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Autore: Codivilla    18/07/2013    7 recensioni
La Medicina ha in sé qualcosa di magico. Ogni branca ha il suoi presidi, ogni branca ha le sue leggende. Nasce con l'uomo stesso, ma la sua culla vera è nella Grecia antica. La Grecia dei miti e degli eroi epici, in tempi in cui il passeggiare in una foresta faceva pensare, immancabilmente, alla speranza di incontrare una Ninfa, o addirittura una divinità scesa per burla o per diletto fra gli uomini. E' in questo contesto che nasce la mia storia. Una storia che narra di come la Medicina e l'amore possano essere intimamente intrecciate fra di loro. Una leggenda che ha un sapore antichissimo: quello di una goccia di rugiada stillata da una foglia di quercia, ai piedi del monte Olimpo. Quello della lacrima di una Driade.
• Dal testo:
Il tronco nodoso del secolare albero oscillò ancora leggermente, e nella corteccia iniziarono lentamente ad apparire dei solchi nuovi, dapprima solo accennati, poi sempre più decisi e definiti, fin quando le forme sinuose di una bellissima donna non apparvero, e quella spina su cui il picchio si era fermato, altro non si rivelò essere che il naso della figura sottile incastonata nel legno.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La leggenda di Orthòs e Paidès






 

L'atto medico è un insieme di Scienza, Arte e Magia.
Jean Bernard



 

Una goccia trasparente di fresca rugiada stillò dolcemente dall'ultima delle foglie di un'alta quercia, le cui possenti radici affondavano maestosamente nel terreno umido di quella piccola radura, rischiarata da pochi raggi del sole, nel fitto di una anonima foresta ai piedi del monte Olimpo. Sì librò nell'aria, disegnando una perfetta perpendicolare al terreno, spegnendosi poi sui petali di una calendula dal forte color arancio, che vibrarono appena appena sotto il peso di quella piccola anima d'acqua.
Paidès stiracchiò pigramente i suoi rami, un fruscio melodioso di foglie permeò l'aria La quercia sembrò traballare per qualche secondo, tremolante. Il rumore somigliava al ridere di un bambino immensamente divertito. Un picchio curioso fece capolino dalla sua tana, zampettando tranquillamente lungo il ramo che aveva scelto come sua dimora.
«Ehi, smettila, mi stai facendo il solletico!»
Una voce cristallina di donna si fece sentire, rivolta al piccolo uccellino, che smise immediatamente lo zampettìo, come se conoscesse da sempre quella voce, come se la capisse, e piegò leggermente la testolina piumata sulla destra, con l'aria di chi la sapeva lunga. Spiccò un piccolo volo e scese leggermente, di qualche ramo forse, fino a posarsi su una piccola sporgenza del tronco della quercia, come una piccola spina, grande appena per sostenere il peso dell'animaletto. Di nuovo la risata fu il suono predominante della radura.
«D'accordo, d'accordo, è giorno, sono sveglia. Ma tu smettila di camminarmi sul naso!»
Il tronco nodoso del secolare albero oscillò ancora leggermente, e nella corteccia iniziarono lentamente ad apparire dei solchi nuovi, dapprima solo accennati, poi sempre più decisi e definiti, fin quando le forme sinuose di una bellissima donna non apparvero, e quella spina su cui il picchio si era fermato, altro non si rivelò essere che il naso della figura sottile incastonata nel legno. La corteccia si dissolse pian piano, lasciando il posto a una pelle colore dell'avorio, e la figura assunse una più precisa tridimensionalità, distaccandosi dall'albero come scultura in esso forgiata, prendendo vita autonoma, seppure tanto legata a quel legno.
Il dito indice della mano destra di Paidès si portò al suo naso, dove ancora era appoggiato il piccolo picchio, che allegrò cambiò velocemente la sua posizione, sistemandosi comodamente sulla falange della donna che era comparsa. Mediamente alta, vestita solo di una tunica di lino leggero e quasi trasparente, che nulla mascherava delle sue forme perfette. I lunghi capelli simili al mogano se ne stavano tranquilli intorno al viso dai tratti delicati, con quel naso piccolo, le labbra rosse e sottili, e gli occhi neri profondi che brillavano ridenti mentre lei osservava con fare a prima vista severo l'uccellino appollaiato sul proprio dito.
«Quante volte devo dirtelo, che soffro il solletico? Sei fortunato che non hai la tana su quell'arpia di Clio, lei sì, ti farebbe sloggiare in mezzo secondo, monello!»
Il picchio cinguettò e volò via, nuovamente sulla quercia, veloce come una scheggia. La ragazza procedette di qualche passo nella radura, descrivendo un mezzo giro su se stessa, con una grazia simile a quella di una farfalla in volo.
Paidès era una Ninfa dei boschi, una Driade nata dall'amplesso fra il Dio Zeus e la figlia di un vecchio falegname, nata e cresciuta da sempre in quella foresta. Il suo carattere forte e deciso rendeva esatta giustizia a quella che era la pianta che abitava, la più vecchia quercia che vi fosse in quella zona. Conosceva ogni anfratto e ogni angolo della foresta, ogni erba e ogni sentiero, non vi era ruscello che le fosse ignoto e ognuno degli animali che popolavano era per lei come un figlio. Nessun umano l'aveva mai vista, a parte sua madre dandola alla luce, prima che fosse portata via da Urano stesso e legata alla quercia in simbiosi eterna; ma niente nella vita le mancava, seppur ogni giorno si ripetesse sempre uguale e quasi monotono, lei riusciva sempre a trovare una nuova freschezza nelle acque che la avvolgevano quando si immergeva in cerca di ristoro, o un sapore diverso nella bacche di cui si cibava. Paidès altro non era che un'anima semplice e fortificata dai secoli, esattamente come la quercia che abitava.
Anche quel giorno i suoi passi leggeri percorrevano i sentieri ben noti nella selva. Nessuno passava mai da lì, la foresta non portava ad alcun villaggio, nè si traeva risparmio di tempo ad attraversarla per andare da parte a parte. Anzi, tutt'al più era facile perdercisi dentro, per il labirintico intreccio degli alberi e dei cespugli. Eppure aveva un non so che di magico, affascinante, forse per il gran numero di Ninfe che oltre Paidès la abitavano, o la messe di animali differenti che la rendevano viva. Era sempre tutto talmente calmo e tranquillo, quasi da sembrare abbandonata. Cosa che non era affatto, come avete ben potuto notare in precedenza! Vapori inebrianti salivano su dal terreno e uniti ai raggi del sole sembravano conferire al tutto un'atmosfera incantata.
In questo contesto la dolcezza e la fierezza di Paidès davano il meglio di loro stesse, mentre tranquilla camminava senza meta aguzzando le orecchie a percepire tutto quello che intorno a lei succedesse, sensi da Dea così ben mascherati in una forma che di umano aveva solo l'essere palpabile, ma per il resto, di una bellezza talmente intensa da ledere la vista. Si fermò accanto ad un cespuglio di more, sedendosi a terra sull'erba morbida con compostezza e allungando poi una mano a cogliere due o tre frutti, che portò lentamente alle labbra vermiglie. Una lepre selvatica le si avvicinò cauta, il musino con i baffi che ondeggiavano nell'annusare tutto intorno, curiosa. Paidès rise sommessamente, trovava molto buffo quell'animaletto. Racchiuse nel palmo della mano destra le more che aveva colto, e la avvicino al musetto della lepre, che si ritrasse indietro per un attimo, timida. Ma poi, preso coraggio, si avvicinò alla fanciulla, mangiucchiando i frutti dalla sua mano, con le lunghe orecchie bene all'erta e gli occhioni neri fissi sulla Driade.
Fu un attimo appena, e l'animale scappò via spaventato; un tremendo scalpicciare di zoccoli di cavalli in corsa dal vicino sentiero pervenne alle orecchie di Paidès, che in uno scatto felino si alzò in piedi e si nascose, prudente, dietro il cespuglio, rannicchiandosi e rendendosi invisibile alla vista di chiunque venisse fuori da quel percorso. Un enorme polverone dal sentiero precedette la comparsa di un ragazzo, a cavallo di un bigio ronzino malandato, ansante e sporco di fango nella tunica d'aspetto estremamente povero che indossava. Scese dal suo destriero, e mentre il polverone andava diradandosi, Paidès alzò la testa appena appena sopra il cespuglio, per poter guardare il nuovo venuto. Era il primo essere umano che vedesse metter piede in quei paraggi. Inclinò il capo sulla destra, esattamente come aveva fatto il picchio la mattina. L'esser tanto vicina alla natura l'aveva resa simile nei comportamenti agli animali con cui condivideva la dimora. Gli occhi le si ridussero a due fessure, mentre studiava il ragazzo. Poteva avere una ventina d'anni, suppergiù, ed appariva tremendamente preoccupato, e spaventato, con gli occhi color cioccolato che vagavano per ogni dove alla ricerca di chissà cosa. Diede una pacca forte sul groppone del ronzino, che scappò via lungo il sentiero, e corse verso un vicino platano, arrampicandosi in fretta e piuttosto agilmente sui rami nodosi di esso, fino a quelli più alti, nascondendosi nel fogliame fitto. La Driade si incuriosì parecchio per il fare di lui, ma il trambusto non era terminato. Altri cavalli, altra polvere nuvolosa in aria, due uomini incappucciati di nero sfrecciarono sul sentiero frenando a rotta di collo.
«Te lo sei fatto scappare, idiota!» disse uno dei due, rivolto al suo compare.
«L'avevo detto, che avremmo fatto meglio a incatenarlo al carro! E non dare sempre la colpa a me!» rispose a sua volta l'altro, piuttosto irritato «Muoviamoci, non può essere andato lontano!»
Detto questo, spronò il cavallo, imitato dall'altro immediatamente, e ripresero la loro corsa nella foresta, ignari del fatto che la loro preda si fosse fermata in quel punto, riuscendo a sfuggire dalle loro grinfie. Le foglie del platano su cui il ragazzo si era arrampicato frusciarono di nuovo sommessamente, ed egli fece capolino con un balzo, atterrando sul selciato quasi senza fare rumore. Guardò nella direzione verso la quale i due uomini erano corsi via, respirando affannosamente e sistemandosi addosso la tunica. Una volta forse era bianca. Difficile dirlo, ora, che era imbrattata di fango e sabbia. Paidès non aveva perso un attimo della scena. La sua curiosità era stata più forte della paura di essere scoperta, e ora guardava con maggiore attenzione i lineamenti del ragazzo, sottili ed affilati, un viso di porcellana sotto una zazzera di capelli castani di media lunghezza, quasi alle spalle, le mascelle e il mento coperte di una leggera barba. Ma quello che più l'aveva colpita, erano stati gli occhi di lui, che anche sotto l'evidente preoccupazione mostravano una viva intelligenza e ferma curiosità. Il ragazzo si voltò dalla parte opposta a quella dei suoi inseguitori, prendendo a correre di nuovo a perdifiato.
«Aspetta!»
Paidès si pentì immediatamente di aver fiatato.
Il ragazzo si fermò irrigidendosi di colpo. Solo allora Paidès si avvide del pugnale che aveva alla cintura, e che egli non pensò due volte a sguainare, voltandosi di nuovo verso il platano su cui si era nascosto, tanto vicino al cespuglio oltre il quale era eclissata la Driade.
«Chi c'è?! Vieni fuori!»
La voce del ragazzo era stentorea, tanto da incutere rispetto, ma non si poteva non cogliere in essa una nota di paura, forse per il pensiero di non essere solo come pensava in quel luogo. E seppure la voce che aveva percepito fosse quella cristallina ed inconfondibile di una donna, poco gli importava, doveva venire fuori e palesarsi.
Paidès non avrebbe saputo dire cosa la spinse ad alzarsi da come era rannicchiata, sbucando fuori dal cespuglio. Le trasparenze del vestito che indossava non la imbarazzavano, lei in fondo aveva l'ingenuità di una ragazzina, non contaminata dalle malizie del mondo. Camminò lentamente verso il ragazzo, a testa alta e con un'aria tremendamente curiosa stampata sul volto.
«Chi sei?» chiese la Driade al ragazzo.
Il ragazzo guardò la donna che gli era apparsa di fronte, ma non riuscì a sostenerne la vista per più di qualche secondo. Era talmente bella che posare gli occhi su di lei troppo a lungo gli mozzava il fiato. Distolse lo sguardo e scosse il capo, come a voler scacciare un pensiero molesto che si era fatto avanti.
«Questo dovrei chiederlo io a te, visto che sei sbucata dal nulla sul mio cammino. Vattene, è meglio per te!»rispose il ragazzo, scontroso ed irato, brandendo il pugnale contro di lei.
Paidès rise di vero cuore.
«Non puoi farmi niente con quello, ti avverto» lo schernì, il viso atteggiato a un grande sorriso, dal quale emergeva la fila candida dei denti superiori. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, nervoso.
«Scommetto che invece potrei tagliarti la gola senza problemi, se solo lo volessi. Ripeto, vattene e lasciami in pace!»
Il ragazzo era sempre più titubante nel parlare. Chi era, questa donna mezza nuda al centro di una foresta disabitata?!
«Oh, puoi provartici, se vuoi. Ma temo scheggeresti solo la lama. Non puoi uccidere una Driade con un coltello».
L'arma cadde dalla mano del ragazzo. Quella donna era definitivamente una pazza. Paragonarsi a una semidea, quale affronto! Si chinò a raccoglierlo e la guardò di soppiatto.
«Senti, non ho intenzione di perdere altro tempo con una matta. Devo alzare i tacchi da questo posto!»
E dando nuovamente le spalle alla Driade, il ragazzo riprese a correre per la sua strada. Paidès chiuse gli occhi, e portò le mani davanti al petto, giungendole fra di loro come fosse in preghiera. Gli alberi che erano ai lati del sentiero si piegarono verso la strada, bloccando il passaggio del ragazzo.
«Ma che accidenti...?!» Il ragazzo era completamente stranito. Si voltò, spaventato, guardando Paidès in quello strano atteggiamento, e poi tornando a guardare la selva, che si era chiusa come obbedendo a una forza divina. Era davvero una Driade, quella donna? Il ragazzo deglutì spaventato, quasi tremante. Non bastava tutto quello che gli era successo. Ora anche questo!
«Non aver paura di me. Non ti farò alcun male».
La voce della Ninfa era così soave che ebbe sull'animo del ragazzo l'effetto di un balsamo, rincuorandolo dolcemente. Prese un grosso respiro e si girò di nuovo, tornando presso di lei.
«D'accordo, Driade, ti credo» ammise, alzando le spalle come se fosse impotente davanti alla verità che quella donna era davvero una semidea «Cosa vuoi da me?» aggiunse poi, con tono molto più remissivo rispetto a quello con cui l'aveva aggredita poco prima. La Ninfa lo guardò con aria furba e nel contempo, dolce come il miele.
«Il mio nome e Paidès. E voglio allontanarti il più possibile da quei due» disse lei, con tono tanto flebile quanto deciso, invitando il ragazzo a seguirla.


***


Orthòs, questo il nome del ragazzo, seguì la Ninfa titubante, fino alla radura dove riposava maestosa la grande quercia, simbionte di Paidès. Si fidò di lei immediatamente, dopo quell'attimo di incertezza che aveva avuto all'inizio nei suoi confronti, e seguì quella leggiadra essenza candida per i sentieri, fino a restare senza fiato davanti alla maestosità di quell'imponente monumento della natura. Seduto sotto le sue fronde, insieme alla Driade, le raccontò tutta la sua storia, d'un fiato, come se volesse sfogarsi.
«Non sono io, il buono, in questa storia» aveva esordito, con un sospiro, rannicchiando le ginocchia al petto e gettando il coltello lontano, alla sua destra «Sono un assassino. Non volevo farlo. Io... volevo soltanto la collana d'oro di quella ragazza. Non volevo ucciderla. Ma lei gridava, e urlava che mi avrebbero condannato per furto, chiamava le guardie... le ho spezzato il collo, senza neanche pensare a quello che facevo, non ero padrone della mia forza, avevo paura che mi incarcerassero. Non volevo».
Orthòs guardò la Ninfa, sdraiata accanto a lui, che lo guardava placida nonostante egli le stesse raccontando di un omicidio. Lo guardava e taceva, come se volesse far sua ogni singola parola venisse fuori dalle labbra del ragazzo. A parole spezzate, con vera tristezza, Orthòs raccontò della sua misera vita e di come, orfano, fosse stato preso in custodia da un uomo, rivelatosi poi per un delinquente. Lo aveva avviato al ladrocinio, piccoli furti all'inizio, poi bottini più seri, fino a derubare le ricche possidenti greche di passaggio nel villaggio non troppo lontano dalla foresta, dove aveva in pratica sempre vissuto. Più di una volta era stato vicino all'essere preso, e alla fine, l'aveva combinata grossa. D'un tratto, si mise a piangere come un bambino, stringendo la fronte alle ginocchia e le ginocchia al petto, strette fra le braccia.
«Non volevo, non volevo...» singhiozzò ancora. Paidès si rialzò da terra, e gli passò una mano tra i capelli «Sono un assassino, non merito di vivere, quella ragazza non mi aveva fatto niente, sono... uno sporco ladro, un omicida, e un vigliacco perché scappo via dalla giusta condanna che meriterei!» 
La Ninfa gli prese il volto tra le mani, costringendolo a rialzarlo da come lo teneva chinato sulle ginocchia, e sorridendogli benevola, scuotendo appena appena la testa, con i capelli morbidi che seguivano ondeggiando quel leggero movimento.
«Vedo del buono in te. Resta qui. Resta qui con me. Non tornare più» gli sussurrò, avvicinando il suo viso a quello di lui. Profumava di selce e rugiada. Orthòs la guardò come ipnotizzato.
«Resto qui» disse infine, dedicandole il primo, vero sorriso da quando l'aveva incontrata.
In quella foresta, in un luogo così fuori dal tempo e dallo spazio, dove l'irrazionale diveniva realtà e la realtà si sfocava fino a essere un misero puntino insignificante, poteva davvero esistere giustizia per un iniquo? Poteva davvero essergli perdonato il suo errore? Gli occhi incantevoli di Paidès gli dicevano di sì.

 

***


Paidès camminava tranquilla verso la radura. Aveva lasciato Orthòs a riposare sotto la quercia, stanco per l'essere scappato così di fretta e di furia, e si era allontanata in cerca di bacche, conscia com'era che quello che per lei era un vezzo, il nutrirsi, per lui era necessità assoluta. Aveva raccolto una gran quantità di bacche selvatiche di diverse qualità, e teneva stretti fra le mani gli orli della veste, sollevata a mò di cestino davanti al grembo, per poterli trasportare fino alla radura. Aveva visto davvero del buono, in Orthòs. Quello che la vita gli aveva riservato era stato il percorso più traviato e meno diritto che si potesse affrontare, ma lei non gliene faceva colpa. Se di necessità era stato contretto a sbagliare, più e più volte, fino all'errore estremo, perchè non provare a rimetterlo sulla retta via? Perché consegnarlo nelle mani di una giustizia che troppo spesso a scovare la pagliuzza nell'occhio dell'altro era sveltissima, ma non vedeva la trave nel proprio? La Driade era convinta della purezza dell'anima del ragazzo, e non l'avrebbe condannato mai, mai gli avrebbe ricordato l'accaduto, se non per fargli capire quanto in realtà la sua vera natura fosse diversa, da quello che l'avevano costretto ad essere.
Su questo rifletteva, mentre tornava placida a quella che era la sua casa. E Orthòs era ancora lì, disteso, che dormiva, mentre il sole di lontano, verso l'occidente, andava tramontando. La Ninfa sorrise con dolcezza, ma qualcosa non andava. Il ragazzo sembrava non respirare quasi. Mano mano che si avvicinava, Paidès si accorse dell'estrema innaturalezza con cui giaceva a terra: la schiena era orribilmente deformata, quasi ad angolo retto, e una pozza di sangue giaceva sotto la sua testa. Lasciò andare il vestito che ancora stringeva tra le mani, e le more caddero a terra sparpagliandosi, il loro colore rossastro si miscelò con quello puro del sangue del ragazzò. Una smorfia di dolore si dipinse sul volto di lei, mentre si chinava inorridita sul corpo del ragazzo, che a discapito di quanto sembrava, respirava ancora.
«Orthòs...che ti hanno fatto!» sussurrò la Ninfa, la voce le tremava e malferma nascondeva le lacrime che erano salite ai suoi occhi. Pose delicatamente una mano sotto la guancia del ragazzo e per quanto poteva gli sollevò il capo. Egli riuscì a malapena ad aprire gli occhi, era stato duramente malmenato, ed il sangue sgorgava da una profonda ferita sulla tempia. Quando si accorse che Paidès era inginocchiata accanto a lui e lo teneva stretto, seppur con delicatezza, un sorrisò affiorò sulle sue labbra.
«A-avevi ragione... c-c'era davvero de... del buono in... me...» balbettò, respirando a fatica, in un alito di voce che lasciava trasparire le sue pessime condizioni. «Sono tornati e... e n-non... non sono scappato. Era giusto c-che... che pagassi per il mio... errore».
Orthòs riprese fiato, sorridendole di nuovo. Paidès aveva gli occhi offuscati dal pianto, e una lacrima cadde dall'angolo esterno del suo occhio giù, sulla guancia del ragazzo.
«C-credo che... mi abbiano ro... rotto la schiena... ma nnon fa poi tanto... male... anche se non... non sento le g-gambe».
Il viso del ragazzo divenne una smorfia di dolore. Non ci sarebbe stato molto tempo, prima della sua dipartita. Paidès guardò impietosita la schiena spezzata del ragazzo, passandovi una mano. Il suo cuore piangeva sangue per la triste sorte di quella povera anima, che seppur incontrata da poco, tanto si era fusa con la sua. Le pareva quasi di sentire il dolore di lui fin dentro le ossa, fino nel più profondo dei visceri. Proruppe in un pianto straziante, alzando il viso al cielo. I rami della grande quercia, amorevole protezione di sempre, si stagliavano su quella scena tanto commovente quanto triste. Paidès lasciò lentamente a terra la testa di Orthòs, e si alzò in piedi, posando una mano sulla corteccia dell'albero. La accarezzò dolcemente, come una madre farebbe col proprio figliolo, e l'occhio poi le cadde in terra, dove giaceva ancora il coltello che Orthòs aveva gettato via. Un sospiro le squassò il petto. Si chinò e raccolse l'arma da terra, rigirandosela fra le mani per qualche attimo. Poi, con decisione, la conficcò nella corteccia della quercia.

 

***


Fu come infilarsi una lama dritta nel cuore. La Ninfa provò un dolore indescrivibile, quello che stava facendo al suo albero lo stava facendo a se stessa, e in uno spasmo di coraggio vinse quella sensazione di essere tagliata in due, continuando a penetrare con la lama nella corteccia e scendendo in basso. Sferzava la sua anima, ma non le importava, nessuna ferita era visibile su di lei, ma temeva di non riuscire a resistere ancora a lungo. Un nuovo sguardo sul ragazzo ormai agonizzante le diede la forza di finire quello che aveva iniziato, e col coltello ricavò una lunga asta di legno, staccandola con fatica dal resto del tronco. Le schegge le si conficcavano nelle dita, ferendola. La quercia si ribellava all'essere così maltrattata.
«Ti prego» sussurrò la Driade, nella ferita inferta alla corteccia. «Scusami».
Lasciò cadere il coltello, ansimava vistosamente per il dolore provato. Alzò di nuovo lo sguardo al cielo, la notte stava quasi per calare sulla radura. Si inginocchiò di nuovo accanto ad Orthòs, e ridusse a brandelli parte della sua veste, ricavandone delle strisce di stoffa. Lentamente, con grande delicatezza, appoggiò l'asta di legno alla schiena del ragazzo, e chiudendo gli occhi, cosciente del dolore che stava per infliggergli, la trazionò fortemente, raddrizzandola con un solo colpo. Orthòs gridò forte, in una maniera straziante, ma Paidès lo ignorò, e usò le strisce di stoffa dell'abito per legare l'asta dietro la schiena di lui, che respirava ormai a malapena.
«Alzati» gli ordinò, con voce ferma.
«... non ce la faccio» rispose lui, singhiozzando per il dolore.
«Alzati, ti dico» ripetè la Ninfa, in tono perentorio.
Orthòs respirò forte due o tre volte, poi si fece coraggio. Sì alzò lentamente sulle braccia, l'asta di legno lo teneva dritto, come se sostituisse la sua spina dorsale, ed improvvisamente sentiva di nuovo le sue gambe, le percepiva, poteva muoverle a suo piacimento. Si rimise in piedi con molta fatica, ma quando provò a fare un passo avanti, fu come se una forza magnetica lo tenesse fermo, vicino alla grande quercia. Alzò gli occhi su Paidès, stupito e dubbioso. Lei gli sorrise, ancora stremata per lo sforzo di avere inferto al suo albero una ferita così profonda.
«Resterai vivo, Orthòs, ma la tua vita è legata a lui» la Ninfa accarezzò di nuovo la corteccia del grande albero. «Esattamente come la mia» aggiunse poi, abbracciandolo insieme all'albero, per quanto poteva. Un lampo di luce rischiarò la notte ormai fonda. Entrambi si fusero insieme con la pianta, ad essa legati in un abbraccio vitale indissolubile.


***


Da allora, Orthòs e Paidès non si separarono mai più. Dall'unione dei loro nomi, nacque la parola "Ortopedia", la scienza medica che raddrizza ciò che è storto, ripara ciò che è rotto, ed unisce ciò che è diviso.
 


 
ANGOLO AUTRICE:
Non vi biasimo se mi considerate un po' fuori di testa.
Inventare una leggenda su una branca della Medicina, insomma, non è proprio da persone normali. 
Ma quando si è innamorati, normali non lo si è mai. 
E io amo alla follia quella che è la mia scelta di vita e che spero sarà, un giorno, il mio lavoro.
Ringrazio Amartema per lo splendido, meraviglioso regalo del banner di questa storia.
Un vero capolavoro. Grazie, grazie e ancora grazie AmarMamma.

Vi lascio recapiti vari per contatti/insulti/complimenti (?)/rotture di scatole:
Pagina Facebook: Codivilla Vicariosessantanove Efp
Gruppo Facebook: La Canonica del Vicario
Ask: Chiedi e (forse) ti sarà detto

Alla prossima e grazie a chiunque passi di qui.

         

 

   
 
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