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Autore: Florence    29/01/2008    1 recensioni
-Vedrai un giorno riuscirai a trovare la persona giusta per te- -Ho creduto che quella persona fosse Lana, ma non potevo essere sincero con lei, e poi ho creduto che fosse Alicia, perché era come me- -Ma tesoro, non c’è… non c’è nessuno come te- -Vuol dire che sarò sempre solo- (Obsession, Smallville #314) ... ti stavo aspettando...
Genere: Romantico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Clark Kent
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 22 - Quello che brucia dentro

Pete si alzò prima che la sveglia suonasse, si stiracchiò e guardò fuori dalla finestra: non c’era traccia della pioggia sottile e penetrante della sera prima, sembrava che fosse un giorno diverso, un nuovo corso che avrebbe potuto portare solo eccitanti novità.

Era euforico per la serata precedente e quella notte era stata incorniciata da un bellissimo sogno: lui e la bella Samantha che ballavano abbracciati nei lussuosi saloni del castello di Lex Luthor, mentre un gruppo musicale tra i più ricercati dai licei di tutta America scioglieva nell’aria le note delle sue canzoni più romantiche.

Ripensò alla sera prima, quando finalmente si era deciso a chiederle di essere la sua dama al gran ballo di fine anno: “Tu… sei amico di Lex Luthor, non è vero Pete?”, gli aveva domandato. “Certo, amici da molto tempo!”, le aveva risposto, avvalendosi della proprietà transitiva dell’amicizia che, tramite Clark, lo rendeva di diritto un compare del multimiliardario calvo.

“Allora verrò con te…”, aveva concluso Samantha, e -finalmente- si era avvicinata a lui e aveva posto le labbra rosse e carnose sulle sue, facendolo volare al settimo cielo, mentre il sangue defluiva rapido dal suo cervello… dove ormai non era più necessario…

Indossò una bella felpa griffata, si lavò i denti, e scese in cucina, saltando gli scalini a due a due: quel venerdì sarebbe stata una giornata eccezionale.

Giovedì, 06/05/’05 ore 3:28 PM

Lana rimase immobile sotto l’acqua bollente sforzandosi di pensare ai momenti belli nella sua vita.

La volta che era andata al lago con Chloe ed erano rimaste a prendere il sole finché entrambe non erano diventate rosse come peperoni e la sera, nella stessa stanza, a casa di Chloe, avevano continuato a lamentarsi e a cercare posizioni per dormire che non facessero loro sentire le bruciature, ridendo al buio, come due galline.

La seta dell’abito nuovo sulla sua pelle.

Quando zia Nell le aveva regalato le sue scarpe col tacco, quelle bianche e nere che le piacevano tanto e che provava di nascosto fin da quando era una bambina.

La musica ammaliatrice del Fleur de Lis.

Le gare di atletica, quando aveva vinto la prima medaglia per la corsa ad ostacoli ed era corsa a farla vedere a Whitney, che l’aveva presa tra le sue braccia e l’aveva fatta girare, ridendo felice.

Le bollicine dello champagne che frizzavano sul suo palato, il sapore dolciastro dell’aragosta in bocca.

Il mulino di Chandler’s Field e Clark, che l’aveva accompagnata lassù, anche se soffriva di vertigini, e le risate nel guardarlo scendere tremando, sulla scaletta di metallo così instabile.

La lingua di Jason, che esplorava la sua bocca, appoggiati alla porta del Talon, il rumore della limousine che si allontanava.

Il primo vero bacio con Clark, nel fienile, la sera del suo compleanno, dopo che si era quasi bruciata un dito per accendere le candeline sulla sua torta. Il primo vero bacio, che l’aveva strappata da terra e fatta volare lontano, tra le stelle, stretta a lui; le sue braccia forti e protettive, dove aveva sempre voluto lasciarsi andare.

Le mani di Jason sulla sua schiena, sulla pelle nuda, il brivido che si scioglieva in basso, tra le sue gambe, le sue mani che si insinuavano sotto la sua camicia, a cercare la sua pelle, la bocca a cercare altro baci, il collo reclinato all’indietro, protesa davanti a lui, il suo volto premuto contro il seno, i capelli a solleticarle il petto lasciato scoperto dall’abito elegante.

I cavalli che brucavano l’erbetta fresca accanto a loro, la brezza leggera, l’abbraccio caldo di Clark, seduti per terra, gioendo solo di esser là, finalmente insieme, quando tutto era perfetto, quando nei suoi occhi limpidi poteva rispecchiarsi e trovare solo la sicurezza di un amore puro, conquistato con la pazienza, desiderato con il cuore, in ogni istante, nei sogni di ogni notte.

Il rumore impercettibile della zip del suo abito, che cedeva morbida alle mani febbrili e virili di Jason, il suo sguardo penetrante quando lo aveva allontanato da sé e, da sola, aveva fatto scivolare giù il vestito, provando un brivido mentre la seta strusciava morbida sui suoi seni nudi. Il desiderio ardente che si scioglieva dentro di lei alle sue carezze così intime, al contatto delle sue labbra bollenti. La voglia di essere sua, in quel momento, subito!

Il sollievo di rivedere il volto di Clark: era vivo, stava bene… anche se non era più lui. La guardava diversamente, spogliandola con gli occhi, baciandola con una forza che non c’era, prima che scappasse da Smallville, facendole provare delle sensazioni che non voleva provare, che non era bene desiderare in quel momento. E poi il suo sguardo colpevole e implorante, quando era tornato da lei, per un addio.

La camicia sfilata con la forza, le braccia di Jason che la sollevavano portandola fino al letto, ancora il suo sguardo bramoso, ancora il desiderio che la tormentava, le sue mani che lo tiravano a sé, il suo peso su di lei. L’attimo di paura, l’esitazione e poi di nuovo le gambe intrecciate a lui e una sensazione nuova, che toglieva il respiro. La sua voce spezzata mentre pronunciava il suo nome, mentre lo stringeva a sé, affondando le unghie nella sua schiena, sentendolo tremare forte.

L’ultimo bacio: poco prima che decidesse di andare via, di dimenticarlo. L’ultima speranza, l’ultima possibilità di essere sincero. L’ultima rosa abbandonata sull’asfalto. Per lei.

La sua voce che ripeteva affannata il suo nome, la stanchezza, il sonno che si impossessava di loro, senza riuscire a darsi una risposta, senza spiegare come avevano potuto essere così imprudenti. L’abbraccio caldo che aveva cercato, un posto sulla sua spalla, un bacio ancora. Poi il sonno che aveva cancellato ogni cosa.

Lana era riuscita a ricordare quasi ogni dettaglio della nottata trascorsa, provò un brivido, sotto la doccia bollente.

Guardò le sue mani, raggrinzite dal troppo tempo sotto l’acqua.

Le lacrime si mescolavano all’acqua della doccia. Chiuse il rubinetto ed uscì, spaventata a morte per quello che aveva realizzato.

Si asciugò velocemente con l’accappatoio e uscì dal bagno, insieme ad una nuvola di vapore profumato. Raggiunse la sua borsetta ed estrasse il telefono, mentre i suoi capelli sgocciolavano per terra.

-Dove sei?-, domandò in ansia a Jason, che le aveva subito risposto.

-Sono qua sotto, nel vicolo…-, la voce corrucciata, come doveva essere il suo volto. Era rimasto lì, ad aspettare che lei lo chiamasse…

-Sali…-

Chiuse la comunicazione e si infilò velocemente delle mutande pulite, un reggiseno di cotone bianco e una tuta morbida. Tamponò i capelli con l’asciugamano e aprì la porta a lui che bussava.

Lo fissò circospetta, cercando parole che non apparissero volgari, che non le ricordassero la Lana che era stata solo poche ore prima.

-Jason… noi due abbiamo…-

-Sì, Lana, sì!-, sbottò lui, lasciandosi cadere sul divano, -Mi pareva fosse chiaro… Abbiamo fatto l’a-m-o-r-e! Non è un concetto così complicato da comprendere!-, faceva sempre così quando si trovava in difficoltà: la interrompeva e diceva ovvietà.

-Sì, ma… come…?-, sperò che capisse che intendeva.

-Come?... Non capisco… in che senso “come”… vuoi che ti racconti i dettagli che mi ricordo? Dunque… cosa vuoi sapere… quando io ti ho aperto il vestito o quando tu mi hai sfilato i pantaloni? Oppure quando…-

-Abbiamo preso delle precauzioni, Jason!-, disse lei, tutta rossa, quasi urlando, sentendosi una scema a fare quella domanda.

Le parole morirono sulle labbra del ragazzo, che la guardò smarrito, senza rispondere.

-Jason…?-, voleva sentirsi dire che sì, avevano usato le precauzioni che servivano.

-Io non… non lo so… temo di no…-, abbassò gli occhi. Non era solo colpa sua, ma si sentiva più colpevole di lei. Forse perché per lui non era la prima volta…

-Temi di no, Jason? Mi stai dicendo che non solo ho perso la mia verginità e mi ricordo appena come, ma che temi anche di avermi messa incinta? Perché tu… tu…-, era chiaramente vittima di un attacco di panico, la sua voce era spezzata, così come i suoi respiri, affannati alla ricerca di aria che i suoi polmoni sembravano non trattenere. La testa come oppressa da qualcosa che le impediva di pensare, un macigno sullo stomaco e, improvvisamente, anche una fitta di dolore tra le gambe. Maledizione!

-Calmati!-, Jason la strinse a sé, premendo la sua testa contro il suo petto: tremava. Tremavano entrambi, in realtà.

Non mischierai il tuo sangue con quello di colei che ha giurato di annientare la nostra famiglia!

Le parole di sua madre risuonavano come un temporale nella sua testa, il suo cuore batteva forte, quello di Lana, piccolo e indifeso, sembrava il cuore di un leprotto, stretto nelle mani di un cacciatore, un attimo prima di decidere la sua sorte.

Si staccò da lui.

-Devo fare qualcosa, Jason… io non posso permettere che la mia vita venga stravolta fino a questo punto!-

Lui annuì e si avvicinò ancora a lei, abbracciandola. La baciò delicatamente sui capelli.

-Perdonami…-, sussurrò.

-Non è colpa tua… forse… forse... doveva accadere-, disse Lana lasciandosi abbracciare, ricordando la volta che lo aveva atteso accendendo mille candele e indossando per lui solo una camicia di seta…

Scosse la testa e poi alzò lo sguardo su di lui, rivedendo lo stesso Jason che aveva incontrato a Parigi, con il quale era stata felice. Si alzò sulla punta dei piedi e avvicinò le labbra alle sue, sfiorandolo appena con un bacio impalpabile, poi lo tirò giù, verso il divano, facendolo sedere e trovando asilo tra le sue braccia con la testa appoggiata sull’incavo della sua spalla, ascoltando il suo cuore tornare calmo.

I primi tuoni, in lontananza, risuonavano cupi e dalla finestra socchiusa della cucina, un soffio di vento più forte portò l’odore della pioggia.

---

-La notte tra mercoledì e giovedì… sono sempre in tempo, no?-, le tremò la voce, ponendo quella domanda all’infermiere al banco accettazioni dell’Ospedale di Smallville. Aveva passato due ore, il pomeriggio precedente, a guardare con Jason su internet quali fossero le soluzioni al loro ‘piccolo’ problema. Si era alzata di buon’ora, cercando di essere la prima, all’ospedale, per accelerare i tempi e per minimizzare i danni.

-Questo tipo di farmaco agisce fino a settantadue ore dopo il rapporto sessuale, signorina, non si preoccupi!-, rispose l’uomo, cercando di tranquillizzarla, ma riuscendo a metterla, se possibile, ancora più a disagio di quanto già non fosse.

-Però, per poterle vendere il Plan B, ho bisogno della prescrizione del suo medico, signorina-

-Certo… capisco… ecco, chieda a lui-, Lana consegnò all’infermiere un pezzo di carta su cui Jason aveva scritto il nome di un medico che aveva contattato la sera prima e che gli aveva promesso, in cambio di alcuni favori oscuri a lei, che avrebbe prescritto il farmaco.

Avevano preso la decisione insieme, una volta affrontate tutte le possibili alternative: la storia della contessa Isobel, la scuola, che ancora non era terminata, e il College, a cui Lana desiderava iscriversi, non potevano passare in secondo piano, di fronte ad un errore commesso, di cui loro due erano solo marginalmente colpevoli.

-Ecco qua…-, disse l’infermiere estraendo dal fax la prescrizione che il medico gli aveva appena inviato, in seguito alla sua telefonata per avere conferma dell’autorizzazione alla vendita del farmaco. Si voltò e ne fece una fotocopia, che consegnò a Lana.

-Vado a prenderle il farmaco-, disse, e scomparve, lasciandola sola al desk.

-Ciao Lana-, la ragazza si voltò: in coda dopo di lei, Lois la salutava da dietro lenti scure, mostrando un sorriso sforzato.

Istintivamente Lana accartocciò la fotocopia e la infilò in tasca. Nessuno doveva sapere di quella storia! Nessuno, tantomeno una persona che stava sotto lo stesso tetto di Clark!

-Lois… che piacere vederti!-, si dette della cretina: non poteva essere un piacere, se l’aveva incontrata in un luogo simile.

-Già… va tutto bene, Lana?-, domandò, perplessa dall’imbarazzo dipinto sul volto dell’amica.

-Certo! … alla grande! E tu? Che ci fai qua?-

Lois alzò le sopracciglia, poi si voltò fingendosi interessata ad alcune brochure sulla vaccinazione antitetanica.

-Questo: mi sono… tagliata con un ferro arrugginito e devo fare l’iniezione di siero antitetanico-, disse con convinzione, quasi esaltata dalla scusa che aveva trovato.

-Oh, poverina… dove ti sei fatta male?-, chiese Lana, scrutando le sue mani.

-Oh… niente… solo un graffietto… al ginocchio…-, disse imbarazzata, -E tu? Che ci fai, qui?-

-Controlli…-, disse Lana, sfoggiando un sorriso smielatamente falso, nel momento in cui tornava l’infermiere.

-Ecco il suo Plan B, signorina Lang. Deve mettere una firma qui: la ditta produttrice rilascia un’informativa da visionare e firmare prima che ne faccia uso. Innanzitutto la mettono a conoscenza del fatto che l'assunzione del farmaco entro le prime 24 ore dal rapporto a rischio ha un'efficacia del 95%, che scende al 58% entro le prime 72 ore. [i](1) Inoltre deve comunicarci tempestivamente qualsiasi effetto collaterale si manifestasse nei prossimi giorni, quali nausea, vomito, perdite ematiche e cefalee. Ecco… firmi qui…-

Lana scarabocchiò il suo nome con mano tremante e non si mosse, anche dopo che l’infermiere si era allontanato e tra le sue mani c’era il farmaco che doveva prendere immediatamente.

Lois aveva sentito tutto e lei era come impietrita, senza riuscire a voltarsi e andare via.

-Ehm…-, tossicchiò appena Lois, alle sue spalle, poi si spostò e le si mise davanti.

-Tieni, a me non serve-, disse passandole una bottiglietta d’acqua ancora sigillata e sfilandosi gli occhiali da sole. Aveva gli occhi stanchi, di chi ha passato le ultime ore a piangere. Proprio come lei.

Le due ragazze si allontanarono dal banco accettazione e si sedettero in una saletta d’aspetto poco distante, vuota. Rimasero per un po’ in silenzio.

Lana rigirava tra le sue mani il fagotto di carta al cui interno si trovava la confezione del farmaco a cui aveva pensato tutta la notte, da quando la sera prima aveva preso la decisione e Jason si era dato da fare per procurarle la ricetta. Lois, invece, guardava fisso un punto per terra davanti a sé, in silenzio.

Dopo un po’ si decise a parlare.

-Credo che sia il caso che ti decida a prenderla, Lana… capisco come ti senti, ma se aspetti ancora, potresti pentirti della tua esitazione…-

-Hai ragione-, rispose con voce roca. Mai in vita sua avrebbe pensato di fare una conversazione simile con Lois. Non l’aveva mai sentita come un’amica. Lois era la cugina di Chloe, stop.

Cercò di aprire con mani tremanti la bottiglia d’acqua che le sfuggì di mano.

-Ecco-, disse Lois stappandola, dopo averla raccolta e porgendogliela.

-Grazie…-, Lana aprì la scatolina rosa e celeste e portò la pastiglia alle labbra. Poi si decise, la inghiottì e bevve un sorso d’acqua. Si asciugò la bocca con il dorso della mano e si voltò lentamente verso Lois.

-Ora credo che ti convenga stare tranquilla per qualche giorno… forse avrai dei doloretti… al fegato più che altro…-, Lana la guardò pensierosa.

-Ne parli come se anche tu…-

Lois scosse la testa.

-No, non io… ma qualcuna che conosco… Anche se in realtà, quando mio padre trovò la scatola della medicina, me ne presi la colpa io…-, sospirò, lasciandosi andare ai ricordi, scotendo ancora il capo, senza capire come fosse possibile che gli affetti più profondi svanissero a quella maniera.

-Tua sorella?-, domandò Lana.

-Già… ma è storia passata!-, riacquistò il suo piglio deciso, indossando ancora la maschera che sperava avrebbe nascosto la sua stanchezza e le sue preoccupazioni, -Dunque… spero ne sia valsa la pena…-, si lasciò sfuggire, velando le sue parole con quel sarcasmo che non riusciva quasi più a scrollarsi di dosso.

Lana si accigliò, offesa dalla domanda.

-Sì, Lois, ne è valsa la pena-, disse alzandosi e, con un sorriso di commiato, mentendo, se ne andò.

Lois alzò le sopracciglia, sospirò e si convinse che aveva parlato a Lana a quella maniera solo perché anche i suoi nervi stavano per cedere. Inforcò ancora gli occhiali scuri, riprese la cartellina che aveva in mano, e si rimise in coda al banco accettazioni, fingendo di essere spavaldamente sicura di sé.

Quando uscì dall’ospedale erano le quattro e mezzo passate. Lois avanzò a grandi passi fino alla sua auto, aprì la portiera e buttò il fascicolo che le avevano appena consegnato sul sedile di dietro, sopra ad altri fogli simili.

Maledizione…!

Inspirò profondamente e abbassò il parasole, per guardarsi nello specchietto: sì, era decente.

Girò la chiave nel quadro e partì.

Doveva vedere Martha Kent.

Guidò rapidamente, infischiandosene dei controlli della velocità e della sua patente, già più volte finita in mano ai vigili della strada. Lasciò che il vento entrasse dai finestrini e scompigliasse i suoi capelli, ferisse i suoi occhi e le desse una scusa per mentire anche a se stessa, dicendo che non stava piangendo.

Sterzò facendo sgommare l’auto ed imboccò il vialetto dei Kent, rallentando. Si tolse gli occhiali da sole e passò un po’ di cipria sul viso, per coprire le occhiaie.

Uscì dall’auto e prese tutte le sue carte.

Indossò un bel sorriso spensierato ed entrò annunciandosi con la voce.

-Toc toc!-

Clark era in cucina, con la testa infilata dentro il frigorifero alla ricerca di qualcosa da sgranocchiare o da bere. Riemerse e la vide, mentre Martha li raggiungeva arrivando dal piano di sopra.

-Lois, che bello rivederti qui!-, le disse avvicinandosi per abbracciarla, poi fermandosi un istante e guardandola a bocca aperta.

-Lois! Che… che è successo ai tuoi capelli? Hai infilato la testa in una pozza di petrolio?-, ridacchiò Clark, addentando un pezzo di Apple Pie avanzato. Si era sforzato di essere provocatorio come al solito.

-Sai, Clark, ho sempre voluto assomigliare a mia madre: lei aveva i capelli chiari, come mia sorella ed io… beh, volevo essere come lei. Ora… beh… ora so di essere più simile a mia madre di quanto volessi e… ho deciso che è tempo di tornare ad essere solo Lois Lane. Almeno per un po’…-, lei, invece, aveva abbandonato ogni tentativo di sarcasmo con lui, dopo quello che si erano detti la sera prima. Aveva cercato di sorridere, mentre parlava, ma era stato duro riuscirci.

Martha chinò appena la testa, lasciandosi sfuggire per un istante un’espressione addolorata ed impotente. Poi inspirò e tornò a sorridere.

-Apprezzo molto la tua scelta, Lois: sei proprio bella con i capelli neri!-, disse con voce il più salda possibile.

-Grazie! E pensare che stamattina Lana non se n’è neanche accorta!-, alzò le spalle, sforzandosi di mantenere un’espressione divertita.

-Hai visto Lana? Al Talon, immagino…-, domandò Clark, buttando giù un bicchiere di latte freddo.

-No, in realtà no… comunque… allora, Smallville, ti piaccio con questo nuovo look?-, scherzò, sapendo che lo avrebbe messo in imbarazzo e gli avrebbe servito su un piatto d’argento l’occasione per una delle sue battutine, che in quel momento avrebbe fatto bene a tutti.

-Sì… stai bene così-, disse Clark sorridendo, -Ora devo andare-, passò vicino a lei e le sfiorò la spalla con una mano, salutandola.

-Grazie Smallville…-, bisbigliò Lois quando già Clark era uscito di casa, senza trattenere un timido sorriso che era fiorito sulle sue labbra. Inatteso.

Giovedì 06/05/’05 ore 5:45 PM

A Metropolis si era sbrigata molto in fretta. Non c’era molto da dirle, così, quando aveva abbandonato lo studio medico, era ancora presto. Era rimasta indecisa sul da farsi per interminabili minuti, seduta sulla panchina del parco cittadino dove sua madre la portava spesso e dove lei, crescendo, aveva portato sua sorella, intrattenendosi con i ragazzini che andavano sugli skateboard e tenendola d’occhio mentre lei giocava con le sue barbie, seduta sull’altalena.

C’era una fontana, adesso, al posto della pista per gli skater, e una nuova altalena in metallo al posto di quella di corda e legno. Erano passati quasi dieci anni e tutto, tutto era cambiato.

Aveva provato a chiamare Lucy sul suo cellulare, contando mentalmente che ore fossero in Europa.

-Allò!-, la voce pimpante della ragazza, per un attimo, l’aveva fatta desistere da quello che stava per chiederle.

-Ciao sorellina, sono io…-

-Ciao Lois! Come va?-

-Lucy io… ho bisogno del tuo aiuto…-, poi le aveva chiesto quello che le pesava così tanto.

Guidando verso Smallville, Lois cercò di trattenere il pianto: sua sorella le aveva attaccato il telefono in faccia e, dopo, aveva rifiutato le sue telefonate. Solo un sms, che bruciava come acciaio infuocato su una ferita aperta:

E’ un problema tuo.

Non chiamarmi più.

Buona fortuna.

Imboccò la statale che portava dritta alla fattoria dei Kent bypassando il paese e sperò che Martha fosse lì, per sfogarsi con lei, che era divenuta la sua unica ancora di salvezza mentale su quella terra.

Fermò il motore e corse a bussare. Le venne ad aprire Clark, scuro in volto come se avesse preso un’insufficienza a scuola.

-Ciao. Dov’è tua madre, devo parlarle-, disse velocemente, non aspettando di trovare il ragazzo. La sua agitazione tradì l’apprensione che cercava di nascondere.

-Non c’è-, disse lui seccamente, senza farla entrare.

-Ehi, Smallville! Se mi fai tutte queste feste potrei anche prendere una pallina e lanciartela perché tu me la riporti scodinzolando!-, lo fulminò.

-Mi stai dando del cane, Lois? -, la guardò minaccioso.

-Per l’esattezza ti sto dando del cane rabbioso, ma con una spiccata propensione a capire al volo le battute-, ricambiò il suo sguardo: forse litigare con lui le avrebbe fatto bene lo stesso, pensò falsamente.

-Allora sono un cane rabbioso e, ti avverto, oggi potrei anche mordere sul serio! Sono solo, qua, mia mamma non c’è e quindi penso che tu possa andare-, Lois accusò il colpo, scoprendosi dispiaciuta per quella risposta, per il tempo necessario a riprendere il suo controllo.

-D’accordo, Smallville. Hai detto bene: tua madre non c’è e tu non servi proprio a nulla. Mi sono già sorbita il “Clark cattivo” quando ti ho raccattato tutto nudo in mezzo a quel campo e non ci tengo proprio ad assistere ad un’altra scena simile. Me ne vado-, si voltò abbassando la maniglia della zanzariera, con una ferita in più di quelle che già aveva collezionato quel giorno sul suo cuore.

-Aspetta Lois…-, la sua voce era diversa, molto più calma, pentita per il tono appena usato.

Le mise una mano sulla spalla e, delicatamente, la fece voltare.

-Credo di… dovermi scusare con te… Ha ragione mia madre: questo è un periodo incasinato per me e non so come mai l’unica persona con la quale io riesca a sfogarmi sei tu… Quando mi hai trovato in mezzo a quel campo mi hai aiutato senza chiedermi nulla. Avresti avuto più ragione di chiunque altro a impicciarti dei miei affari e invece… Io lo so, Lois, che c’è qualcosa che non va, me l’ha detto mia mamma che stai male per qualcosa e questo ti rende ancora più scontrosa, ma non sarò io a chiederti che hai, a scavare nella tua privacy… Se vorrai, sarai tu a parlarmi. Sono stato un cretino a stuzzicarti senza alcuna ragione e ora… Scusami… soltanto questo…-

Lois lo guardò aggrottando le sopracciglia, poi scacciò la sua mano dalla sua spalla.

-Sono il tuo punching-ball, praticamente?-, chiese seria, ma Clark non poté fare a meno di sorridere alla sua domanda.

-Credo che… sì, ti ho considerata come il mio punching-ball… non so come mai, ma quando ci sei te io…-

-Non scusarti, Clark… è anche merito mio se le cose tra noi vanno in questo modo… Sono la prima a dovermi scusare per il mio atteggiamento, ma con te non riesco ad essere in altro modo se non…-

-Acido!-

-Acida!- (2)[ii]

Parlarono insieme e abbassarono entrambi lo sguardo, sorridendo imbarazzati. Lois colpì con un pugno leggero Clark sul braccio.

Si guardarono senza parlare, senza più sorridere, scavando in profondità dentro le loro anime che non erano mai state così vicine, eppure così lontane, separate da segreti troppo pesanti per essere confessati.

Il timido ragazzone di campagna che riusciva a tirare fuori le unghie solo contro di lei, sotto sotto, era un uomo molto più complesso di quello che appariva, con tanti problemi che affastellavano il suo cuore e velavano il suo sguardo. Lois provò come una fitta dentro di sé e per un istante abbassò il volto, scoprendo ancora la guardia, mostrando quello che si agitava nel suo cuore. Rialzò lo sguardo verso di lui e gli permise di guardare quanta sofferenza ci fosse dentro di lei. Poi gli sorrise, con occhi tristi, si voltò ed uscì di casa.

Prima che le lacrime la colpissero proprio davanti a lui.

---

Clark aveva chiaramente capito che, qualsiasi cosa avesse turbato Lois la sera prima, quel pomeriggio era più viva che mai e le bruciava nel petto togliendole anche quell’aria da superdonna che sfoggiava sempre, quando erano insieme. Si era tinta i capelli: non era una cosa normale, per lei, anche se si trattava di tornare al suo colore naturale.

Non era una cosa normale farlo adducendo una motivazione così valida.

Non pensava che anche Lois avesse i capelli neri, come Lily e Lana…

Almeno era contento di essere stato sincero, con lei, facendole un complimento.

Qualunque cosa nascondesse Lois, sarebbe stata lei a parlargliene, perché lui non avrebbe violato la sua privacy pretendendo che le svelasse il suo segreto.

Fermò la Dodge sulla statale, poco oltre il recinto della sua fattoria, e chiamò Lily, ma il telefono di casa era sempre occupato. Il cellulare, invece, era spento. L’aveva intravista quella mattina, a scuola, ma le era parsa molto confusa, e non aveva voluto imporle la sua presenza.

-Chiamami tu, quando te la senti-, le aveva detto ed era tornato a casa, lasciando a Pete il suo lavoro al Torch.

Scosse la testa e mise via il cellulare: sarebbe andato da Lex, allora, per capire cosa lo avesse spinto ad offrire la sua preziosa magione agli unni del Prom Ball. Aveva deciso di non dare ascolto alle parole di Lionel: forse era una mossa avventata, ma Lex non aveva dato alcun segno di interesse verso Lily, né si era visto molto in giro, negli ultimi tempi, non poteva essere una minaccia…

Si fece annunciare e lo trovò, come al solito, nel suo studio. Sorseggiava qualcosa girato verso la finestra.

-Quale onore, Clark! Pensavo di aver addirittura dimenticato il tuo nome, tanto è il tempo che non mi vieni a fare visita qua al castello!-, si voltò verso di lui aprendo le braccia in segno di accoglienza e, non appena lo vide, Clark aggrottò le sopracciglia e si avvicinò a lui.

-Che è successo, Lex? Chi è stato?-, aveva un taglio sul sopracciglio sinistro e metà volto gonfio.

Lex prese un altro sorso di liquore e un’espressione di dolore si dipinse sul suo volto.

-Vodka: brucia da impazzire, ma aiuta a risarcire la ferita-, disse, indicando il labbro solcato da un altro taglio.

-Credevo che in questi casi si usassero dei punti… Ma non mi hai ancora risposto: chi ti ha fatto questo?-

Lo afferrò delicatamente per le spalle e lo fece voltare verso la luce, per guardare il suo volto sfigurato.

Lex ridacchiò, allontanando le sue mani e versandosi altra vodka.

-Se te lo dicessi non mi crederesti… o forse sì… ?-, non era la prima volta che Jason Teague affondava i suoi pugni sulle loro facce, anche Clark ne era stato vittima, qualche mese prima.

-Che cos’hai combinato, stavolta, Lex?-, il tono della sua voce era velatamente critico, pur preoccupandosi per il suo amico.

-Forse me le sono anche meritate, sai? Ma ho picchiato duro anch’io: credo che… sia io che te siamo stati vittime di un furto… forse questo ha risolto una volta per tutte una probabile lite futura tra noi, ma… ormai alea iacta est-, alzò il bicchiere e buttò giù la vodka.

-Ma cosa stai dicendo, Lex? Sei ubriaco…-, Clark afferrò la bottiglia: mancavano solo poche dita di liquido.

-No, non sono ubriaco… lascia perdere quello che ti ho detto…-, rise da solo, diabolicamente.

Giovedì 06/05/’05 ore 10:20 AM

Jason entrò nello studio senza farsi annunciare. Aveva lo smoking che gli aveva procurato lui la sera prima, senza il cravattino ed un’aria decisamente molto poco amichevole.

-Luthor! Come hai potuto fare una cosa simile?-, tuonò sbattendo una mano sul pianoforte a coda.

-Excusez-moi messieurs, je dois vous demander de terminer notre rencontre dans un autre temp… (2) [iii], disse Lex in francese fluente a due distinti signori con cui stava trattando alcune questioni economiche, mantenendo il suo stile impeccabile.

Attese che i due fossero usciti scambiando con loro qualche altro convenevole e poi si diresse verso il mobile bar. Versò dello scotch ed offrì il bicchiere a Jason, che lo colpì con una mano e lo buttò per terra.

-Cosa significa questa presa in giro, eh? Lex?-, ringhiò mostrandogli il cellulare sul cui schermo appariva il messaggio che gli aveva appena inviato, -Ci hai drogati?-

Lex lo guardò perplesso, non capendo bene cosa intendesse Jason.

-Non pensare di dire altre cazzate, bastardo!-, Jason lo prese per il bavero e lo spinse verso il muro.

-Tu non sai cosa hai fatto… tu non…-

-Lana sarà stata più sciolta, grazie al mio aiuto, no? Ti sei fatto dire se sa dove sono le pietre?-, Jason lo colpì forte alla bocca. Subito il sapore dolciastro e metallico del sangue invase la bocca di Lex, che si portò una mano alle labbra.

-No! Non mi sono fatto dire dove sono le pietre! Me lo dovevi dire che avevi intenzione di drogarla, maledetto! Pensavi che non sarei riuscito a farla parlare senza il tuo aiuto??-, lo strattonò ancora. Aveva gli occhi iniettati di sangue e il mal di testa non gli dava tregua. Abbassò la guardia e Lex lo colpì, facendolo cadere per terra, tenendosi una mano premuta sull’occhio offeso.

-Penso proprio di no… Invece di ringraziarmi, entri in casa mia e mi colpisci! Chi ti credi di essere, Jason?-

-Io ho… bevuto il suo champagne, ieri sera-, disse alzandosi e riprendendo una posizione di difesa.

-Hai bevuto il…? Cosa…?-, la destra di Lex, sollevata in difesa, cadde giù ed un’espressione confusa si dipinse sul suo volto.

-Ti meravigli? A volte capita, tra fidanzati, di bere uno dal bicchiere dell’altra!-, si avvicinò ancora e lo spintonò verso il tavolo di cristallo. Era una provocazione, quella frase che aveva detto, -E capita anche di lasciarsi andare, specie se si è bevuto champagne corretto all’ecstasy!-

-Cosa vuoi dire?-

-Lo sai bene che voglio dire! Mi hai visto uscire da casa sua poco fa, è stato allora che mi hai mandato questo dannato messaggio!-

Lex aggrottò le sopracciglia.

-Cosa ci facevi da Lana di prima mattina?-, sembrava onesto. Sfacciatamente onesto.

-Dannato deficiente!-, lo colpì più forte, sentendo male alle nocche della mano che sbattevano contro la sua fronte dura, -Non doveva succedere così tra noi! E’ tutta colpa tua se Lana perderà la fiducia in me!-

Lex lo allontanò spingendolo con forza.

Stava iniziando a capire, forse… Non era quello che doveva accadere… non a Lana, alla sua Lana!

-Cosa le hai fatto? Bastardo?-, urlò in faccia a Jason, colpendolo con un gancio allo stomaco e mozzandogli il respiro.

-Non cosa le ho fatto, ma cosa ci hai indotti a fare!-, la voce strozzata dal dolore, rabbiosa.

-Se le hai torto un solo capello io…-, Jason si lasciò scappare una risata amara.

-Ci sono andato a letto! Sei stato tu a farmelo fare, tu e la tua droga! Non doveva accadere così… lei era…-

Lex rimase immobile un istante, le orecchie gli ronzavano per il colpo subito e per il cazzotto di Jason.

Lana, la sua Lana…

-Maledetto!-, Lex si scagliò contro Jason e lo colpì con un colpo scomposto alla bocca, dove sapeva per esperienza che faceva davvero male, ma il ragazzo fu svelto e ricambiò con un calcio in un ginocchio.

-Ti sei preso qualcosa che non era per te! Maledetto!-, Lex era fuori di sé, più di quanto Jason potesse immaginare. Era il momento di metterlo ko.

-Oh, sì, invece! Lana è stata molto convincente, mentre mi chiedeva di fare l’amore con lei, sai? Non era la prima volta che faceva così, ma il passato non avevamo la droga che ci ha spinto verso questa decisione!-, lo colpì una volta ancora e lo bloccò di nuovo al muro.

-Ho chiuso con te e con il nostro accordo, Lex! Non ti avvicinerai più a Lana, perché io le starò sempre vicino, sempre addosso come dovrebbe fare un fidanzato fedele. Ora non ci sono più incertezze ad impedirci di essere felici insieme: grazie a te! Immagino che anche Clark Kent, se lo sapesse, sarebbe infuriato con quello che ci hai fatto fare, Lex… ma in fondo ti ringrazio, perché mi hai dato modo di avere qualcosa che né tu, né quel bamboccio potrete mai più avere-, lo lasciò e se ne andò, sbattendo ancora una volta la porta in legno e vetro, che tintinnò sinistramente.

Lex, rimasto solo, cadde in ginocchio. Vedeva tutto rosso, gli occhi gli bruciavano e le lacrime si mischiavano al sangue, rendendo il suo volto una maschera scarlatta.

-Mi hai fregato…-, imprecò piano, battendo i pugni a terra: Jason Teague gli aveva soffiato da sotto il naso il suo trofeo, quello che controllava da tempo e che non doveva mai cadere in mani sbagliate.

Clark… un pensiero fugace corse a lui e a quello che Jason aveva detto a riguardo e sorrise diabolicamente, mentre le lacrime scivolavano lungo il suo collo.

-Non l’ho avuta per primo io, ma almeno non sei stato tu, Clark Kent…-

---

Clark guardò Lex perplesso, senza capire a cosa alludesse dicendo che erano stati vittima di un furto: cosa poteva mai esserci che il grande Lex Luthor non fosse in grado di recuperare e che qualcuno potesse portare via a lui, un onesto contadino di provincia?

Vide che Lex abbassava il suo bicchiere e si sedeva sul divano davanti al caminetto. Era il suo modo di archiviare un argomento e anche se Clark avesse voluto indagare oltre, ne era certo, non sarebbe riuscito a strappare dalla sua bocca una parola in più. Decise che non era niente che lo toccasse in prima persona e si sedette vicino a lui.

-Ho saputo che hai offerto il castello per la festa di fine anno… io non riesco a capire come mai… hai idea della devastazione che dei ragazzi della mia età possono fare?-

Lex lo guardò senza espressione, poi sorrise, come a prenderlo in giro.

-E tu hai idea di cosa significhi avere un esercito di inservienti pronti a rimuovere ogni singolo schizzo di vomito di voi ragazzini e mantenere costantemente splendente ogni singolo angolo di questo castello e del parco là fuori?-, vide che Clark lo guardava perplesso da una tale risposta. Tornò serio.

-Io sono il finanziatore della squadra di football, Clark, e la vostra squadra merita una festa degna di tale nome, dopo aver vinto il campionato. Mi pareva il minimo che potessi fare… e visto che la palestra della vostra scuola è disgraziatamente andata in fumo… ho solo deciso di unire le due feste. Niente di più-, allargò le braccia, alzando le sopracciglia.

-E… sarai tu ad incoronare la reginetta della festa?-, chiese Clark ridacchiando, immaginando Lex nel ruolo del cerimoniere della serata. In fondo, l’idea di poter festeggiare la chiusura di un ciclo là, nel palazzo in cui aveva passato così tanto tempo e che tanti altri ragazzi invidiavano, mentre lui conosceva bene, era un’idea stuzzicante.

-Veramente pensavo di comunicare alle organizzatrici che quest’anno voglio che il tono della festa sia più goliardico, che elegantemente formale…-, guardò Clark di sottecchi, godendosi la sua espressione stupita.

-Cosa intendi per… goliardico?-

-Sai, Clark, io non ho mai partecipato al Prom Ball della mia scuola. Ero ad una festa di gala con mio padre, a Parigi, mentre i miei amici ballavano mano nella mano alle ragazze più belle del Kansas… loro si divertivano, ed io ero in doppiopetto ad ascoltare una anziana arpista nel suo salotto buono, circondato da altri pinguini come me e vecchie balene in lungo. Ho sempre sognato una festa più dinamica… meno formale, per intenderci. E questo castello ha già visto fin troppe cerimonie formali-

Clark non sapeva se ridere o preoccuparsi per la salute mentale del suo amico.

-Il comitato delle ragazze ti odierà se proporrai di lasciare a casa gli abiti-bomboniera…-

-Proporrò loro qualcosa di più casual… qualcosa che le faccia sentire comunque sexy e desiderabili, mentre immagino che gli Smash Mouth vi divertiranno, nel frattempo-

-Gli Smash… Cosa? Hai davvero chiamato loro?-, Clark era incredulo. Lex godette di quel breve momento di onnipotenza.

-Suoneranno fino a mezzanotte, dopo verrà la cover band degli U2… ho telefonato a Bono, ma sfortumatamente quella sera erano già impegnati per venire di persona…-, guardò Clark rimanendo serio.

-Tu non… Non è vero, giusto?-, mai come in quel momento aveva guardato Clark avanti a sé e aveva visto quello che era: un ragazzino pronto ad emozionarsi sentendo nominare dei cantanti famosi.

-Chi può dirlo?-, gli rispose alzandosi dal divano. Poi si voltò verso di lui.

-Mi aspetto che verrai con la tua bellissima ragazza, anche se avrei preferito conoscerla meglio di persona, prima di invitarla qua come una qualsiasi studentessa della scuola…-

Clark arrossì appena e il suo pensiero tornò rapido a lei: doveva vederla e si stava dilungando troppo con Lex. Si scusò e andò via dal castello, velocemente, fingendo di essersi dimenticato del loro appuntamento.

-Se non arrivo da lei entro dieci minuti mi sa che verrò da solo, alla festa!-, scherzò uscendo, corse alla macchina e guidò veloce verso casa sua.

Immaginò che Lois fosse sempre con sua madre alla fattoria e suonò alla porta di Lily, chiamandola a gran voce, visto che ancora il telefono di casa era occupato e il cellulare staccato.

Lily arrivò subito ad aprire e, quando lo vide, non seppe trattenersi dall’abbracciarlo stretto: aveva cercato di stare sola e di riflettere sulla sua vita, ma il pensiero correva sempre a lui.

Aveva rimesso a posto male il telefono, volutamente, e anche il cellulare era spento non per caso: aveva bisogno di capire da sola quello che stava riaffiorando dalla sua memoria e che dalla sera prima la tormentava, non voleva essere interrotta da qualcuno che la chiamasse.

Clark si perse tra le sue braccia, mentre veniva ricoperto da tanti piccoli baci dolci come caramelle di zucchero. La strinse forte e ricambiò il benvenuto, scostando la frangia dalla sua fronte e baciandola in ogni angolo del suo viso, scendendo verso la sua bocca.

Aveva un sapore strano, allontanò il viso dal suo e vide, dietro a lei, sul tavolino davanti al divano, un sottile filo di fumo provenire da una sigaretta accesa in un posacenere.

Fece qualche passo in quella direzione.

-Lily… che stavi facendo?-, le chiese con una punta di rimprovero nella voce, -Hai comprato delle sigarette…?-

-Non sono mie… le ha… dimenticate Lois, uscendo, stamattina… ho visto che le fuma quando è nervosa ed io…-

-Ha ricominciato…-, constatò con tristezza Clark, tra sé e sé. Poi guardò di nuovo Lily.

-Anche io sono nervosa, ma… ne ho accesa solo una, te lo giuro, Clark… ho anche tossito! Non… non mi ha fatto assolutamente niente: sono solo più agitata di prima! Sono così confusa…-

Clark la guardò scuotendo appena la testa.

-Tu non sei come Lois, Lilyanne… il tabacco, l’alcool… non possono fare su di te lo stesso effetto che hanno sulle persone… sugli altri-

-Stavi dicendo “sulle persone normali”, vero? Perché è chiaro che noi non lo siamo… ma cosa diavolo siamo, Clark?-, aveva gli occhi un po’ lucidi.

-Andiamo-, le disse prendendola per mano, ti dirò tutto.

Giovedì 06/05/’05, ore 4:37 PM

Lily chiuse la porta di casa alle sue spalle: Clark, là fuori, avrebbe voluto rimanere con lei e convincerla che quello che gli aveva rivelato corrispondeva a verità. Forse, se l’avesse vista più calma, le avrebbe anche mostrato le prove di quello che diceva, avrebbe dimostrato che, in quel pomeriggio del sedici ottobre 1989, erano stati due i bambini senza genitori ritrovati e raccolti da altrettante coppie. Forse le avrebbe anche detto che quei due bambini non erano due estranei, che venivano dallo stesso posto, che avevano gli stessi genitori. Che erano fratelli e che tra loro due, quindi, non ci sarebbe stata alcuna speranza di un futuro amoroso.

Da quando si era scoperta uguale a lui, essere sua sorella era la più grande delle paure, che non aveva mai voluto rivelargli, per timore che la prendesse per una sciocca. Aveva deciso di accantonare l’idea, ma adesso... se credeva alle parole di Clark, riapriva le porte ai suoi dubbi e si trascinava verso nuove sofferenze, scoprendo che quelli che aveva creduto suoi genitori, in realtà, erano solo due persone che l’avevano trovata, per caso…

Sospirò profondamente e si avvicinò alla libreria vicino al camino: prese un vecchio album delle foto e salì rapidamente le scale ed entrò in camera sua; si fermò davanti alla libreria ed estrasse il libro “Alice nel Paese delle Meraviglie”, l’unico che fosse sopravvissuto a quattro traslochi e ad un incendio. Si sedette sul letto facendo scorrere le mani sulla copertina scolorita e ruvida: non prendeva in mano quel libro da mesi.

Si soffermò a riflettere: stava per fare una cosa che sapeva bene che non avrebbe dovuto fare, ma doveva assolutamente parlare con lui!

Aprì il libro, che scricchiolò appena, ed estrasse dalle pagine un foglietto ripiegato accuratamente. Lo svolse e osservò quello che c’era scritto, poi afferrò il cordless e digitò il numero.

Pochi attimi dopo, le rispose un uomo.

-Sono Lilyanne Leibniz e devo parlare con il mio tutore-, attese con il cuore in gola che l’uomo rispondesse qualcosa.

-Chi ti ha dato questo numero?-, chiese perplesso quello all’altro capo.

-Io ho… ricavato il numero da una vecchia telefonata, quando stavo ancora a Gotham City…-, sperò che chi la stava ascoltando non si arrabbiasse o la ritenesse pazza.

Dopo un attimo di pausa, l’uomo parlò ancora.

-Sono io, Lilyanne: ho sottovalutato la tua intelligenza, ma mi congratulo. Cosa posso fare per te?-, nella voce vagamente metallica, Lily percepì un fremito emozionato.

-Io… devo parlarle, ho bisogno di capire cosa mi sta succedendo…-

-Ti trovi bene a Smallville, Lilyanne?-, chiese pacatamente.

Lily si sentiva in soggezione ascoltando di nuovo la voce dell’uomo che aveva deciso della sua vita, mandandola via da Gotham City. Si chiese da quanto tempo, in realtà, quell’uomo la controllasse.

Era stato solo grazie a lui, però, che la verità sulla morte dei suoi genitori e di Greg era stata coperta e lei poteva ancora vivere una vita da ragazza come tutte le altre, agli occhi della legge, almeno.

-Sì: pensavo che fosse una punizione l’essere mandata qui, invece ho capito che è stata solo una benedizione…-, disse di slancio.

-E’ stato un bene che tu non abbia mai provato a chiamarmi, prima d’ora, sai, Lilyanne? La tua linea era controllata, ma grazie ad un ‘amico’ abbiamo risolto il problema ormai da alcune settimane-, Lily non capì: non poteva essere vero… chi avrebbe mai trovato interesse a spiarla?

-Chi mi controllava? E perché pensa che le avrei detto qualcosa di compromettente?-, ancora una volta provò la stessa sensazione di sentirsi in trappola, come un topo da laboratorio chiuso in un labirinto di formaggio.

-Mi hai chiamata per dirmi che stai sviluppando nuovi poteri, non è vero, Lilyanne? Cosa hai imparato a fare? Ora riesci anche a vedere attraverso gli oggetti oppure hai finalmente imparato a controllare la tua tendenza ad incenerire le cose con la forza del tuo sguardo?-, la sua voce calma la fece agitare ancora di più, come se stesse parlando ad un Grande Fratello che la osservava in ogni istante della sua vita, da sempre.

-Oppure vuoi dirmi che hai conosciuto Clark Kent e che voi due avete in comune molto di più che la stessa scuola e la stessa propensione a cacciarvi nei guai? Spero che sia una brava guida, per te…-

Lily riagganciò il ricevitore con il cuore in gola, impietrita e sconvolta dalle parole del suo tutore: era davvero con lui che stava parlando? Chi era quell’uomo? Come faceva a conoscere tutte quelle cose su di lei, e perché conosceva Clark e il suo segreto?

Il telefono squillò prima che le avesse potuto sollevare le mani dal ricevitore. Sentì il cuore schizzarle fuori dal petto per lo spavento. Rispose immediatamente, senza pensare, portando il cordless all’orecchio.

-Non devi avere paura, Lily: è normale che io mi preoccupi per te, che sappia ogni cosa di te… tu sei come una figlia, per me…-

-Chi è lei?-, chiese Lilyanne, disubbidendo. Anni prima, in una lettera, l’uomo le aveva domandato di non porgli mai quella domanda.

-Sono solo una persona che si preoccupa per te, Lily… ti ho mandato a Smallville perché tu scoprissi chi sei-

Ancora menzogne, ancora quell’uomo non rispondeva alla sua domanda.

Non voleva dirle chi era? Bene, poteva fare a meno di lui, ma doveva sapere se quello che le aveva detto Clark era vero… non doveva lasciarsi portare fuori strada da sentimentalismi e curiosità inutili.

-Lei è il mio tutore legale da prima che venissi adottata da John e Veronique Leibniz, non è vero? Lei sa tutto su di me… allora perché non mi ha mai aiutata a capire cosa fossi, come dovessi comportarmi? Cosa sa lei dei miei primi genitori?-, chiese quasi urlando.

-Sono morti in un incidente sulla statale 87 vicino a New York, lasciandoti sola e miracolosamente illesa-, la sua voce tremò per un istante, ma Lily non se ne rese conto.

-Questo lo so anch’io! Ero presente e so che sono stati ammazzati da un pazzo!-

-E’ stato un incidente, Lily-

-Cosa ne vuole sapere, lei? Lei non c’era, non sa che ho visto morire la mia mamma a soli quattro anni, mentre il mio papà non mi ha neppure potuta guardare un’ultima volta! Io… spero che quell’uomo sia morto per il rimorso!-, stava per piangere.

-No, non è morto. Ma so che ogni giorno della sua misera vita ripensa a quella bambina dagli occhi pieni di lacrime che ha distrutto per sempre… e tutte le sere prima di dormire si domanda perché non è stato lui, a morire, invece che i suoi genitori…-

Lily portò una mano alla bocca, per non far sentire all’altro capo del telefono i singhiozzi che non riusciva più a trattenere: si era appena augurata la morte di un uomo… di un uomo che forse, davvero, provava quello che il suo tutore le aveva appena detto. Ebbe un flash di memoria, ricordò i suoi occhi che la guardavano dall’auto distrutta, gli occhi di chi si domanda perché non è morto, invece che spezzare il cuore di una bambina in lacrime. Proprio come aveva detto lui. Tirò su con il naso, deglutì e cercò di calmarsi, di andare oltre. Doveva sapere.

-Lei lo sapeva che io non ero figlia loro, non è vero?-, se Clark aveva ragione, lo avrebbe scoperto subito.

L’uomo non rispose, Lily lo sentì sospirare. Cercò di dominare l’angoscia e rimase in attesa.

-No, tu non eri figlia loro, Lily. Loro ti avevano solo trovata…-

-Dove?-, le unghie della sua mano stretta a pugno stavano ferendole il palmo.

-Ti ho mandata a Smallville perché tu scoprissi le tue origini…-

-Il sedici ottobre del 1989? Non è vero?-

-Come lo sai? Telo ha detto Clark?-

-Non ero l’unica bambina abbandonata che fu ritrovata, quel giorno, lei sapeva tutto, non è vero? Chi ci ha abbandonato? Chi ha abbandonato me e Clark durante una pioggia di meteoriti nel bel mezzo del niente?-

La voce dell’uomo all’altro capo cambiò di tono.

-No! No… io… sapevo che tu eri stata trovata a Smallville in quella data e che i tuoi genitori avevano fatto carte false per portarti via, ma… non ho mai pensato che tu e Clark Kent siate arrivati a Smallville insieme…-

-Senta ‘Papà Gambalunga’: io sono stanca dei giri di parole, di sentirmi confessare solo le cose che fanno comodo agli altri, di non sapere chi sono e cosa ci faccio qui! Io pretendo di sapere ogni cosa! Ora le dirò la mia verità: ho conosciuto Clark Kent e mi sono innamorata di lui. Ho scoperto che io e lui abbiamo gli stessi poteri, sappiamo fare le stesse cose, come già lei sapeva. Ora vengo a sapere che entrambi siamo stati trovati qua a Smallville abbandonati dai nostri genitori. Lo sa cosa penso? Penso che due più due fa sempre quattro, che stia a New York, Gotham City o Smallville e che io e Clark siamo stati abbandonati dagli stessi genitori, che sono morti, o se ne sono andati perché eravamo dei mostri! Penso che io e lui siamo fratelli e che il destino mi ha giocato anche questo orribile scherzo… oppure che lei mi abbia spedita qui senza pensare alle conseguenze del suo gesto, penso che per tutto questo tempo lei ci ha studiati, per capire a quale strana specie apparteniamo! Penso che lei sappia anche dove si trovano o che fine hanno fatto i nostri veri genitori, e che pur di continuare a studiarci, lei avrebbe taciuto la verità su di me in eterno!-, scoppiò a piangere a dirotto e l’uomo all’altro capo del telefono aspetto in silenzio che la quella che si ostinava a considerare la sua bambina, si calmasse un po’.

-Lilyanne? Ascoltami: come ti ho detto, io non credo che tu e Clark Kent abbiate un’origine comune… voi due non siete stati abbandonati come tutti gli altri trovatelli… voi…-, sospirò e cambiò discorso.

-Devo chiederti scusa, Lily… perché sono stato io a consegnarti nelle mani del professor Leibniz, affinché vegliasse su di te come un padre, scusa perché mi sono fidato di lui, sperando che la sua voglia di paternità andasse oltre il suo interesse scientifico. Scusa, perché so che ti ha sempre torturata, cercando di spiegarsi cosa fossi, perché ti ha reso la vita un inferno, perché ha rovinato la tua infanzia e l’adolescenza, rendendoti quella che sei ora: una persona ferita e che non riesce più a fidarsi di chi tiene a lei. Quando è scappato a Gotham City con te, io avrei dovuto fermarlo, ma se lo avessi fatto, avrei dovuto spiegare cosa ti stava facendo e la verità su di te sarebbe venuta fuori, mettendoti in pericolo. E adesso… tu pensi che io abbia voluto tenerti d’occhio per il mio interesse scientifico… non sai quanto ti sbagli…-

-John Leibniz era il mio papà… non il mostro che lei dipinge… lui voleva solo aiutarmi. È vero… mi ha fatto del male, ma mi ha anche ricoperta di amore e di protezione… Voleva solo aiutarmi…-

-Ed anche io, adesso, sto cercando di aiutarti pregandoti di non saltare alle conclusioni sbagliate e affidandoti alle cure di Clark Kent… so che quel ragazzo può essere tremendamente avventato, ma in coscienza mi sento di dire che è molto più saggio di tutti noi miseri mortali…-,

-Che sta dicendo?-, Lily sentì la peluria sulla sua schiena drizzarsi, come di fronte ad un pericolo.

-Fidati di lui e della tua coscienza. Nient’altro-, la sua voce era affannata, come se si fosse stancato parlando per tutta quella lunga telefonata, -Ora, Lilyanne, devo chiudere la nostra conversazione…-

-Aspetti! … la prego! Mi dica solo perché… Ho troppe domande… Perché mi ha sempre nascosto la verità sulla mia nascita, perché mi dice di fidarmi di Clark… perché è così certo che io e lui non siamo… E per favore… mi dica chi è lei!-, lo stava implorando.

-Lilyanne… io non ti ho nascosto la tua origine: semplicemente non so quale sia. Sto cercando di capirlo da dodici anni, ma ancora non so chi tu sia: per questo spero che Clark ti possa aiutare… Devi credermi…-

-E lei… perché mi ha sempre seguita… perché non vuole che sappia chi è lei?-

-Non sono il tuo ‘Papà Gambalunga’, Lily… direi proprio di no… ma tengo davvero a te, da quando ho guardato i tuoi occhi per la prima volta…-, chiuse la comunicazione e di lui rimase solo il ricordo della sua voce senza volto, confuso dal tono occupato che continuava a mandare insistentemente il telefono.

Lily lo spense e si lasciò cadere sul letto, fissando il soffitto.

Allungò una mano e toccò qualcosa di rigido e freddo, sul letto vicino a lei: era l’album delle foto che aveva portato su dal salotto.

Poggiò la testa alla spalliera del letto ed iniziò a sfogliarlo.

Io lo so chi sono… sono solo una figlia dell’Illusione… tutto intorno a me si sgretola come castelli di sabbia in mezzo ad una tempesta… rimane solo la mia illusione… solo l’incertezza e l’angoscia di non capire chi sono, di sentirmi costantemente su una zattera alla deriva in mezzo ad uno spazio a più dimensioni, dove il futuro e il passato si ripetono, dove l’unica cosa certa è solo la ferita che solca il mio cuore…

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-Dove stiamo andando, Clark? Vai piano!-, Lily, seduta accanto a lui sul furgone, si sentiva più agitata che mai: poteva essere vero, dopo quello che le aveva detto l’uomo al telefono, la sera prima e le ricerche che aveva tentato di fare durante il pomeriggio, che Clark le stesse per rivelare tutta la verità su di lei? Stava guidando veloce, commettendo anche infrazioni al codice stradale: anche lui sembrava agitato.

-Ti porto nel posto dove è cominciato tutto…-, si voltò per un attimo verso di lei e le sorrise e i suoi occhi scintillarono. Guidò per alcuni minuti ancora, voltandosi ogni tanto a guardarla, fino a quando non furono dall’altra parte del paese, tra i campi di mais e le colline. Imboccò una strada sterrata e si bloccò vicino ad una specie di cantiere.

-Ci siamo già stati qua…-, constatò ragazza, ricordando la prima volta che lui l’aveva portata alle grotte.

-Sì, quando ancora non avevo tutte le risposte… ma adesso non ho più alcun dubbio e non posso aspettare oltre… se anche tu sei pronta-, mise la mano su quella esile e fredda di Lily e la strinse delicatamente.

-Forse… quello che sto per rivelarti ti sembrerà ancora più strano di quello che già ti ho detto… mi darai del matto, probabilmente, ma ti garantisco che è solo ed esclusivamente la verità…-, le sorrise ancora, aspettando qualche cenno da lei.

-Questa cosa che stai per dirmi, chi sono davvero… chi siamo davvero, è il segreto che conservi gelosamente da così tanto tempo, Clark?-, sentiva che era qualcosa di più grande di lei

Clark annuì, senza staccare gli occhi dai suoi, finché lei non abbassò lo sguardo.

-Allora c’è qualcosa che devi sapere… perché ho paura che il tuo segreto sia in pericolo… ieri ho parlato con una persona, il mio tutore legale, e lui mi ha detto che sono qui a Smallville perché… dovevo incontrare te e ascoltarti, perché solo tu avresti saputo guidarmi nella scoperta di chi sono davvero: lui sa tutto dei miei poteri… e anche dei tuoi, temo…-, alzò nuovamente lo sguardo, vedendo che Clark aveva un’espressione attonita.

-Chi è? Come sia chiama quest’uomo?-, domandò velocemente.

-Non lo so… non me l’ha mai voluto dire… però mi ha detto un’altra cosa: avevi ragione sui miei primi genitori… loro mi hanno trovata qua Smallville, proprio nello stesso giorno in cui sei stato trovato anche tu-, voleva sapere se quello che temeva su di loro era possibile, desiderava porgli quella domanda con ogni cellula del suo corpo, ma rimase in silenzio.

Clark, con gli occhi bassi, continuava a ripetersi che non era vero, che non poteva essere vero… le domande che urlavano dentro di loro riempivano quel silenzio assordante, facendoli smarrire, vagando con lo sguardo attraverso spettri e paure che prendevano forma davanti a loro, cercando un granello di polvere sul cruscotto, una spia luminosa, qualsiasi cosa che li riportasse alla realtà, strappandoli a quell’inferno di interrogativi. Fino a quando i loro occhi non si incontrarono.

-Lilyanne… io mi fido di te-, disse semplicemente, e le prese ancora la mano, -Tu ed io non siamo stati abbandonati: Smallville era la nostra meta, il luogo prescelto per noi, quando siamo stati mandati qua… Tu ed io non siamo nati in questo paese… in realtà non siamo neanche nati su questo pianeta: non siamo come le altre persone, perché non siamo esseri umani…-

Questo no, questo no! Fa che non sia vero!!! E’ peggio di quello che pensassi… è peggio di ogni cosa…

-Lily? Dì qualcosa, ti prego!-, strinse la sua mano, delicatamente, scuotendola appena, perché si riprendesse dallo shock che si era dipinto sul suo volto. Aveva gli occhi sgranati e la bocca aperta.

-Devi credermi… non sono un pazzo! Ti ricordi quando ti ho detto che il rifugio anti-tempesta dei miei è saltato in aria? Sono stato io a farlo, perché ho distrutto la navicella con la quale sono arrivato sulla terra… ho usato un frammento di meteorite… proprio come quello che ci ha fatto stare male, l’altro giorno. Lo capisci, Lily? Finora credevo di essere solo… l’ultimo sopravvissuto del nostro pianeta, Krypton e invece… in mezzo a tutti quei meteoriti doveva esserci un’altra navicella… la tua-, allungò una mano per farle una carezza, ma Lily si ritrasse, scacciandolo. Clark abbassò il viso e la guardò come un animale ferito: quello che temeva, si era avverato.

Guardò Lily spaventata davanti a lui: i suoi occhi vitrei iniziavano a scendere le prime lacrime. Tremava.

Schiacciata contro la portiera dell’auto, lo osservava terrorizzata, senza riuscire ad emettere suono.

Non è possibile, questo non è possibile… è solo uno scherzo.. non può essere diversamente perché noi… perché ‘loro’ non… non…

Il respiro affannato si era spezzato nel suo petto sconvolto, facendola quasi ansimare: sentiva la testa girare vorticosamente, come se il sedile sotto di loro si stesse curvando diventando molle, come un orologio di Dalì, e le portiere stessero deformandosi, chiudendosi su di lei.

-Lily! Devi credermi…-, si avvicinò ancora con la sua mano, ma lei trovò la maniglia della portiera e l’aprì, ruzzolando fuori dalla macchina, mentre il sole stava svanendo oltre le colline e un nuovo tramonto malato tingeva di un cupo grigio il cielo ancora carico di nubi.

Clark uscì svelto dalla sua parte e si avvicinò a lei: l’aveva spaventata a morte, doveva trovare il modo di farla calmare.

-Amore! Non ti sto prendendo in giro… non c’è niente di male in quello che ti ho detto: io e te… siamo diversi dagli altri, ma i nostri animi sono più umani di tante altre persone! Non cambia nulla nella tua vita, anche se siamo nati sulla terra o… su un’altra galassia!-

Un’altra galassia… non esistono navi spaziali in grado di arrivare così lontano…

La testa continuava a girarle forte, i polmoni rifiutavano l’aria che lei cercava di trattenere, respirando dalla bocca piena di lacrime, scivolate ovunque, sul suo volto, sulle mani, ovunque. Le sue mani… non erano mani umane, allora… allungò un braccio avanti a sé e, alla luce morente cercò di concentrarsi sulla sua mano, cercando di tenere gli occhi fissi su un punto, anche se tutto girava, girava…

Fin quell’attimo fu come vederla cadere a terra e rimanere inerme al suolo, senza che lui avesse potuto fare nulla per lei.

Invece la stava stringendo tra le sue braccia: Clark l’aveva afferrata prima che toccasse terra e la teneva stretta a sé, abbassandosi per farla stendere. Non aveva retto l’emozione ed era svenuta sotto i suoi occhi.

Scosse appena il suo volto, sperando che riprendesse i sensi, la chiamò spaventato, senza che lei riaprisse gli occhi. Quando lo avrebbe fatto, aveva paura, non avrebbe più voluto avere niente a che fare con lui.

La abbracciò di nuovo e si strinse a lei, affondando il volto tra i suoi capelli, sorreggendole la testa con una mano. Non doveva andare così… doveva essere un momento di gioia, per loro, un momento importante… cosa aveva sbagliato.

La frustrazione e la paura di avere perso per sempre la sua fiducia ebbero la meglio e si lasciò andare in un pianto disperato.

-Devi credermi… ti amo troppo per mentirti… Tu sei troppo importante per me… non potrei mai mentirti…-

Non si accorse che lei aveva lentamente riaperto gli occhi. Sentì la sua stretta, appena percettibile, delle sue braccia attorno al suo collo: si staccò da lei, sorreggendola sempre dietro la schiena. Lo guardava senza parlare, con gli occhi gonfi e lucidi.

-E’ per questo che riesco a volare?-, gli chiese piano, poi gli sorrise, titubante, all’inizio, poi più sicura,

La strinse di nuovo tramutando le sue lacrime in un pianto liberatorio, ringraziandola per non averlo respinto.

-Come hai detto che si chiama, questo pianeta?-, gli domandò e si liberò dal suo abbraccio, guardandolo attenta.

Se era quella la verità su di lei, tanti dei quesiti che si portava dietro da una vita apparivano ovvi, per la prima volta. Aveva sempre cercato di essere uguale agli altri e si era sempre sentita a disagio: ora sapeva il perché, anche se ne era affascinata e terrorizzata al tempo stesso. Doveva sforzarsi di abbandonare la sua razionalità… avrebbe dovuto farlo tanto tempo prima, quando i suoi primi poteri si erano manifestati, travolgendola.

-Krypton-, rispose Clark e le sorrise.

-E non è rimasto più nessuno, oltre a noi?-

-Credevo di essere solo… è splendido che ti abbia trovata…-, dietro di lui, un faro automatico si accese per il buio, illuminando l’ingresso delle grotte, catturando l’attenzione della ragazza.

-Perché siamo qua?-, gli domandò, poi capì e portò una mano dietro al suo collo, aprendo appena le labbra.

-Perché era scritto che saremmo arrivati…-, per la prima volta Clark aveva accettato la storia dei Cowichan.

Lily rabbrividì: -Parli come se fossimo degli invasori… alieni…-, l’aveva detto, aveva trovato la forza per pronunciare quelle parole.

-No, non lo siamo… ma quelle grotte parlano di noi…-, la prese per una mano, perché la seguisse al loro interno.

-Parlano di Naman, se non ricordo male… parlano di te… io non ero prevista…-

-Tu dici?-, le sorrise e la fece passare avanti a lui, illuminando le pareti con la torcia che aveva estratto dalla tasca.

-Guarda là-, disse indicandole, sulla parete opposta a loro, l’immagine di un volto femminile.

-È la donna del destino di Naman…-, la tirò verso di sé e la strinse in un abbraccio, -Sei tu…-, le disse piano, avvicinando le sue labbra alla bocca rossa e salata per le lacrime che aveva versato.

La torcia gli scivolò dalle mani, mentre stingeva la sua ragazza a sé, finalmente felice dopo tutta una vita. La luce tremolante illuminò i due innamorati, riflettendosi sulle pareti policrome delle grotte che custodivano da sempre la loro storia d’amore.

Sopra le loro teste, in un angolino lontano, una piccola luce rossa si mosse appena, comandata da un computer posto a decine di chilometri da lì; la lente ruotò per ingrandire l’immagine e la impresse su sensori ai raggi infrarossi che la tramutarono in segnale elettrico, inviato lontano, su invisibili cavi sotterranei.

Giovedì 06/05/’05 ore 10:50

-Ho appena visto Jason Teague uscire da questa porta, Lex: era coperto di sangue! Cosa sta succedendo?-

-In carcere non ti hanno insegnato a bussare, prima di entrare nelle case degli altri, papà?-, una fitta di dolore al labbro: la ferita buttava ancora sangue.

-Che è successo, figliolo?-, Lionel si avvicinò mostrando una sincera preoccupazione.

-Niente che ti riguardi-, Lex lo allontanò con un gesto della mano e tamponò il labbro con una salvietta pulita presa dal mobile bar. Una fitta violenta alla testa lo fece barcollare.

-Lex…-, Lionel lo sorresse e lo aiutò a stendersi sul divano. La sua espressione era sempre preoccupata.

-Ti consiglio di imprimere nella tua memoria questa immagine, papà, perché passerà molto tempo prima che qualcuno osi fare qualcosa di simile…-

-Sei molto sicuro di te, Lex… Ho sempre apprezzato il modo con cui ti lasci alle spalle i fallimenti-, si alzò e lo sovrastò, guardandolo dall’alto. Lentamente lo sguardo corrucciato si distese e le sue labbra si piegarono in un ghigno diabolico: -Qualcosa non è andato secondo i tuoi piani, figliolo?-

Lex non rispose, ma ricambiò con un’occhiata densa di odio.

-Sai… non si possono vincere tutte le battaglie…-

-Quello che conta è vincere la guerra-, si sollevò portando una mano alla fronte, -Adesso, se vuoi scusarmi, Papà, ho da fare-

Lionel lo guardò con aria strafottente.

-Alle volte, figliolo, curiamo ogni dettaglio dei nostri piani, non tenendo conto del fatto che l’imprevedibile attende dietro l’angolo e le cose, purtroppo, non sono totalmente comandabili dalla nostra volontà. A volte si deve rinunciare a qualcosa di molto prezioso o sacrificare qualcuno per ottenere i propri scopi. E’ la legge di chi lotta per vincere. Spero che tu ne sia consapevole, nella guerra che stai combattendo-

Lex non gli rispose.

-Sai, visto l’accanimento con cui stai cercando informazioni su Clark Kent e su Lilyanne Leibinz, pensavo che questo tuo stato dipendesse da loro… qualcosa mi dice che stavolta, però, il grande condottiero si è lasciato andare a sentimenti ben più umani e meno nobili… e chissà come mai nella mia mente anziana riecheggia solo un nome…-, si avvicinò a lui e si piegò fino a portare la sua bocca vicino all’orecchio del figlio.

-Lana Lang-, poi se allontanò di nuovo, con aria falsamente confusa -E’ così strano che oggi, uno dei miei collaboratori a Metropolis, abbia firmato una ricetta medica per lei… Alle volte, la casualità è davvero la sola regina dello scorrere degli eventi-

Si avviò verso la porta, abbassò la maniglia e si voltò.

-Aspetto che il frammento di roccia che mi hai fatto rubare l’altra sera, nella mia dependance, torni sulla mia scrivania entro domani mattina. Ti auguro buona fortuna per le tue ricerche insensate. Buona serata, Lex-, disse, e sparì.

Lex rimase immobile, guardando la porta da cui suo padre era uscito, senza espressione.

Poi alzò la cornetta del telefono che aveva sulla scrivania e partire una chiamata.

-Jamison: voglio che il monitoraggio parta immediatamente.

-Abbiamo montato solo una telecamera spia, signor Luthor-

-Partiamo da quella, allora. Forse sarà sufficiente…-

---

Seduto alla sua scrivania di cristallo e acciaio, Lex manovrava un piccolo joystick nero, collegato al suo computer portatile.

Sullo schermo si muovevano le immagini di Clark Kent e Lilyanne Leibniz che entravano nella grotta. Clark le indicava qualcosa sulle pareti: tra i due solo futili discorsi di innamorati che credono alle favole.

-Cosa aspetti, Clark… parla, dì quello che mi tieni nascosto da quattro anni…-, Lex ruotò la rotellina dello zoom, vedendo le sagome verdastre dei due stretti in un abbraccio molto intimo.

-Lo so che non l’hai portata là solo per appartarvi… non è da te...-, placò un raptus d’ira ripensando a Lana, l’anno prima, tra le sue braccia e la notte prima tra quelle di Jason.

«Ti amo, Lily, non riesco neanche a esprimere quanto…»

«Lo so, Clark… adesso lo capisco ancora di più…»

-Diabetico...-, Lex storse la sua bocca in un ghigno disgustato, facendo scrocchiare le dita delle mani. C’era qualcosa nell’aria di quelle grotte, qualcosa che pulsava di rivelazione, riusciva a capirlo lui stesso, a chilometri di distanza, guardando la soap opera tra Clark-e-la-sua-bella, tinta del verde delle telecamere a infrarossi.

«Per quello che mi hai detto, Clark…»

-Brava morettina! Fallo parlare…-

«Lily, è importante che nessuno lo sappia, devi conservare questo segreto gelosamente»

- Parla! Maledizione!-, un pugno sul cristallo del tavolo lo fece oscillare pericolosamente.

«Custodisco questo segreto da così tanto tempo… Averlo condiviso con te è la più grande delle mie gioie, ma ora non dobbiamo più parlarne ad anima viva»

«E’ che… scusami per come ho reagito poco fa: ero pronta a tutto, avrei accettato qualsiasi cosa che tu mi avessi detto, le ipotesi più astruse e tragiche… ma questa… beh, le batte tutte e io… non volevo crederci…»

-Smettetela di sbaciucchiarvi e parlate…!-

«Va tutto bene, Lily… Ora torniamo, però: è già buio…»

«Hai ragione, amore… ora va davvero tutto bene. Andiamo!»

Il bagliore verde dei loro corpi svanì con loro e sullo schermo del suo computer, Lex rivide solo una macchia nera.

Spense il pc chiudendolo con sforzata calma, si alzò lentamente e si versò un bicchiere di whiskey; lo portò alle labbra strette in un ghigno minaccioso e lo bevve tutto d’un fiato.

-La scoprirò, la tua verità, Clark… con o senza una tua confessione. Cadesse il mondo, io ti prometto che la scoprirò…-

-Scusami se ti ho portata via da lì così in fretta… avevo come la sensazione che qualcuno ci stesse osservando… so che è stupido, ma…-, Clark si grattò la testa, appena imbarazzato e aprì il furgone.

-Non devi scusarti. E poi… ieri a telefono il mio tutore mi ha detto che… fino a qualche settimana fa la mia linea era controllata e che solo grazie a quello che lui ha chiamato ‘un amico’, è stata ripulita-, lo guardò preoccupata, -Pensi sia per quello che mi hai detto prima? Cioè… chi altri può sapere il nostro segreto… non lo sapevo neanche io!-

Clark mise in moto senza rispondere, turbato dalle sue parole.

-Ho come il vago sospetto che questo ‘amico’ sia una persona che ho giudicato troppo in fretta… anche se onestamente non sono ancora sicuro da che parte stia…-

-Non c’è nessuna parte, Clark: non è una battaglia-, lo guardò sconfortata.

-Hai ragione. Ora però… andiamo: ho come un brutto presentimento…-, mise in moto e partì verso il paese, portando con sé dubbi e paure di tutta una vita. Poi sentì un lieve tocco sulla sua mano: era Lily.

-Siamo in due adesso… ricordatelo, Clark-, gli sorrise e un po’ di quelle paure, rapidamente, volarono via.

***

Clark era appena uscito di casa e Martha si avvicinò a Lois per offrirle qualcosa da bere.

La ragazza scosse la testa sorridendo, poi prese i suoi fascicoli e si sedette al bancone di cucina, invitando la signora Kent a fare altrettanto. Aprì la cartellina, estrasse un foglio e vi posò le mani sopra.

Seguì con lo sguardo, fuori dalla finestra, l’auto di Clark che si allontanava oltre la recinzione, poi si voltò verso Martha e la guardò a lungo negli occhi, prima di riuscire a parlare.

Quando iniziò, la sua voce era calma, quasi distaccata.

-Anche le analisi che ho fatto all’ospedale di Smallville confermano la diagnosi: è una forma di leucemia acuta linfoide. E’ tristemente diffusa tra i giovani della mia età e, anche se il medico mi ha assicurato che non è in alcun modo ereditaria, guarda caso è la stessa cosa che ha ucciso mia madre. Generalmente in queste forme acute il decorso è rapido e spesso la diagnosi precede la comparsa dei sintomi, perché la malattia viene scoperta nel corso di altre indagini: non è il mio caso… forse dovevo accorgermi da tempo che c’era qualcosa che non andava… ma ho sempre dato la colpa alla mia vita dissoluta al college: immagino che quando il mal di testa mi durava per giorni, dopo una sbronza, e la nausea non mi dava pace e non riuscivo a muovermi senza affaticarmi dopo soli pochi metri, quelli fossero i sintomi di cui dovevo preoccuparmi, prima che… succedesse quello che è successo l’ultima volta che sono stata da mio padre… Le cure sono sempre le stesse: tre cicli di chemioterapia, da iniziare al più presto in un centro specializzato a Metropolis. Purtroppo, la sola chemio non garantisce la risoluzione della malattia, perché, specie in un caso come il mio, il numero di cellule infette è così elevato che… Il trapianto di midollo osseo: quello sarebbe risolutivo, o comunque offrirebbe maggiori speranze di guarigione, ma non è facile trovare un donatore compatibile: ieri il medico ci ha detto che il midollo di mio padre non va bene per me, mentre mia sorella… lasciamo perdere, che è meglio. Mi hanno inserita nella lista d’attesa. L’aspettativa di vita, se non si interviene con le cure specifiche, va da pochi mesi ad un anno ed io non so da quanto sono malata. Potrebbero rimanermi solo pochi mesi: per questo inizierò il primo ciclo di chemioterapia tra due settimane… quindi, tra due settimane Lois Lane avrà trovato un lavoro interessantissimo a Metropolis che non le permetterà per mesi di tornare a Smallville (3)[iv]-, fece una pausa, guardandola negli occhi intensamente.

-Sono un soldato, Signora Kent, la battaglia non mi spaventa-, disse con aria fiera e gonfiò i polmoni d’aria, stringendo i denti e sforzandosi per non lasciare le lacrime libere di sfuggire alle sue ciglia.

Martha posò la sua mano su quella di Lois, ancora immobile sui fogli e gelida.

La ragazza la guardò di nuovo poi non ce la fece più e scoppiò in un pianto dirotto. Martha si avvicinò a lei e la abbracciò forte, lasciando che Lois si aggrappasse alla sua vita, bagnandole la camicia di lacrime amare come fiele.

-Non dica niente a nessuno… la prego… non dica niente a Chloe e a mio zio… e Clark… lui non deve sapere niente… la prego…-, la sua voce rotta dal pianto era così diversa da quella ferma e quasi professionale con cui aveva parlato poco prima. La sua schiena era scossa da singhiozzi violenti che sembravano non finire mai.

Martha sentì le lacrime scivolare sul suo volto, ma strinse i denti, perché Lois non si accorgesse che stava piangendo. Aveva bisogno di una mamma forte che la sostenesse nel momento più buio di tutta la sua giovane vita.

La sentì cercare di prendere aria, con difficoltà, e le si strinse il cuore: la Lois che tutti vedevano forte, aggressiva e spavalda era una fragile ragazza spaventata, in quel momento, e non riusciva ad indossare più a lungo la sua maschera di sempre. Da quando le aveva confidato le sue paure, pochi giorni prima, Martha aveva pregato perché i medici di Metropolis si fossero sbagliati, azzardando un’ipotesi non vera.

Le carezzò i capelli, finché non sentì che si stava calmando, poi mise le mani sulle sue spalle tremanti e l’allontanò un po’ da sé, per sorriderle, cercando di darle forza.

Le passò le mani sul volto per cancellare le tracce del trucco che si era sciolto e vide che, tra le lacrime, sorrideva appena.

La fece spostare in salotto, la infagottò nel plaid che Clark aveva abbandonato riprendendosi la sua stanza e corse a prepararle qualcosa di caldo, che la facesse sentire meglio. Con la coda dell’occhio la vide avvicinare la coperta al suo volto e ricominciare a piangere silenziosamente, affondando sempre di più giù nel divano.

Le porse una tazza bollente di tè e si sedette vicino a lei, in silenzio, lasciando che parlasse solo quando se lo fosse sentito.

Prima che iniziasse a fare buio, Lois si mosse e sospirò, sorridendo a Martha.

-Non volevo rovinarle la camicia…-, disse indicando le macchie di trucco sulla stoffa chiara.

-Figurati, cara: un lavaggio e tornerà come nuova-, le pareva più calma, anche lei si sentiva un po’ più sollevata.

Lois si alzò lentamente, poi sospirò ancora e lasciò scivolare la coperta sul divano.

-Devo andare, ora, Signora Kent…-

-Perché non rimani a cena con noi, saremmo tanto felici di riaverti qui…-, Martha piegò appena la testa sorridendole cercando di convincerla.

-La ringrazio, ma preferisco andare subito a letto…-

Riprese i suoi fogli e la salutò. Salì in auto e mise in moto, poi la vide vicino a sé, così abbassò il finestrino.

-Grazie ancora… lei è l’unica persona con cui riesca a parlane… Signora, la prego… non dica nulla a Clark…-

-Stai tranquilla… ma… perché non vuoi che lui sappia niente? Lui non ti prenderebbe mai in giro per questo, Lois-

-Lo so. Solo che non voglio… che lui ci sia…-, poi partì, salutandola con un ultimo, triste sorriso.

-Guida con prudenza!-, le urlò Martha seguendola per un breve tratto lungo il vialetto di casa, turbata dalle sue amare parole.

Lois andò piano: che fretta c’era, in fin dei conti. Non l’aspettava nessuno a casa di Lily: lei certamente era fuori con lui.

Parcheggiò ed aprì, richiudendo la porta alle sue spalle con la chiave, perché non si riaprisse da sola.

Lasciò la giacca all’attaccapanni all’ingresso e accese la luce, avvicinandosi al divano.

Sul tavolino davanti al camino vide il pacchetto delle sue sigarette e lo prese in mano.

-Ormai…-, disse, e ne accese una, aspirando profondamente.

Iniziò immediatamente a tossire, per il fumo che le era andato di traverso. Si aggrappò al divano, lasciando che i colpi di tosse le squassassero il petto, senza poter fare nulla. Sentiva che non aveva più aria nei polmoni. Gliel’avevano detto: aveva una forma acuta di anemia e quindi aveva poco ossigeno nel sangue: fumare equivaleva ad avvelenarsi lentamente. Cercò di respirare più che poté, tenendosi salda al divano, ma tutto iniziò a vorticare attorno a lei e diventare rosso e nero e si sentì andare giù.

In quell’attimo fu come se delle braccia invisibili e forti la afferrassero stringendola in un abbraccio familiare.

Cadde a terra perdendo i sensi e rimase inerme al suolo. Da sola.

Fuori il sole era già sparito oltre l’orizzonte e un cupo grigiore iniziava ad inghiottire ogni cosa.



[i] (1) Specifiche della pillola del giorno dopo, prese da Wikipedia. In realtà negli Stati Uniti la Pillola del giorno dopo (venduta con il nome di Plan B) è un farmaco da banco venduto anche nei supermercati. La ricetta medica è necessaria solo per pazienti di età inferiore ai 18 anni. Lana ne ha di più, presumo, ma ho voluto lo stesso richiedere la sua ricetta…

[ii] (2) Il primo che dice che ho voluto fare una citazione dai Prozac+ lo fulmino! E’ solo un caso… :-\

[iii] (3) Grazie al mon cher Gregoire (ihihihih!!!)

[iv] (4) Ho tratto le informazioni relative alla malattia dai siti www.wikipedia.it, www.dica33.it e http://it.geocities.com/ematologia/index.html. Forse quello che ho scritto sarà totalmente scorretto e poco scientifico, ma ho voluto farne un riassunto in prima persona, sentito da Lois, che ne parla. Se ho scritto qualcosa di sbagliato o che può urtare la sensibilità di qualcuno, innanzitutto chiedo scusa, in secondo luogo sarei felice se potessi sapere come correggere le mie parole, perché l’argomento è delicato e l’ultima cosa che voglio è che la sua trattazione appaia superficiale in questa storia.

   
 
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