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Autore: Beauty    03/07/2013    9 recensioni
Anche a Storybrooke esistono principesse prigioniere che sognano la libertà...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten Fairytales - Le favole di cui ci siamo dimenticati'
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Il giorno di San Valentino era forse una delle ricorrenze più inutili e stucchevoli che il genere umano potesse inventare. Il peggio era che l’overdose di melassa iniziava niente meno che una settimana prima del grande evento, e sin dalla domenica precedente tutte le vetrine dei negozi di Storybrooke erano decorate con cuori e cuoricini, sulla maggior parte dei quali cappeggiavano scritte banali e scontate come Sei la mia vita o Non posso vivere senza di te fino al più semplice e classico Ti amo – che, a dirla tutta, fra tutta quella sdolcinatezza era forse il meno malvagio di tutti.
In poche parole, una giornata da trascorrere il più possibile barricati in casa per non incorrere nel rischio di scontrarsi ogni cinque minuti con una coppietta in vena di effusioni, o comunque con qualcuno che aveva talmente la testa fra le nuvole a causa del romanticismo dilagante da non guardare neppure dove metteva i piedi.
Di tanto in tanto, grazie al cielo, s’incrociava anche qualche ragazza in lacrime che magari era stata scaricata dal fidanzato pochi giorni prima, oppure una single incallita e per nulla felice di esserlo che sospirava piena di malinconia di fronte ai baci altrui. Ecco, il giorno di San Valentino quelle immagini erano in grado di farla riconciliare con il mondo.
Purtroppo o per fortuna, come del resto anche per quasi tutti i locali di Storybrooke, San Valentino rappresentava anche uno dei picchi annui di attività, e il lavoro al ristorante aumentava vertiginosamente. Così, quella sera sarebbe stata costretta a lasciare il rifugio sicuro della sua camera e le coccole di Rajah per scendere in sala a dare una mano. Beh, a dirla tutta, avrebbe anche potuto non farlo, ma le dispiaceva vedere le cameriere sgobbare a destra e a manca, o sua madre mettersi le mani nei capelli a causa dei conti che non tornavano, e lei starsene lì a fare nulla.
Era uno dei tanti rimorsi che l’essere la figlia del Sultano comportava.
Jasmine Ahmed sbuffò, scaraventando lo zaino in un angolo della sua stanza e lasciandosi cadere distesa sul letto. A scuola era stata una giornataccia, fra quell’isterica della professoressa Carter che aveva rifilato a tutti la bellezza di trenta equazioni in una sola ora e lo sguardo sognante di tutte le sue compagne di classe che non vedevano l’ora suonasse la campanella per correre dai loro fidanzati che le attendevano all’uscita. Anche lei non vedeva l’ora che suonasse la campanella, ma non perché qualcuno la stava aspettando con un mazzo di rose in mano. Semplicemente, voleva che quella giornata finisse al più presto possibile.
E invece, San Valentino si prospettava essere ancora molto lungo.
Jasmine avvertì un peso non troppo grave sul suo ventre, e sollevò appena il capo per vedere di cosa si trattasse. Sorrise quando incrociò un musetto paffuto che la salutò con un miao! un po’ strascicato. Jasmine puntellò i gomiti sul materasso, sollevando il busto e prendendo Rajah fra le braccia, grattandogli il capo con due dita come piaceva a lui. Il micio chiuse gli occhi, iniziando a fare le fusa.
Rajah era un gattone grande e grosso, dal folto pelo arancione a strisce nere; sua madre Aisha diceva sempre che era un trovatello, dal momento che lei e Jasmine lo avevano trovato due o tre anni prima, ancora cucciolo, abbandonato per strada mentre cercava di ripararsi dal freddo rintanandosi fra un bidone della spazzatura e un vecchio sacco nero ricolmo d’immondizia. Era magro, sporco e infreddolito, ma era bastata una settimana di cure e coccole per rimetterlo completamente in sesto.
Jasmine aveva deciso di adottarlo, incontrando l’approvazione di Aisha; suo padre aveva borbottato un po’, tirando in ballo una misteriosa allergia al pelo dei felini che né lei né sua madre avevano mai notato, ma alla fine aveva acconsentito.
Rajah si stiracchiò, sgusciando via dalle braccia della padroncina e scendendo dal letto. Jasmine sospirò, gettando uno sguardo tutt’intorno alla stanza. La sua camera era in perfetto stile indiano, molto colorata, con il pavimento di marmo e le pareti dipinte di albicocca. C’era una sola finestra, collocata sul lato sinistro della camera, mentre al centro troneggiava un grande letto a baldacchino dalle coperte e dai tendaggi color oro. Una toeletta con specchio e sgabello era collocata contro la parete destra, mentre sotto la finestra era posta una poltrona tigrata a puff. Entrando lì dentro si avrebbe quasi avuto l’impressione di aprire un passaggio verso un mondo esotico, se lo zaino della ragazza buttato in un angolo, libri di scuola e fogli con penne sparsi sul pavimento, e un armadio da cui fuoriuscivano jeans e t-shirt non avessero dato al tutto un tocco di realtà.
Le poche persone non della famiglia – perlopiù qualche conoscenza che non aveva tardato a dileguarsi, come sempre – che avevano messo piede in camera sua erano rimaste imbambolate per circa mezz’ora a guardare tutto quel tripudio di cultura indiana.
Il Sultano, effettivamente, teneva molto alla loro cultura d’origine. Per Jasmine non sarebbe stato un problema, tutt’altro, se solo suo padre non avesse fatto del rispetto di questa una questione di vita o di morte. La ragazza a volte si sorprendeva che non la costringesse ad andarsene in giro per le vie di Storybrooke con addosso gli abiti caratteristici dell’India, con gonna colorata, velo sul capo e tutto il resto, anziché permetterle di indossare jeans e magliette come tutte le altre adolescenti. Jasmine sospettava che suo padre avrebbe avuto il coraggio di fare anche questo, tanto il Sultano – non era il suo vero nome, naturalmente, ma tutti in città, a partire dai suoi dipendenti, lo chiamavano così, e alla fine anche lei aveva preso a indicarlo agli estranei con quell’appellativo, anziché con il suo nome – era legato alla tradizione, se sua madre non avesse pensato a farlo ragionare.
Già, Aisha era stata la sua via di salvezza, in quel senso. Jasmine ricordava come, quand’era più piccola, sua madre le avesse raccontato di come il Sultano avrebbe voluto farla studiare in casa con un precettore, invece di mandarla a scuola come tutte le altre ragazze. Era stata Aisha a persuaderlo a lasciarla più libera, in modo che potesse socializzare.
Jasmine corrugò la fronte, giocherellando con un braccialetto di perline colorate che portava al polso.
La parola socializzare era decisamente esagerata. Che ricordasse, Jasmine non aveva mai avuto un’amica che fosse durata più di un paio di mesi. Non aveva mai del tutto compreso il perché ogni sua presunta amica avesse il vizio di defilarsi il più presto possibile, dal momento che – modestia e vanità a parte – si era sempre ritenuta una persona simpatica, socievole e abbastanza disponibile. Sapeva anche essere spiritosa, se solo si trovava a suo agio.
All’inizio, questa inspiegabilità del perché tutti i suoi rapporti sociali morissero ancor prima di nascere, la faceva stare male come non mai; ma ora, a quasi diciassette anni, credeva di avere compreso il perché.
Tanto per cominciare, l’essere la figlia del proprietario del ristorante più chic dell’intera Storybrooke era una buona pietra focaia per un rogo di invidie. La città non era poi così piccola come molti pensavano, ma bene o male ci si conosceva tutti, e se avevi la sfortuna di capitare in luoghi frequentati da certe persone – tipo il sindaco Mills, capitana dell’ala in di Storybrooke, o Gaston Prince, rappresentante della fascia ignorante e prepotente –, allora avevi la certezza di trovarti in mezzo a un covo di vipere. Ma, se anche così non fosse stato, a Jasmine non era sfuggito quanto a disagio si trovassero i suoi potenziali amici quando si accorgevano che il Sultano li stava guardando storto.
Suo padre non aveva mai visto di buon occhio le sue amiche e compagne di scuola. A dire il vero, non vedeva di buon occhio nessuno che non appartenesse alla loro cultura o che, comunque, conducesse una vita lontana dal suo ideale. Una volta che era entrato insieme a lei e a sua madre al Granny’s e l’aveva vista scambiare due parole di cortesia con Ruby Lucas, nipote della proprietaria e cameriera del locale, all’uscita l’aveva rimproverata dicendole di non dare troppa confidenza a una sgualdrinella che si ubriacava ogni sabato sera e chese non ci fosse stata quella buon’anima di sua nonna molto probabilmente si guadagnerebbe da vivere passando da un letto all’altro.
Nella lista nera di suo padre non c’era solo Ruby; Jasmine aveva ricevuto il categorico divieto di parlare con Ashley Boyd dopo che questa era rimasta incinta senza essere sposata; che non la beccasse a dare confidenza alle cameriere del The Rabbit Hole o alle volgari spogliarelliste del King of the Fools come Esmeralda Ramirez; forse la maestra Mary Margaret Blanchard si sarebbe salvata da quella specie di gulag sovietico, se non avesse avuto una relazione con un uomo sposato; quanto a Belle French, poco importava fosse una brava ragazza, intelligente e laboriosa, con la testa a posto e dal carattere dolce e gentile…restava comunque la figlia di un ubriacone.
Ovvio che, poste queste premesse, Jasmine non avesse molto margine decisionale…ma, se anche così non fosse stato, ragazze come Ruby Lucas o Belle French erano un po’ troppo grandi per lei. Non c’era nessuno della sua età con cui parlare per davvero. Una ragazza con cui le sarebbe piaciuto approfondire la conoscenza era Lily King, la figlia del dottor Gianni King, il medico che aveva curato sua madre quando si era presa quella brutta polmonite…ma Lily era stata adottata, e i suoi genitori la tenevano sempre in una teca di vetro. Studiava in casa, non usciva se non accompagnata e le uniche persone con cui le era concesso di parlare erano i due figli di alcuni amici della famiglia King.
Dal punto di vista dell’iperprotettività dei genitori, Lily King era messa molto peggio di lei.
Jasmine gettò un’occhiata alla radiosveglia sul comodino accanto al letto. Erano già le nove di sera.
Sospirò, appellandosi a tutta la sua forza di volontà e balzando giù dal materasso. Il Sultano non le aveva mai imposto di aiutare a servire al ristorante, e spesso Aisha l’aveva invitata a lasciar perdere, non voleva che si stancasse, ma a Jasmine piaceva, soprattutto se le davano la possibilità di stare in sala in mezzo alla gente. Era un modo per venire a contatto con le persone.
Si sfilò le All Star e le fece scivolare sul pavimento in un angolo, quindi si tolse i jeans e fece scivolare via la sua maglietta rosa fucsia con stampata l’immagine di David Bowie. In biancheria intima, arraffò dall’armadio i pantaloni e la t-shirt nera che costituivano la divisa delle cameriere del locale. Alcune delle ragazze si erano offerte di prestarle la propria, ma era finita che Jasmine aveva dovuto chiedere a sua madre di fargliene una su misura.
La ragazza osservò la sua immagine riflessa nello specchio. Sebbene sia Aisha che il Sultano le ripetessero sempre che era un fiore, Jasmine non la pensava così. Non poteva dire di essere brutta, ma di certo la sua era una bellezza molto tenue, comune. Non possedeva quella bellezza provocante e sensuale di cui era portatrice Esmeralda Ramirez, né quella briosa e un po’ infantile di Ruby Lucas, e neppure la bellezza delicata e raffinata di Belle French. Il suo viso era quello di una ragazza di diciassette anni, con la pelle più scura caratteristica del suo popolo d’origine, gli occhi grandi e neri e le labbra sottili. Jasmine aveva i capelli neri e ricci, molto folti, che le arrivavano sino alle spalle. Non aveva nulla della bellezza esotica, nemmeno nel corpo.
Jasmine era molto magra e per niente alta, appena un metro e cinquantatré. L’altezza forse era il suo cruccio più grande, dal momento che doveva sempre chiedere l’aiuto di qualcuno quando doveva raggiungere uno scaffale un po’ più alto e sollevarsi sulle punte per sbirciare fra le persone.
Fosse dipeso da lei, avrebbe indossato sempre dei tacchi, ma suo padre non glielo permetteva. Idem per le gonne corte e le magliette troppo scollate, e così valeva anche per il trucco. Una volta, quando aveva quattordici anni, una compagna di scuola le aveva fatto provare del rossetto, e lei tornando a casa si era dimenticata di toglierlo. Jasmine era sicura che, se non ci fosse stata sua madre a difenderla, il Sultano l’avrebbe sicuramente schiaffeggiata.
Indossò velocemente la divisa, dando un breve colpo di spazzola ai capelli, quindi scese al piano di sotto, dove era situato il ristorante.
Jasmine si bloccò sulla soglia, indietreggiando istintivamente quando vide il pienone. Quasi tutti i tavoli erano occupati – perlopiù da coppiette che si sbaciucchiavano – sia in sala sia nel bar più all’interno. La veranda, invece, era inspiegabilmente deserta. Ma, Jasmine sospettava, non sarebbe passato molto tempo prima che si riempisse.
- Tesoro!
Jasmine sollevò istintivamente lo sguardo quando udì la voce di sua madre. Subito Aisha le venne incontro sorridendo, elegantissima in una gonna nera che le arrivava ai polpacci, ballerine scure e una camicetta bianca. Aveva i lunghi capelli neri legati in un elegante chignon sul capo, un poco di rossetto e un filo di ombretto scuro e eyeliner sugli occhi.
Aisha la salutò con un bacio sulla guancia.
- Non pensavo saresti scesa…- disse, con un sorriso.
- Non avevo niente da fare…- Jasmine si strinse nelle spalle.- Dov’è papà?- chiese, cercando con lo sguardo la figura del Sultano. Aisha le indicò un punto poco distante. Suo padre, un uomo di cinquant’anni con il ventre prominente, di una spanna più basso della moglie, il capo quasi completamente rado e una barba grigio bianca non troppo lunga, stava discutendo animatamente con un cameriere che Jasmine identificò come Yago.
Yago era quasi parte dell’arredamento fisso del ristorante. Suo padre l’aveva assunto solo grazie a una raccomandazione enorme con cui il ragazzo si era presentato, e forte di quella sapeva di non poter essere licenziato. A Jasmine lui non piaceva molto: era logorroico, e raramente diceva qualcosa di intelligente. Inoltre, oltre a essere un gran fannullone, si comportava sempre con una patina di servilismo che le dava sui nervi.
Il Sultano congedò Yago con un gesto sbrigativo, quindi fece un cenno di saluto in direzione della moglie e della figlia, prima di tornare a fissare corrucciato un certo punto. Jasmine vide che il suo sguardo torvo era rivolto a un gruppetto di ragazzi che si era accampato nel bar accanto alla sala da pranzo – e che non dava l’impressione di volersi schiodare da lì in tempi brevi.
Jasmine li guardò meglio: non ne conosceva neppure uno, ma erano tutti quanti grandi e grossi e alcuni di loro indossavano la felpa della squadra di football di Storybrooke. Sembravano piuttosto alticci, e alcuni ridevano e parlavano ad alta voce.
La ragazza vide sua madre fare una smorfia contrariata.
- Ho paura che stasera avremo guai…- commentò Aisha.
- Nel caso, possiamo sempre dire a Yago di buttarli fuori, se danno fastidio - disse Jasmine.
- E’ vero, ma vorrei veramente evitare di fare brutte figure, specialmente stasera.
- Perché? Che c’è stasera?
- Oh, niente di particolare, ma…beh, poco fa è entrato il signor Gold.
Jasmine si gelò. Il signor Gold? Che ci faceva lì?
La ragazza lo conosceva bene, dal momento che si presentava sulla soglia di casa loro ogni mese per riscuotere l’affitto – che era abbastanza oneroso, dato il livello del loro locale, accidenti a lui! –, ma non si era mai trattenuto lì più del dovuto.
- Sai, non vorrei dare spettacolo proprio di fronte a lui - aggiunse Aisha.
- Che ci fa qui?- fece Jasmine, sempre più stupefatta.- Credevo che avesse già riscosso l’affitto, questo mese.
- Sì, infatti. Ma non è qui per l’affitto. C’era una ragazza in sua compagnia…
Jasmine si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito.
- Sei sicura, mamma? Una ragazza…con il signor Gold?
- Sì, anch’io ho stentato a crederci all’inizio, ma a quanto pare…- Aisha si strinse nelle spalle come a liquidare l’intera faccenda. Jasmine si sporse ancora un poco per guardare suo padre.
- Beh, allora io andrei...- mormorò.- Ma papà non dovrebbe stare in sala?
- C'è Jafar, stasera.
Jasmine si trattenne dal montare su il broncio dovuto al malumore che il solo sentire pronunciare quel nome le causava. Jafar era il maître del ristorante, e lavorava lì sin da quando lei era una bambina ma, esattamente come con Yago, non le aveva mai ispirato molta simpatia.
Era un uomo decisamente non più molto giovane, di certo più vicino ai cinquanta che ai quarant’anni. Era molto alto e molto magro, con le spalle larghe e il volto equino su cui spuntavano una barbetta nera e dei baffetti lunghi e sottili, e spesso si esibiva in un ghigno che scopriva i denti storti, un ghigno strano, che aveva poco di allegria e perfino di canzonatura.
A confronto, il sogghignare tipico del signor Gold era niente.
Ma non era solo il suo aspetto fisico a non piacerle. Jafar era, proprio come Yago – non c’era da stupirsi, in effetti, che quei due facessero coppia fissa ovunque – ricoperto di una patina di servilismo, ma il rispetto che ostentava nei confronti del Sultano e della consorte era chiaramente falso, come qualcosa che serviva a mascherare le sue vere intenzioni.
Questo, unito al fatto che, da quando aveva compiuto quattordici anni, Jafar non faceva altro che ronzarle intorno, rendevano la sua presenza a Jasmine impossibile da sopportare.
Ma, essendo Jafar il maître del ristorante, le toccava sopportarlo. Che le piacesse o no.
Jasmine sospirò, salutando velocemente sua madre e correndo a indossare un grembiule.
 

***

 
La serata si fece sin da subito frenetica. Jasmine e gli altri camerieri correvano da una parte all’altra della sala reggendo vassoi e piatti. Jafar, piazzato al centro della stanza fra i tavoli occupati come se fosse stato il vero padrone là dentro, osservava tutto con uno sguardo e un atteggiamento che a Jasmine ricordarono molto le movenze di un rapace, non mancando di riprendere chiunque per la minima mancanza.
Chiunque, tranne Jasmine. Quello, forse, era ciò che le dava più fastidio. Avrebbe di gran lunga preferito che Jafar rimproverasse lei, magari anche di fronte a tutti, piuttosto che un’altra delle cameriere. Nessuno le disse nulla neppure quando Yago le attraversò la strada e lei fu sul punto di rovesciare un bicchier d’acqua, avvenimento che, se qualcun’altra ne fosse stata protagonista, avrebbe come minimo scatenato l’inferno contro la malcapitata.
Quell’atteggiamento di noncuranza e quel continuo chiudere un occhio nei suoi confronti non facevano altro che ricordare a lei stessa e a tutti i presenti che era e sarebbe sempre rimasta: la figlia del Sultano.
Una povera ragazzina ricca la cui vita era così priva di problemi da costringerla a scendere in sala a servire i tavoli per dare un po’ di colore alla propria giornata.
Jasmine odiava tutto questo. Odiava essere considerata nulla più che la figlia del Sultano e che il suo nome fosse sempre collegato non alla sua persona o a qualcosa che aveva fatto, bensì al ristorante più famoso di Storybrooke.
Le mille e una notte; così era stato battezzato, certamente su suggerimento di Aisha, da sempre un’inguaribile romantica. Un nome carico di poesia e aromi orientali, a ricordare le loro origini. Tuttavia, a dispetto di quello che il nome e la gestione del ristorante avrebbero potuto suggerire, Le mille e una notte non servivano solo cibo indiano. Per l’amor del cielo, magari suo padre, fissato com’era, avrebbe preferito così, ma ai tempi dell’apertura Aisha l’aveva convinto a istituire anche una cucina che servisse un po’ di tutto, cibi raffinati, naturalmente, ma di qualunque varietà e cultura.
Le mille e una notte era un locale molto ampio, che contava non solo ben tre sale da pranzo, ma anche un bar più appartato e una veranda circondata da fiori, più il retroscena, valeva a dire le cucine e le dispense. I pavimenti erano sempre lucidi, i piatti erano rigorosamente di porcellana, i bicchieri di cristallo, le posate d’argento, c’erano sempre candele accese e fiori a decorare i tavoli ricoperti di tovaglie di seta o pizzo.
Un ambiente splendido, che però a Jasmine non faceva altro che ricordare di cosa fosse fatta la sua vita: tante belle cose dorate…ma nient’altro.
Niente libertà. Niente amici. Nessuno con cui trascorrere il San Valentino.
 

***

 
La serata proseguì in maniera sì frenetica, ma tutto sommato abbastanza normale. Era difficile che scoppiassero disordini in un ristorante di livello come Le mille e una notte.
Tuttavia, all’incirca verso mezzanotte, Jasmine comprese il perché della latitanza di suo padre, quella sera. I ragazzi che indossavano le divise della squadra di football di Storybrooke erano ancora parcheggiati al bar accanto alla sala, decisamente ubriachi e chiassosi in un modo che avrebbe già dovuto esasperare i timpani di suo padre da un pezzo. Il Sultano continuava a bazzicare nei loro dintorni, tenendoli bene d’occhio.
Jasmine diede il cambio a una delle ragazze che lavorava dietro al bancone, trasferendosi al bar. Con suo grande stupore, sua madre non aveva avuto un’allucinazione ma il signor Gold era veramente lì. E in compagnia di una ragazza.
Jasmine sgranò gli occhi: non una ragazza qualsiasi…Belle French!
Belle French, che gli energumeni vestiti da sportivi sembravano aver preso di mira, quella sera. Jasmine stette per un quarto d’ora fingendo di lavare dei bicchieri, e intanto osservando di sottecchi la scena. I ragazzi stavano palesemente prendendo in giro la figlia del fioraio, forse per via di suo padre, forse perché si trovava lì insieme al signor Gold, o forse semplicemente per il puro gusto di farlo, Jasmine non riuscì a comprendere bene cosa stessero dicendo.
Ma Belle French evidentemente sì. Jasmine vide la ragazza avvampare di colpo, imbarazzata; nel contempo, il signor Gold assunse un’espressione scocciata, quasi volesse aggredire quel gruppetto con il suo bastone. Jasmine vide Belle cercare di calmarlo, quindi i due si alzarono, uscendo sulla veranda.
La ragazza si sentì sollevata da questa scelta. Il signor Gold non aveva certo l’aria di uno che voleva lasciar correre, senza contare che le dispiaceva per quella povera ragazza. Aveva già i suoi guai con quel padre alcolizzato, e per di più un branco di idioti si prendevano gioco di lei…
Quello che non si spiegava era per quale arcano motivo Belle French si trovasse lì in compagnia del signor Gold…
Prima che potesse approfondire mentalmente la domanda, Jasmine venne distratta dal rumore di un vetro che si rompeva. Si girò di scatto, giusto in tempo per vedere un altro bicchiere avere la stessa sorte del precedente, scaraventato a terra da uno dei giocatori di football.
- Ehi, voi!- sbottò.- Ma come vi permettete?!
I ragazzi le scoppiarono a ridere in faccia. Jasmine digrignò i denti, uscendo a grandi passi da dietro al bancone, pronta ad andare incontro a quegli idioti.
- Ferma, tesoro!
La voce di suo padre giunse in concomitanza con la sua figura, seguita a ruota da Yago e da altri camerieri, e perfino Jafar fece capolino sulla soglia. Era evidente che stessero solo aspettando l’occasione giusta per sbatterli fuori.
Yago e altri quattro li accompagnarono più o meno gentilmente alla porta, mentre Jafar si profuse in domande che riguardavano la salute di Jasmine.
- Non preoccuparti, Jafar, sto bene…!- lo liquidò la ragazza, infastidita.
I cocci dei bicchieri giacevano abbandonati sul pavimento. Il Sultano sospirò, mentre sua figlia si chinava a raccattarli.
- Non voglio che tu ti metta contro certa gente, anima mia. Potresti farti male.
- Va bene, papà…
- Oh, stai attenta! Non vorrei che ti tagliassi…
- No, sta’ tranquillo…- fece Jasmine, roteando gli occhi senza essere vista.
Prese con attenzione i cocci in mano.
- Vado fuori a gettarli nella spazzatura…
- D’accordo. Ma dopo torna di sopra, intesi? Per stasera basta, sei molto gentile ma non vorrei che ti stancassi troppo…
- Sì…- la risposta le uscì come un mugolio strascicato, mentre usciva dalla porta sul retro.
Il sottofondo musicale del locale cambiò, e attaccò una canzone di Avril Lavigne, I’m with you. Jasmine uscì alla notturna aria fresca di febbraio, gettando i cocci di vetro in un cassonetto poco distante.
Sospirò, concedendosi qualche altro istante di ossigeno puro prima di metabolizzare che presto avrebbe dovuto rientrare e rinchiudersi nuovamente nella sua stanza, come una prigioniera.
Il Sultano non la riteneva neanche in grado di tener testa a un branco di idioti, né di poter sopportare un’intera nottata sveglia a servire ai tavoli. Suo padre avrebbe mai compreso che lei era…
CRASH!
Jasmine sobbalzò, voltandosi velocemente. Accanto al cassonetto della spazzatura, disteso a terra fra un mucchio di sacchi dell’immondizia, c’era un ragazzo di circa vent’anni, dal fisico asciutto, abbastanza alto, con i capelli neri e mossi. Aveva la pelle più scura del normale, molto probabilmente doveva essere arabo o, perché no, magari anche indiano.
- Miseriaccia!- imprecò a mezza voce, rialzandosi a fatica e ripulendosi i vestiti. Indossava un paio di jeans strappati all’altezza delle ginocchia, scarpe da ginnastica lise e una t-shirt verde chiaro che aveva certamente conosciuto tempi migliori.
Jasmine arretrò istintivamente.
- E tu chi sei?- il tono di voce le uscì un po’ più duro di quanto avesse voluto.
Il ragazzo la guardò, stralunato, come se si fosse appena accorto della sua presenza. Jasmine concluse che probabilmente era così.
- Ehm…ciao…- la salutò timidamente, chiaramente imbarazzato per quanto era appena successo.
- Che ci facevi lì?- Jasmine scoccò un’occhiata prima alla spazzatura poi a lui.
- Io…ehm…ecco, io…- il ragazzo si passò una mano fra i capelli.- Io…cercavo da mangiare, a dire il vero…
Jasmine fu colpita da quella risposta. Quel ragazzo stava frugando nella spazzatura…per trovare del cibo?
La ragazza lo guardò meglio. Probabilmente doveva essere uno degli abitanti della bidonville che circondava Storybrooke, uno di quei ragazzi di strada che si guadagnava da vivere rubacchiando qua e là e facendo dei lavoretti saltuari di tanto in tanto.
Chissà, magari aveva anche una taglia sulla testa…anche se, a prima vista, non aveva l’aria di un criminale.
Il ragazzo si passò nuovamente una mano fra i capelli; Jasmine pensò dovesse trattarsi di un vizio.
- Sì, non è il massimo della raffinatezza, lo so, ma…Ecco, io…Dio, Ethan mi ammazzerà…- borbottò; Jasmine trattenne una risatina.
Il ragazzo abbozzò un sorriso, schiarendosi la voce.
- Comunque, io sono Alì - si presentò, tendendole la mano.
Jasmine gliela strinse con vigore.
- Jasmine Ahmed, molto piacere di conoscerti.
- Lavori in questa sciccheria?- Alì le indicò il ristorante. La ragazza si ricordò solo in quel momento di avere ancora addosso la divisa da cameriera. Stava per rispondergli che era la figlia del proprietario, ma si trattenne.
- Io…ehm…sì - dichiarò infine.
- Wow, fortunata…Beh, ora scusami, ma mi sa che devo scappare…- Alì le rivolse un sorriso, superandola.- Spero di rivederti presto!
- Aspetta!- lo bloccò Jasmine.- Se vuoi…ehm…io…non prenderla male, ma se ti va…beh, dentro c’è un sacco di roba…
Alì scosse il capo.
- Sei molto gentile, ma non voglio che rischi il posto per causa mia. Sei fortunata ad avere un lavoro, meglio che te lo tieni stretto…
Jasmine avvertì una stretta al cuore.
- Beh, ci vediamo, allora…Jasmine - Alì le sorrise.- Ah…e buon San Valentino!- augurò, prima di svoltare l’angolo e scomparire.
In un’altra occasione, Jasmine si sarebbe innervosita. Invece, si ritrovò a sorridere sinceramente e a salutarlo con la mano. Nessuno le aveva mai augurato un buon San Valentino…e, per una volta, doveva ammettere che era davvero piacevole sentirselo dire.
 
 
Angolo Autrice: Allora, prima che pensiate che ho manie di egocentrismo, so che questo è un altro missing moment della mia long, ma l’ho fatto perché…beh…la season 3 si fa sempre di più attendere e…MI MANCA LA RUMBELLE!!!!!!!!!!!!!!!
E per questo volevo inserirla…
L’idea di inserire Jasmine a Storybrooke è venuta da Princess Vanilla, che ringrazio…spero che questa shot vi sia piaciuta, mi rendo conto che forse Jasmine può dare un’impressione meno positiva di Esmeralda, ma ho cercato di attenermi il più possibile alla Disney…da una parte abbiamo una zingara matura e indipendente, dall’altra una principessa adolescente che ha sempre vissuto da reclusa. In questo caso, credo che sia normale che i modi di agire e reagire siano diversi.
Ora, ho bisogno di un vostro consiglio…quando avrò terminato Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast, che peraltro è agli sgoccioli, pensavo di iniziare un’altra AU ambientata in una Storybrooke senza magia, con protagonisti: Rumbelle, Frankenwolf, Stable Queen, Hunter Swan, Snowing, più Ashley/Sean, Sleeping Hook, Aurora/Filippo aggiungendoci anche Esmeralda, Jasmine/Alì, Robin Hood/Lady Marian (che probabilmente sarò l’unica a questo mondo a scippare, ma quelle due scene scarse in cui si sono visti insieme mi hanno fatta sciogliere come ogni burro che si rispetti si scioglie) e, se LadyAndromeda e parveth89 mi concederanno i diritti, mi piacerebbe inserire anche Lily King e Ethan Cooper, più Michelle/Jefferson.
Che ne dite? L’idea vi piace o devo smettere di rompere le scatole a voi del fandom e darmi all’ippica?
Ciao, un bacio,
Beauty

  
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