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Autore: Giamo    11/07/2013    1 recensioni
Un uomo, un semplice operaio; una scatola: un segreto arcano e pericoloso.
Genere: Dark, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA SCATOLA

 

Era una notte nevosa e fredda, quella in cui Gunnard fu inviato a ricevere quel pacco, all’aeroporto di Oslo. Quella era una notte ostile all’uomo, lo si percepiva facilmente. Gunnard lavorava per un imprenditore edile americano che di nome faceva Smith, il quale, una volta arrivato in Norvegia, aprì decine di cantieri e di scavi per cercare reperti antichi. Cosa cercasse in realtà nessuno lo sapeva, chi si interessava non capiva e ben presto si discostava. Gunnard era un operaio di un cantiere nei pressi della Lapponia, un semplice operaio, triste e solo, senza amici, senza famiglia, senza parenti. Un uomo che non sarebbe stato rimpianto se fosse morto.
Gunnard partì appena ricevette la chiamata del suo capocantiere, il braccio destro di Smith. Il giorno dopo la partenza, alle 7.00 della sera, era all’aeroporto della capitale, era stato mandato direttamente sulla pista di atterraggio poiché era lì che il suo pacco lo aspettava. A consegnargli la scatola c’erano due omoni ben vestiti, tutti in tiro: impermeabile, giacca, pantaloni, scarpe e cravatta erano neri, soltanto la camicia era bianca. L’operaio riusciva a stento a trattenere l’imbarazzo, era impacciato, non sapeva come comportarsi, ma gli uomini gli diedero un aiuto non parlando, giacché dissero soltanto ‘prego, questo è il pacco, lo porti in cantiere e lo consegni al suo capocantiere: penseranno altri a tutto il resto.’ e a Gunnard questo andava bene, doveva consegnare un semplice pacco e avrebbe ricevuto una paga per il disturbo.
Intanto il tempo si faceva tempestoso ed anche il pick up di Gunnard faceva fatica, nonostante avesse le catene, ad andare avanti. Decise quindi di fermarsi ad un’area di servizio dell’autostrada, aspettando miglioramenti meteorologici, che non sembravano arrivare. Nell’area di servizio era presente anche un motel, dove l’operaio decise di passare la notte col suo pacco. Quel motel non era il massimo dell’igiene, non era una struttura ben fatta e neanche buona: in poche parole quell’edificio cadeva a pezzi. Gunnard entrò  nella reception dove non trovò nessuno e, dopo aver suonato il campanello e chiamato invano per qualche minuto, arrivò un ragazzo sulla trentina che, riposto l’ombrello rosso nel portaombrelli, si dedicò al suo cliente dandogli subito la sua stanza e, quando Gunnard vi entrò, capì che quel motel era una struttura decisamente fatiscente: vernice scrostata, intonaco caduto, la muffa che mangiava avidamente le mura, letto in fin di vita, il bagno con i sanitari a pezzi.
Erano le 11.00 di sera e il tempo era il solito che si vedeva da un giorno e mezzo con neve grandine e strade ghiacciate. Gunnard s’apprestava a coricarsi, riponendo la scatola commissionatagli sul comodino al fianco destro del letto, in modo che potesse controllarla; cominciò quindi a spogliarsi. Mentre si metteva in tenuta da notte più volte rivolse l’occhio al fardello su quel dannato comodino: era sempre lì, fermo, con la scritta ‘fragile’ stampata su un lato e gli occhi di Gunnard puntati su di esso. Il custode del fardello era ora pronto per dormire e nel silenzio risuonò la sveglia del suo orologio da polso, che segnava le ore 00.00. Era ora di affidarsi alle braccia di Morfeo, ma l’operaio s’era posizionato davanti al comodino: davanti al pacco, davanti alla scritta.
E lo guardava. Lo fissava. Il tempo andava avanti inesorabilmente, non si fermava ma Gunnard voleva sapere. Una delle poche cose che gli erano state dette dal capocantiere è stato un esplicito divieto di sapere cosa quel peso fosse. Ma Gunnard adesso era curioso, voleva  vedere, voleva toccare ed era smanioso. Iniziò allora a camminare avanti e indietro per la stanza, una questione di nervosismo che lui non era in grado di sopportare. Cosa fare? Alzare o non sollevare quel coperchio? Per stare più tranquillo si sedette sul letto, ma non era capace di calmare la sua voglia di sapere. Giaceva vicino al suo incarico, si dondolava leggermente avanti e indietro, si mordeva le unghie, muoveva febbrilmente le dita, sudava, non sapeva cosa fare, aprire o non aprire, vedere o non vedere, scoprire o non scoprire quel maledetto contenitore? Era un semplice operaio, il lavoro era tutto quello che aveva, avrebbe potuto perderlo; ma era solo una sbirciatina quella che voleva, cosa avrebbe potuto mai causare?
S’era arrivati ad una fase di stallo, il carico era sempre immobile sul mobiletto, Gunnard era combattuto e cercava di nuotare con affanno in un mare di dubbi che gli otturavano la mente. All’improvviso decise ed ebbe il coraggio di gettare lo sguardo oltre il cartone, vedendo. Nella scatola c’era una tavoletta, all’apparenza antica, in caratteri sconosciuti; allegata ad essi notò la presenza di un opuscolo nel quale era scritta la leggenda e la pronuncia di quei grafemi arcani. La tavoletta era in argilla nera e i caratteri erano incisi, sembrava una scrittura cuneiforme. Ma Gunnard era ancora più curioso e voleva ancora capire cosa quella tavoletta fosse e di cosa parlasse. Rimase in qualche modo stupito di questa scoperta, si aspettava un reperto sì importante, ma mai si sarebbe aspettato una tavoletta arcaica. Dopo aver dato una lunga occhiata alla tavola incisa, dopo averla maneggiata e osservata, Gunnard passò a prendere l’opuscolo, grazie al quale lesse i fonemi di ciò che sopra la piccola lastra di argilla era stato inciso. La lingua pareva rozza all’orecchio, con una sua particolare musicalità e gli accenti spostati alla fine: sembravano formule magiche.
Intanto il tempo passava, oramai non aveva più la concezione dell’orario, guardò l’orologio di  sfuggita e gli sembrò che fossero circa le 03.35 di mattino, ma non gli interessava, preferiva conoscere perché era attratto in maniera maniacale da quelle formule che non aveva mai sentito o mai visto, una cosa forse troppo grande per quell’omuncolo di poco conto. Ma voleva scoprire e dunque perseguitò nella recitazione e più andava avanti più le cose intorno a lui cambiavano: dalle finestre si intravedeva che la tempesta si riempì di fulmini più che di neve o grandine, dai vetri entravano grandi spifferi d’aria dovuti dal vento, la terra fuori cominciava a creparsi, il cielo si faceva scuro sopra le nubi a causa di una grande nebbia nera.
‘…Hassadh rothgadù troikà; Hassadh rothgadù troikà, Hassadh rothgadù troikà’
Il suolo continuava a spaccarsi sotto le scariche elettriche dei fulmini.
‘Natr-a-ddum, ich lj bich, barad-addàt; barad-addàt iyloé!’
Il terreno si dilaniava e si squarciava sotto di lui, l’aria si faceva densa intorno al motel e in un botto le finestre si schiantarono frantumate dalla forza della nebbia nera che spingeva verso l’interno, per andare a raggrupparsi al centro della stanza, generando un forte vento. Gunnard era terrorizzato, si guardava intorno instupidito senza avere l’idea di cosa fare, gli occhi celesti erano sgranati tantoché quasi uscivano dalle orbite, la bocca era spalancata come per urlare ma un nodo alla gola impediva ai suoni di uscire; respirava a fatica e la sua vescica non resse lo spavento. Non riuscì a reggersi in piedi e si appoggiò al comodino, facendo cadere la lampada a terra; nello stesso momento non riusciva a togliere gli occhi di dalla nebbia nera che s’addensava nella camera: col passare dei secondi assumeva sempre più una forma ben precisa, definita. Il vento vorticoso diminuiva mano a mano che la figura si delineava: era un mostro fatto d’ombra, soltanto due occhi bianchi e vitrei si distinguevano dalla massa nera e densa che costituiva il suo corpo. L’essere evocato dalla formula che la tavoletta riportava s’era totalmente formato: stava in piedi dritto di fronte a Gunnard, tutto nero e dal corpo indefinito che fluttuava a mezz’aria; con gli occhi bianchi fissava l’uomo e ne tirava via la linfa vitale: il corpo dell’operaio si rinsecchiva, si deperiva, invecchiava. I capelli da biondi divennero bianchi e caddero a terra, la pelle si attaccava alle ossa diventando flaccida e rugosa; a questo punto era uno scheletro con un vestito epidermico quasi primo di vita. Poi gli occhi persero la luce e Gunnard s’accasciò a terra morto, mentre dalla bocca uscivano gli organi ridotti in una poltiglia nerastra e si disperdeva sulla moquette verde, lasciando il cadavere in una pozzanghera gelatinosa.
Allora l’ombra si  tagliò sul volto del demone, si tagliò in un sorriso candido e mortifero, un ghigno che quasi ringraziava l’umano per averlo tolto dall’oblio dell’Inferno, per averlo riportato sulla Terra, un luogo ricco di anime da assorbire, ciò di cui il demone aveva bisogno.
Era libero. 

   
 
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