzle, più un anagramma.
Sospirai, delusa. Gli anagrammi non erano certo il mio forte. Anzi, per dirla tutta, nel campo ero proprio una schiappa. Armandomi di pazienza, mi sedetti su una panchina e cominciai a ragionare sulla scritta.
 

Tesoro nel carcere (7, 3, 6)

 
Notai subito che il numero di lettere delle parole della soluzione corrispondeva a quello delle singole parole della frase di partenza. Di conseguenza, c’erano buone probabilità che l’anagramma che avevo davanti richiedesse di ragionare sulle parole singole, e non di anagrammare l’intera frase.
Nonostante ciò mi arrovellai per un bel po’ di tempo sulla scritta, rimpiangendo di non avere con me il mio smartphone, con cui avrei potuto collegarmi ad un qualsiasi generatore di anagrammi on-line e ricavare la soluzione in un attimo.
L’unica frase decente che riuscii a mettere insieme fu “cercare nel roseto”.  Non ero sicura di averci azzeccato ma, visto che i giardini di Winchester erano piuttosto rinomati, la considerai una soluzione accettabile e mi misi nuovamente in cammino lungo il sentiero per cercare un roseto che facesse al caso mio.
In effetti, durante il tragitto ne trovai almeno tre, ma in nessuno scorsi particolari che potessero aiutarmi. Proseguii ancora, chiedendomi fin dove mi avrebbe portato quella singolare caccia al tesoro, fino a che non mi imbattei in un’aiuola esclusivamente di rose bianche con un’unica, meravigliosa rosa rossa al centro. La rosa, grossa il doppio delle altre, non faceva chiaramente parte del cespuglio. Quello poteva essere il roseto che stavo cercando!
Facendo molta attenzione alle spine mi avvicinai alla rosa rossa e, nascosta tra le sue foglie, trovai una piccola scatoletta fissata con un nastro.
Dentro, oltre al quarto pezzo del puzzle, vi era un’illustrazione a colori raffigurante un giardino con alcune persone in abiti dei primi del ‘900 ed una dozzina di colonne greche posizionate in modo irregolare. Una delle colonne era contrassegnata da una X.
Nel disegno, due persone sorridenti facevano un pic-nic nell’erba, una coppia di fidanzati chiacchierava abbracciandosi su una panchina, un bambino giocava allegramente con un cane sul vialetto di ghiaia.
Accanto all’ingresso del giardino, un cartello di quelli che di solito invitano a gettare i rifiuti negli appositi contenitori e a non calpestare le aiuole citava
 

nulla è come sembra

 
Cosa doveva suggerirmi quell’immagine? Probabilmente avrei dovuto cercare il giardino raffigurato, ma non conoscendo Winchester non avevo idea di dove andare.
Esaminando il disegno più attentamente però mi accorsi che la chiave di lettura era un’altra. Il particolare più importante non era la X, ma la scritta, perché effettivamente nella scena idilliaca nulla era come sembrava alla prima occhiata: la spensieratezza che vi era contenuta era falsa come una banconota da sei euro. Infatti, le dita della ragazza seduta sulla panchina, intrecciate dietro al collo del compagno, stavano in realtà armeggiando al gancetto della catenina che questi indossava, mentre una mano di lui era scivolata nella borsetta della ladruncola per sfilarne il portafoglio. Sul prato, una fila lunghissima di formiche si snodava fin dentro il cestino da pic-nic, accanto al quale gli insetti già infestavano sia le vivande che la tovaglia. Infine, il bambino agitava il bastone che teneva in mano non per far giocare il cane, bensì per difendersi dalle zanne che quest’ultimo gli stava mostrando.
Era stupefacente: come in un quadro di Dalì, più osservavo il disegno e più notavo nuovi particolari curiosi.
Cercai di trarre un senso logico dal disegno, e finalmente sciolsi l’arcano.
«Nulla è come sembra» mormorai fra me.
La soluzione era tutta lì. Il disegno in realtà era una rappresentazione camuffata del luogo in cui mi trovavo in quel momento: il prato era lo spiazzo di terra battuta con le panchine, la curva del vialetto riproduceva perfettamente l’ansa del fiume, e le colonne greche erano posizionate esattamente come gli alberi dei dintorni.
Esultando per la scoperta, mi diressi eccitata verso “l’albero” indicato dalla X, e girandoci attorno scoprii che il tronco era cavo. Dentro, qualcuno vi aveva nascosto una scatola con lo stemma della Wammy’s House.
La posai sull’erba e la aprii; vi trovai una bilancia, un foglietto, l’ennesima tessera del puzzle e dieci pacchetti cilindrici contrassegnati da un numero. Il foglio conteneva un messaggio con un enigma che lessi avidamente, pregustando il divertimento della risoluzione. Al contrario degli anagrammi, gli enigmi erano proprio il mio forte!
 

I dieci pacchetti che hai trovato contengono dieci monete ciascuno.
Nove pacchetti contengono monete da un grammo ciascuna, mentre uno contiene solo monete da 0,9 grammi.
Dovrai scoprire qual è, e digitare il numero del pacchetto sul tastierino della bilancia di precisione.
 In questo modo, lo sportello a lato della bilancia si aprirà e potrai ottenere il quinto pezzo del puzzle.
Ma attenzione!
Hai a disposizione una sola pesata.
Se ne effettuerai di più, la fiala all’interno della bilancia contenente acido solforico si spezzerà, rovinando inevitabilmente la tessera (che guarda caso è, insieme alla prossima ed ultima, una delle più importanti per la risoluzione del puzzle).
 Buona fortuna!
R

 
Se non altro, la firma del messaggio e lo stemma sulla scatola mi toglievano ogni dubbio sul fatto che l’artefice di quella sfida fosse proprio il mio personaggio.
Mi buttai con entusiasmo nella risoluzione del rompicapo, ma dopo una mezz’ora buona passata ad arrovellarmi dovetti ammettere che forse la vittoria non sarebbe stata così facile. Tutti i metodi che mi venivano in mente alla fine presentavano qualche pecca e li scartai ad uno ad uno. Inoltre, il fatto di avere un’unica possibilità esercitava su di me una discreta pressione psicologica, mettendomi  in agitazione.
Però, volevo incontrare R, ad ogni costo. Il gioco che aveva preparato per me mi aveva fatto venire più che mai voglia di conoscerla. Il fatto che per stuzzicarmi la curiosità avesse fatto leva sulla mia passione per gli enigmi significava che non solo io, in quanto autrice, conoscevo lei, ma che anche lei in qualche modo conosceva me. Ciò me la faceva sentire ancora più vicina.
Incoraggiata da questo pensiero, mi misi al lavoro con maggior impegno. Visto che non trovai una regola che lo vietasse, provai ad aprire i pacchetti e a controllare le monete, ma la differenza di peso era così piccola che a occhio nudo era impossibile distinguere una difformità nello spessore.
Trascorsa un’ora buona, feci appello a tutte le mie reminiscenze di matematica cercando di ricordare qualche formula che potesse essermi d’aiuto, ma ben presto scartai l’idea. Se R conosceva le mie passioni, allora doveva anche sapere che non ero ferrata in matematica, quindi non poteva aver preparato un enigma basato sui calcoli. La risoluzione doveva per forza rifarsi alla logica.
Tuttavia, dovetti spremermi le meningi per un’altra ora prima di giungere ad una conclusione. E, quando finalmente ci arrivai, la soluzione mi sembrò così ovvia che scoppiai a ridere e mi sentii come se avessi buttato via inutilmente due ore.
Presi una moneta dal primo pacchetto, due dal secondo, tre dal terzo e così via per tutti i pacchetti. In tutto, cinquantacinque monete. Tolsi il piattino dalla bilancia, ci misi tutte le monete impilandole in dieci gruppi, in modo da non mischiarle e poter così risalire ai rispettivi pacchetti di provenienza, e rimisi al suo posto il piattino.
 
Un’unica pesata. Ormai era fatta.
O ci avevo visto giusto, o avrei perso l’unica occasione della mia vita per incontrare R.
 
La bilancia segnò 54,5 grammi, ovvero uno scarto di 0,5 grammi dal totale che ci si sarebbe aspettati se tutte le monete fossero state di pari peso. Le monete diverse non potevano che provenire dal pacchetto da cui ne avevo prelevate cinque.
Trattenendo il respiro, digitai sul tastierino il numero del pacchetto corrispondente,  e tirai un sospiro di sollievo quando lo sportello sulla bilancia si aprì rivelando il contenuto: il mio agognato quinto pezzo!
Lo prelevai, insieme al foglietto che doveva contenere l’enigma successivo.
Ormai avevo cinque tessere del puzzle. Provai ad unirle, ma a quanto pareva il puzzle era stato studiato in modo da risultare significativo solamente disponendo anche del sesto ed ultimo pezzo. Quello che si vedeva con i pezzi che avevo conquistato fino a quel momento erano solo un paesaggio campestre e l’angolo di un edificio. Immaginai che quell’edificio dovesse essere la mia meta, ma per il momento era impossibile giudicare di cosa si trattasse. Tanto valeva aprire il foglio che avevo trovato nella bilancia e proseguire con la caccia al tesoro.
Ma confesso che, quando lessi la frase, rimasi interdetta.
 

vai dal fioraio e di’ «Miao»

 
citava testualmente. Lo guardai perplessa, non riuscendo nemmeno a capire se si trattasse di un indovinello, un anagramma, un acronimo o cos’altro. Quello era senza dubbio l’enigma più complicato in cui mi fossi imbattuta nel corso dell’intero gioco.
Cominciai a camminare avanti e indietro, riflettendo su una possibile soluzione ma senza arrivare a nulla di buono, mentre il tempo trascorreva inesorabilmente.
I rintocchi lontani di una campana mi informarono che ormai si erano fatte le cinque del pomeriggio. Erano passate ore dall’inizio di quel gioco. Ero stanca per il lungo camminare e sentivo lo stomaco brontolare. Ogni tappa mi aveva allontanato sempre più da Winchester, tanto che ormai dovevo trovarmi almeno a tre chilometri dalla cittadina. Probabilmente nessuno veniva a passeggiare in quel luogo; la camminata lungo il fiume si era trasformata in un viottolo fiancheggiato dall’erba alta. Però di rinunciare non se ne parlava proprio, volevo incontrare assolutamente R.
Dopo aver sprecato un altro quarto d’ora inutilmente costeggiando la sponda del fiume in cerca di indizi, mi sentii ancora più spossata. Era inutile continuare in quel modo. Lì non c’era nessun segno di civiltà, a parte una casetta con qualche serra, un vivaio probabilmente.
Non riuscivo più a ragionare lucidamente, avevo la testa leggera per la fame e mi sembrava di girare a vuoto. Il senso di solitudine che mi trasmetteva quel luogo mi fece sentire piccola e insignificante. In fondo, ero solo una ragazzina che si lasciava prendere facilmente dallo sconforto…
Forse fu proprio a causa di ciò se, pur con la consapevolezza di stare per fare una cosa tremendamente idiota, decisi di giocare il tutto per tutto e mi diressi con passo deciso verso l’uomo che stava lavorando ad alcuni vasi di begonie presso le serre.
Gli piombai davanti e, senza nemmeno salutarlo prima di iniziare a parlare, esclamai: «MIAO!».
Ecco, la mia figura giornaliera da perfetta imbecille l’avevo fatta, mi ero tolta il pensiero.
L’uomo sobbalzò e mi squadrò sorpreso, poi disse:
«Che mi venga un colpo! Stamattina una ragazza ha comprato la rosa rossa più grande che avevo e mi ha dato questo, pregandomi di consegnarlo alla prima persona che mi avesse detto “miao”. Ero convinto che mi stesse prendendo in giro! Cos’è, una specie di candid camera?».
Presi la tessera dalle mani del fioraio senza dare spiegazioni. La mia espressione in quel momento doveva essere completamente ebete, ne sono certa: l’ultimo enigma non era affatto un enigma, ma una frase da prendere alla lettera!
Non mi ero mai vergognata così tanto. Ma, ad ogni modo, finalmente avevo conquistato il mio tesoro. Mi sedetti ai piedi di un albero e mi riposai un po’. Intanto, le nuvole scure che avevano minacciato acqua fino a quel momento decisero di ricordarmi la loro presenza con una pioggerellina fine ma insistente. L’albero non era abbastanza grande da ripararmi. Se fossi rimasta lì mi sarei ritrovata inzuppata nel giro di poco. Ricomposi quindi in tutta fretta il puzzle per scoprire il luogo d’incontro con R, e quando riconobbi l’immagine il sangue mi salì di colpo al viso: era la sala da tè in riva al fiume, esattamente quella che avevo visto all’inizio della mia avventura. Quella disgraziata di R mi aveva fatto girare in lungo e in largo per poi farmi tornare esattamente al punto di partenza.
Furibonda, dimenticando la stanchezza tornai indietro di corsa, e raggiunsi il cottage col fiato corto e madida di sudore e pioggia.
R mi stava aspettando all’asciutto, vicino all’ingresso.
Stranamente, quando me la trovai finalmente di fronte diventai improvvisamente impacciata e la rabbia mi passò all’istante. Non sapevo come comportarmi. Presentarmi mi sembrava stupido – sapeva benissimo chi ero – ma allo stesso tempo era pur vero che ci vedevamo per la prima volta.
Fu lei a rompere il ghiaccio.
«Bene, hai risolto l’enigma e hai dimostrato di essere un’autrice degna di me. Ora sì che possiamo incontrarci» disse calma, con un’aria compiaciuta sul volto pallido.
La sua uscita mi colse di sorpresa. Non ricordavo di averla creata così presuntuosa. Ma poi capii. Il metodo d’indagine di R consisteva nello studiare la personalità attraverso le azioni. Così come la forza con cui era inferta una coltellata o il modo in cui era stata strangolata una vittima potevano rivelarle molte cose, così gli enigmi che aveva preparato per me erano stati ideati appositamente non per farmi divertire o per mettermi in difficoltà, ma per scatenare delle reazioni. L’eccitazione, l’ansia, la stanchezza, la vergogna, la rabbia erano ancora presenti nella mia mente, e di sicuro si stavano manifestando nel mio corpo. Piccoli segnali che solo lei poteva cogliere. Tutto era stato studiato in modo da permetterle di analizzarmi quando ci saremmo incontrate, di capire se le sarei andata a genio.
Non me la presi, anzi, mi piacque il suo modo di non accettarmi passivamente a priori solo perché l’avevo creata. Del resto, le doti investigative erano ciò che preferivo di lei. In più, vedere il mio personaggio in carne ed ossa, che parlava e si muoveva indipendentemente dalla mia volontà, era una sensazione indescrivibile che cancellò qualsiasi altro pensiero.
Le sorrisi. Era proprio come l’avevo immaginata: alta all’incirca come me, snella, con i capelli castani raccolti in una coda di cavallo. Indossava una blusa a maniche lunghe e una gonna semplice che le arrivava alle caviglie, entrambe di colori neutri.
I suoi occhi scuri mi stavano studiando con attenzione. Sapevo bene che stava cercando di carpire i miei pensieri attraverso il mio atteggiamento, e la cosa mi mise in imbarazzo. Era come essere analizzati da uno scanner. Il suo sguardo era così intenso, la sua espressione così assorta, che per un momento ebbi il timore che riuscisse a leggermi nella mente oltre che nel corpo. Avvertii perfino una punta di ostilità nei miei confronti.
Ma poi R ricambiò il sorriso, e l’atmosfera si distese. A quanto pareva, avevo superato l’esame.
«Che ne dici di entrare a bere qualcosa? Comincia a fare freddo qua fuori» proposi, dal momento che ero bagnata fradicia.
Lei annuì, e mi fece strada nel locale.
L’interno aveva un tocco più moderno di quanto avrebbe potuto suggerire la facciata del cottage. Era stato rimesso completamente a nuovo, e dava l’idea di un posto piacevole. La prima parte della sala era occupata dal bancone su un lato e da un paio di tavolini rotondi con rispettive poltroncine dall’altro; il resto era diviso in spazi più piccoli per mezzo di separè in legno. Nel locale predominavano i colori pastello, con un tocco più acceso per le tovagliette.
Subito fummo accolte gentilmente dalla cameriera, che ci disse di accomodarci pure “al nostro tavolo”. A quanto pareva, R era una cliente del locale.
Ci sedemmo, e fra noi calò un silenzio imbarazzante. Timida per natura, ero certa che non sarei riuscita ad iniziare una conversazione per prima. Da parte sua, R mi stava nuovamente studiando. Mi venne in mente che era stata addestrata in modo da potenziare al massimo il proprio dono naturale, e probabilmente ormai era giunta al punto da usarlo con chiunque avesse a che fare con lei, indipendentemente dalla propria volontà. Se non avessi fatto subito qualcosa, c’era il rischio di passare tutto il pomeriggio in silenzio sotto il peso di quello sguardo indagatore. Così, nonostante il disagio, cercai lo spunto per un dialogo.
«Quante cose buone! Cosa mi consigli?» esclamai allegramente prendendo il menù, nella speranza che il mio sorriso non sembrasse troppo forzato.
«Mi stai chiedendo un parere sulle consumazioni. Deduco che pensi che non sia la prima volta che vengo qui, vero?» chiese invece lei con tono severo.
Il sorriso mi morì sulle labbra. Non mi ero aspettata quella domanda.
«Be’, ecco…  Prima la cameriera ha accennato al “nostro tavolo”. Mi ha fatto pensare che fossi una cliente abituale» le risposi, intimidita.
«Però quella frase poteva semplicemente riferirsi al fatto che io avessi prenotato un tavolo, non ti pare?» continuò lei.
In effetti non ci avevo pensato, però non mi andava di rimanere lì come un’allocca senza ribattere. C’era qualcosa nell’atteggiamento della cameriera che mi aveva fatto pensare che avesse già visto R altre volte, e glielo dissi.
«Capisco. Anche questo però non è probante, perché la cameriera potrebbe essere un tipo particolarmente socievole che si comporta in modo amichevole con tutti i clienti. Il tuo ragionamento non porta ad una conseguenza certa, ma è sufficiente così» disse lei per tutta risposta.
Non capii dove volesse andare a parare finché R, dopo un momento di riflessione, non continuò.
« In effetti vengo qui, di tanto in tanto. Volevo solamente capire se ci eri arrivata ragionandoci sopra o per pura fortuna. A quanto pare è per il secondo motivo. In definitiva, sei una che analizza i fatti ma trascura i dettagli» concluse con tono neutro.
Ci rimasi di sasso. 
Non mi stava criticando, la sua era una pura e semplice constatazione. Nonostante ciò ci rimasi male, e il mio senso di disagio crebbe a dismisura. Mi sembrava di essere al cospetto di una perfetta sconosciuta, anziché di un mio personaggio. Certo, quando l’avevo creata avevo in mente un carattere malinconico e un po’ eccentrico, ma la persona che avevo davanti mi sembrava fin troppo distaccata. Stavo subendo le conseguenze della caratterizzazione che le avevo dato.
R, così brava a mettere a nudo i segreti più reconditi degli altri partendo dalle sfumature della voce e dai piccoli gesti, ovviamente tendeva a nascondere il più possibile gli indizi del proprio corpo, con il risultato di apparire come un automa privo di emozioni. Quello che vedevo non era nient’altro che uno scudo che si era costruita pazientemente col tempo, al solo scopo di non far trapelare i propri sentimenti verso la persona che non li ricambiava, ovvero L. Sapevo che tutta la vita di R ruotava attorno a quegli unici, rari momenti in cui poteva vederlo e parlare con lui, anche se le parole del detective non sarebbero mai state quelle che avrebbe desiderato sentire.
Mi venne in mente la citazione di un film: non sottovalutare le conseguenze dell’amore.
Io l’avevo fatto, ed ora le conseguenze le avevo davanti.  Quel distacco da parte di R nascondeva il suo  tormento interiore. Provai un po’ di pena per lei.
Mentre rimuginavo su queste cose, la cameriera si avvicinò al nostro tavolo per prendere le ordinazioni. Fino a quel momento avevo dato solo un’occhiata sommaria al menù e non avevo ancora scelto nulla, ma R mi venne in aiuto.
«Ti consiglio “Le jardin bleu”. E’ un tè nero aromatizzato ai fiori di rabarbaro e fragole di bosco. Si abbina perfettamente alla torta al cioccolato e mandorle» mi suggerì.
Per la prima volta colsi un’inflessione di simpatia nella sua voce. La guardai: stava sorridendo leggermente. Evidentemente aveva deciso che non fosse necessario rimanere sulla difensiva di fronte a me. Lo presi come un gesto di fiducia nei miei confronti.
«Sì, prenderò quello!» esclamai felice.
Ero convinta che R avrebbe chiesto della limonata accompagnata da qualcosa di insipido e poco zuccherino, come d’abitudine, invece mi fece compagnia ordinando le mie stesse cose.
Da quel momento in poi l’atmosfera si sciolse, ed io ne approfittai per soddisfare la mia curiosità facendole mille domande sulla Wammy’s House e i suoi occupanti, mentre mangiavo avidamente la mia torta e bevevo il tè. Mi dispiacque un sacco non avere con me nemmeno un notes  per prendere appunti, perché R mi raccontò diversi aneddoti interessanti che avrei potuto usare in qualche fanfiction.
Poco per volta mi avvicinai all’argomento che mi interessava maggiormente, ovvero cercare di indurla a rivelarmi qualcosa riguardo L. Tentennai fino all’ultimo, facendo in modo di non apparire troppo diretta. Ero sicura che R non avrebbe parlato volentieri dell’argomento, e temevo che se non fossi stata più che prudente lei si sarebbe nuovamente chiusa in se stessa, negandomi l’opportunità di ottenere informazioni da una fonte diretta.
Dovevo giocare bene le mie carte. Insomma, dopo averle chiesto tutte quelle cose sull’Istituto non potevo tralasciare il personaggio per il quale provavo un’attrazione maniacale!
Azzardai i primi passi in quella direzione, e lei parve disposta ad affrontare l’argomento rispondendo  senza problemi alle domande di carattere generale. Mi stupii un po’ della facilità con cui ero riuscita a veicolarla verso l’argomento desiderato, ma l’attribuii ai nostri sentimenti comuni verso L , che probabilmente avevano creato una sorta di complicità fra di noi inducendola ad aprirsi.
Incoraggiata da questo pensiero, mi abbandonai liberamente anch’io alle confidenze raccontandole come erano nati i miei sentimenti per L e perché mi attirasse irresistibilmente. Ero incerta se dirle o meno di quando lessi il settimo volume di Death Note e scoprii che L era morto; poi pensai che quel fatto faceva parte del manga, e non del mondo parallelo di R, e decisi di continuare.
Le raccontai che piansi per tre giorni e tuttora, a distanza di un anno, la ferita era ancora aperta, tanto che il più delle volte ero infelice e chiusa in me stessa come se fossi in lutto. In seguito all’episodio avevo scritto vagonate di fanfiction dalle quali grondava solo sofferenza, storie impubblicabili perché troppo simili al delirio di una pazza. Col tempo la situazione era perfino peggiorata. Avevo smesso quasi del tutto di sorridere e mi ero isolata dagli altri, dal momento che avevo cominciato a trovare fastidiosa la compagnia e le chiacchiere inutili. Avevo conservato solo pochi amici ai quali ero particolarmente affezionata.
L’unica cosa che mi dava un po’ di tregua, allontanando temporaneamente i pensieri più neri, erano gli enigmi. Quando mi ci dedicavo, la mia mente si concentrava su di loro cancellando ogni altra cosa.
Mi rendevo conto che il mio era un attaccamento morboso ad un personaggio inesistente, e che il mio comportamento sfiorava – se non “sfondava apertamente” – la patologia, ma non potevo farci nulla.
E, in effetti, il solo ricordare la morte di L era bastato per cancellare la spensieratezza che mi aveva regalato quel pomeriggio all’aperto. Mi sentii nuovamente vuota e senza voglia di vivere.
Man mano che proseguivo nel racconto mi accorsi che R aveva cambiato posizione, accomodandosi sulla sedia a gambe incrociate. Ricordai che si sedeva spesso in quel modo, quando aveva bisogno di concentrarsi. Evidentemente avevo detto qualcosa che aveva catturato particolarmente il suo interesse. La sua espressione rimase indecifrabile, ma il suo sguardo si fece ancora più attento.
Proseguii, confessandole che da allora non mi ero più innamorata di nessuno. Avrei potuto provare interesse solo ed esclusivamente per qualcuno simile ad L e, nella realtà, trovare una persona così era pressoché impossibile. Come per lei, i miei sentimenti sarebbero rimasti insoddisfatti in eterno.
A queste parole R improvvisamente scattò in piedi e, senza che avessi nemmeno il tempo di rendermi conto di quello che stava succedendo, mi elargì lo schiaffo più forte che avessi mai ricevuto in vita mia.
Mi portai una mano alla guancia dolorante e la guardai con gli occhi sbarrati, impaurita dalla sua reazione.
«Ma sei scema o cosa?» mi urlò contro. «Perché sprechi la tua vita così? Tu puoi decidere, non devi agire e pensare secondo un copione che altri hanno scritto per te. Sei libera di vivere. Tu sei reale, maledizione!».
Sentii crescere i mormorii dei pochi clienti presenti nel locale, e scorsi la cameriera affacciarsi brevemente accanto al separè con aria preoccupata.
R non ci badò. Strinse i pugni talmente forte che le nocche le si sbiancarono, e continuò a fissarmi con uno sguardo di fuoco. Le guance, di solito pallide, le si erano colorite come due mele. Nei suoi occhi lessi una rabbia infinita nei miei confronti, ma all’inizio non ne compresi il motivo.
Poi notai le cicatrici.
La manica del braccio con cui mi aveva tirato quella sberla formidabile si era sollevata un poco, lasciando scoperta la parte interna del polso su cui spiccavano i segni bianchi di due profondi tagli ormai rimarginati.  Non saprei dire da cosa lo intuii, ma ebbi la certezza che se li fosse procurati lei stessa.
E capii la verità.
Avevo riversato in lei il mio affetto rivolto a un personaggio immaginario, rendendolo, se possibile, ancora più forte quanto irrealizzabile. L’avevo resa capace di provare un amore bruciante, l’avevo resa certa che mai sarebbe stata ricambiata, e infine l’avevo abbandonata a logorarsi ogni giorno di più a causa di quell’amore insoddisfatto. Con il particolare, però, che quello che per me non era nient’altro che immaginazione, per lei era il mondo reale. R aveva continuato a esistere e a soffrire anche dopo il finale aperto della one-shot che le avevo dedicato, e a un certo punto tutto questo doveva esserle diventato insopportabile.
Nella conclusione della storia avevo scritto che R era maledetta da un dono, ma non era vero. Ero io quella che l’aveva maledetta.
«Sei proprio una stupida. Mi fai pena» mormorò, mentre gli occhi le si velavano, pieni di tristezza.
Dalle sue parole sentii che la rabbia che provava verso di me non nasceva dal fatto di averla resa un personaggio malinconico e travagliato, ma dal fatto che mi stessi rovinando per una persona inesistente.
R odiava l’irrazionalità e la stupidità. L’avevo delusa. La falsa sofferenza in cui mi crogiolavo non era nient’altro che la sciocca fantasia di una ragazzina con troppa immaginazione. Realizzandolo, mi vergognai da morire per averle confessato quelle cose, proprio a lei, che era stata spinta al suicidio a causa di un dolore reale, troppo grande da sostenere.
Avrei voluto ringraziarla per avermi aperto gli occhi, ma non ci riuscii perché scoppiai a piangere e l’abbracciai. Ero stata un’irresponsabile ad abbandonarla in quella situazione, senza preoccuparmi delle conseguenze.
«Mi dispiace, mi dispiace davvero! Scriverò una storia bellissima, appositamente per te. Farò in modo che L si accorga di te. Vedrai che cambierà tutto» balbettai tra i singhiozzi.
Ero consapevole del fatto che il suo sogno sarebbe rimasto irrealizzabile – visto che per me la donna ideale di L non esisteva, non potevo andare contro le mie convinzioni scrivendo allo stesso tempo una storia credibile – ma ero anche sicura che avrei trovato una soluzione accettabile per renderla felice.
Cercai di spiegarglielo tra un singulto e l’altro, quando mi accorsi che stavo parlando alla stanza vuota. Smisi di sfregarmi gli occhi che, contrariamente a quanto mi sarei aspettata, erano completamente asciutti, e constatai che ero di nuovo nella mia camera. R, la torta e l’intera sala da tè erano svaniti nel nulla.
Mi guardai allo specchio:  indossavo la solita tuta da casa, e sulla mia guancia non spiccava nessun segno rosso.
Un altro volo della mia fervida fantasia, pensai.
Eppure la camminata lungo il fiume, la caccia al tesoro, lo schiaffo che avevo ricevuto, erano stati così realistici…
Ripensai alle ultime parole che avevo detto ad R a proposito della storia che avrei voluto scrivere per lei, e sentii un brivido di eccitazione come tutte le volte in cui mi veniva una buona idea per una fanfiction.
Avevo voglia di una storia dark, con enigmi e misteri. La trama di un giallo si sviluppò nella mia mente a una velocità incredibile. Le scene si susseguivano, i personaggi prendevano forma. Non mi rimaneva che descrivere ciò che vedevo.
Accesi il computer, lanciai Word e incominciai a comporre il primo capitolo.
   
 
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