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Autore: _eco    07/07/2013    7 recensioni
[Pre-Hunger Games] [Peeta Mellark (con la partecipazione di Katniss u.u)]
Sono tre in famiglia, giusto?
Come se non lo sapessi.
Il pane dovrebbe bastare per un giorno, forse due, se lo razionano bene.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ehilà! Ho provato ad immaginare i pensieri di Peeta, quando lancia il pane a Katniss.
Fatemi sapere cosa ve ne pare. Sono aperta a consigli e critiche, purché siano costruttive ed espresse in maniera civile.
Buona lettura ai più coraggiosi! :)
S.

Squirrels girl
-la ragazza degli scoiattoli.


- Sei un buon a nulla! Guarda quanto pane hai bruciato! -.
Mi sputa addosso queste parole. Disgustata. Sprezzante. Schifata, direi. E le accompagna con un ceffone che mi colpisce alla tempia sinistra. Per uno o due secondi barcollo, e il fatto che stia piovendo di certo non mi aiuta a riprendere il controllo del mio corpo, sbilanciato.
- E’ buono per darlo ai porci. – sbotta mia madre, lasciandomi fra le mani i tre panini che ho accidentalmente lasciato troppo tempo dentro al forno. – Degno figlio di un fornaio. – sbuffa, seccata, come se fossi un peso e nient’altro.
Poi rientra dentro.
La pioggia è incessante, eppure ai maiali non sembra importare. Più pioggia, più fango. E i maiali sono contenti.
Spezzo un pane, che ha la crosta del tutto annerita. Ne consegue che le mie dita e la mia maglia bianca si macchiano di fuliggine. Lancio la prima metà a caso, dentro il recinto.
I maiali grugniscono, ed è il massimo del ringraziamento che potrei ottenere da loro. Mi libero anche di ciò che rimane del primo pane.
Mi volto verso la porta sul retro, e mi accerto che mia madre non sia ancora lì a spazzare fuori la polvere e i residui di mollica e farina. Pulisce sempre, incessantemente. Ma è sempre meglio che usi quel bastone per spazzolare i pavimenti che non per sbattermelo in testa. Alle sue botte non rispondo mai, a quelle di mio padre raramente.
Devo ringraziare il cielo che i miei fratelli non mi picchino. Con loro ho una sorta di tacito accordo: silenzio, indifferenza, ma almeno niente pugni e schiaffi. Ce ne sono già in abbondanza, per noi. I figli del fornaio presi a bastonate. E chi potrebbe mai sospettarlo? Mia madre potrà anche mostrarsi rozza e scostante in pubblico, ma nessuno arriverebbe mai ad immaginare che sia capace di mollare sberle ai suoi adorati figli. E mio padre è uno che non parla quasi mai: borbotta o grugnisce, ma agli occhi dei clienti è innocuo.
Adesso rivolgo tutta la mia attenzione all’ombra abbarbicata ad un albero, cinque o dieci metri più in là. Le gocce d’acque, che scendono a catinelle, rendono la figura ancora più frammentata, ma quando sono uscito, circa un quarto d’ora fa, per recuperare un sacco di tela dentro cui gettare gli avanzi, l’ho riconosciuta quasi subito.
Mi preoccupa che sia ancora lì, dopo almeno venti minuti, ma sono felice che sia rimasta, perché è per lei che mi sono beccato il ceffone.
Spezzo un altro pane, lo getto a caso, e proprio mentre il mio braccio ritorna molle lungo il corpo, mi accorgo che l’ombra ricambia la mia attenzione.
Ha lo sguardo impaurito, disperato, stanco. I suoi occhi guizzano di qua e di là ad una velocità che non riesco a seguire. L’albero. Gli altri alberi. L’insegna della panetteria. La stradina che si scorge poco più in là, che porta al Giacimento. Di nuovo l’albero. Ma poi tornano fissi su un punto: me.
I maiali divorano anche il resto del secondo pane, che ho lanciato poco fa, senza farci caso.
Il terzo l’ho ancora in mano, e non ho intenzione di darlo alle bestie. E’ il più morbido, ma pur sempre annerito. Credo sia commestibile. L’ho bruciacchiato appena, in modo che mia madre lo ritenesse comunque da buttare.
Stavolta non posso permettermi di fare un lancio impreciso. Voglio che le arrivi dritto fra le mani, al massimo ad un metro di distanza da lei, in modo che debba solo allungarsi un po’ per prenderlo. E poi voglio che si porti dietro la minor quantità di fango possibile, perché è vero che dovrà comunque grattar via la parte annerita, ma deve anche mangiarselo, quel pane.
E’ finito dritto in una pozzanghera, ma l’ombra non se ne cura.
Striscia sul terreno, rapida come un furetto. Alla luce della luna, che filtra dalle fronde sotto cui ha trovato un precario riparo dalla pioggia, le sue dita sembrano stecchini irrigiditi, la mano è la metà della mia.
Indossa un mucchio di stracci combinati alla meno peggio come una sorta di mantella, ma è troppo piccola per lei, che è comunque molto minuta. Cerca sempre di stirare gli angoli di stoffa per coprirsi meglio sia spalle che braccia, ma adesso si preoccupa soltanto di scrostare dal fango il pane e ripararlo dalla pioggia, con quella stessa mantella logora.
- Peeta! –
La voce di mia madre esige che entri immediatamente. Con la coda dell’occhio, scorgo l’ombra mettersi in piedi a fatica, e affondare le scarpe nel fango, verso la strada che conduce al Giacimento.
Non ha ringraziato, ma è un bene, in fondo, perché mia madre avrebbe sentito e si sarebbe fiondata fuori.
Rientro. Mia madre mi mette in mano il sacco di tela pieno di scarti. Presumo che dovrei buttarlo, perché non l’ho ascoltata mentre mi impartiva l’ennesimo ordine.
Sono tre in famiglia, giusto?
Come se non lo sapessi.
Il pane dovrebbe bastare per un giorno, forse due, se lo razionano bene.
Carico il sacco sulle spalle, ed esco, stavolta dall’ingresso principale, perché i cassonetti dell’immondizia sono schierati lungo la strada che porta al Giacimento.
Mi guardo intorno: c’è un’ombra, in lontananza, che barcolla, le ginocchia molli, la stoffa del vestito smossa dal vento, le spalle lievemente curve, ma ogni tanto si dà una spinta energica che parte dal tallone e si ripercuote sulle gambe magre.
La ragazza degli scoiattoli si allontana piano piano. E il ragazzo del pane la osserva tornare a casa.

 

  
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