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Autore: haev    27/07/2013    14 recensioni
Appoggiò il braccio sul tavolo e m’indicò un segno più bianco rispetto alla sua carnagione candida, si trovava all’altezza del gomito e non era tatuato, anzi sembrava che i fiori dipinti sulla sua pelle, gli facessero da cornice.
Indicò con un dito quella riga bianca e sussurrò: «L’ho fatto perché abbiamo stretto un patto. – E mi fissò negli occhi, – O non ricordi chi ero undici anni fa?»
[...]
«Perché?» domandò.
«Sono strano, e diverso.»
«Non è una spiegazione sensata, Louis. – Rispose,– Ognuno è diverso a modo proprio.»
«Per lui è un motivo molto accattivante, me ne sto sempre per conto mio.» sputai fuori.
«Non hai amici?» chiese con un leggero tremito della voce.
Scossi il capo: «No.»
[...]
«Mi serve.» biascicò Seline.
«Da quanto non lo fai?» domandò il ragazzo scrutandola, i suoi occhi azzurri brillarono in controluce con il fuoco.
«Due mesi e cinque giorni.» ringhiò dopo aver fatto un breve calcolo.
«I soldi?» chiese prudente.
«Coglione, mi tasti il culo e non li trovi?» sorrise la ragazza.
Mentre la mano del riccio si riempiva di cento dollari, quella di Seline si riempiva con una bustina.
Genere: Mistero, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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‘And I walked this line,
a million and one fucking times,
but not this time
I don't feel any shame,
I won’t apologize.’

-Jesus of Suburbia; Green Day


 

 

1
 

Abbassai il libro di fisica sorridendo e complimentandomi con me stesso per essere riuscito a capire le regole che la prof. spiegava male a ogni sua lezione. Era una di quelle insegnanti che una volta ottenuta la cattedra se ne sbatteva dei suoi alunni e spiegava in turco le regole, e noi, poveri ragazzi, dovevamo scervellarci a casa per comprenderle e prendere una minima sufficienza nella verifica o interrogazione.
Spensi anche il computer, ringraziando mentalmente un sito che m’aveva aiutato a capire le formule di cui avevo bisogno.
Non ero mai stato un grande studioso, a essere onesti, non ero uno che dava molto importanza allo studio, adoravo di più suonare il pianoforte, ma mi piaceva portare a casa buoni risultati, quindi quando c’era una verifica immergevo la testa nei libri e riempivo il mio cervello di formule.
M’alzai dalla sedia della mia scrivania e mi diressi a passo lento alla finestra, socchiusa per far entrare un briciolo d’aria. Appoggiai le mani al davanzale e iniziai a picchiettarle a ritmo d’una sinfonia di Debussy che avevo imparato l’altro ieri. Non amavo particolarmente la musica classica, ma sapevo che dovevo avere qualche brano classico nel mio repertorio, quindi, quand’ero in vena imparavo alcuni pezzi.
Il mio sguardo cadde, come tutte le sere, alla casa davanti alla mia. Più gli anni passavano e più quella casa s’incupiva, come se sapesse il motivo per cui chi vi abitava se ne fosse andato. Le pareti in undici anni, erano passate dal giallo chiaro a un grigio martoriato, spento. I balconi in ferro erano rotti e ricoperti di foglie d’edera, in alcuni potevi notare il calcare bianco. Le fessure delle porte si erano sgualcite, il legno era diventato nero, tutto rotto. Infine, vi era un ammasso di sterpaglie giallo a farle da recinto e giungere sino alle fondamenta, dove in un alcuni punti si insinuava nella casa.
Alcuni dicevano che quando la famiglia Tompson s’era trasferita, quella casa era stata abitata dai fantasmi o spettri morti, cercando di trovare l’assassino che li aveva ridotti in quello stato, ma io sapevo che erano tutte fesserie, e quella casa era abitata solamente da qualche corvo durante l’inverno e una marea di roditori, alcune volte vedevo qualche barbone infilarvi dentro per trarre rifugio durante la notte. Non c’era nessuno in quella casa, e molto probabilmente, nessuno ci sarebbe mai stato, a meno che qualche buon’anima avrebbe risvoltato le sue maniche e l’avrebbe riaggiustata e poi messa in vendita, ma non era da un cittadino di Santa Barbara quell’atteggiamento.
Sentii il rumore di una macchina provenire dalla via, e rientrai di corsa in camera, spegnendo e buttandomi sotto le coperte. Sapevo che al mio patrigno non piaceva che ero ancora sveglio quando tornava dal lavoro, forse perché aveva paura di sentire i suoi grugniti con mia madre nella camera da letto, ma ero pur certo che se stessi dormendo, mi sarei svegliato per quanto urlavano forte.
Appoggiai la testa al cuscino e chiusi gli occhi, dopo neanche cinque minuti, udii la porta aprirsi e il capo rotondo di Bob sbucare dalla mia porta per vedere se dormivo. La porta della mia stanza si richiuse frettolosamente e prima che potessi cadere nel sonno, sentii un urlo di piacere.
 
Chiusi la porta della biblioteca con cauto silenzio, consapevole che a quell’ora non si potrebbe stare in biblioteca poiché orario di lezione, ma saltavo spesso le lezioni di religione e mi rintanavo in biblioteca con un buon libro, ormai il professore c’aveva fatto l’abitudine e non mi chiedeva nemmeno di rientrare presto in classe, consapevole che non l’avrei fatto.
Afferrai un romanzo dalla mensola e m’accomodai a un tavolo, iniziandolo a leggere. Mi piaceva leggere nel più totale silenzio, se c’era anche solo un rumore in lontananza non riuscivo a concentrarmi abbastanza da entrare nel libro e immedesimarmi nei personaggi, quindi ci rinunciavo e facevo qualcosa d’altro. Si dà il caso che in biblioteca, c’era un tombale silenzio, quindi ebbi la possibilità di immedesimarmi nel medico che cercava di aiutare un bambino autistico.
Boom.
Alzai la testa di scatto, mentre il cuore prendeva a battere fortissimo e le mani si gelavano intorno alla copertina del libro. Tornai a leggere pensando che quel rumore fosse stato solamente frutto della mia immaginazione. Sapevo che nella biblioteca non c’era nessuno forché io, non c’era mai nessuno in quell’ora.
Boom.
Di nuovo, ora a gelarsi non erano state solo le mani, ma pure le gambe e le braccia. Il fiato era corto per cercare di calmarmi, e mi sentivo un bastone, incapace di muovermi. Abbassai lo sguardo e mossi le dita dei piedi all’interno delle Vans, poi m’alzai.
Tenevo le mani rivolte in avanti, pauroso che un qualcosa poteva comparire da un momento all’altro e farmi andare direttamente nel paradiso. Volsi lo sguardo dietro un armadio da cui avevo sentito provenire il rumore e fui sollevato, notando che non vi era nulla, tirai un sospiro di sollievo, ma mi agitai di più nel vedere solamente un paio di libri caduti sul pavimento.
Chi li aveva fatti cadere? E soprattutto, perché non m’ero accorto prima che in biblioteca c’era qualcun altro?
Scossi la testa e pensai che ero troppo immedesimato nella lettura e m’ero immaginato quei rumori, perché era ovvio che quei libri si trovavano già così prima del mio arrivo.
Sollevato da quell’idea li rimisi sullo scaffale, poi tornai con un mezzo sorriso al mio tavolo.
Feci un passo indietro e trattenni un urlo.
Lì sul tavolo, con i piedi appoggiati alla sedia, c’era una ragazza che leggeva tranquillamente un libro.
La osservai e m’accorsi che non l’avevo mai vista, d’altronde una tipa come lei non passava inosservata nemmeno in una scuola di mille allievi.
I capelli erano acquamarina e le ricadevano in boccoli fino alle spalle, teneva il viso abbassato, ma potei immaginare ch’era d’un ovale perfetto.
Potei notare le gambe magrissime e le braccia fragili, quest’ultime erano coperti da vari tatuaggi che ritraevano alcuni fiori, teschi e alcune scritte, scorsi pure una data; i polsi erano coperti da braccialetti.
Il petto minuto era racchiuso in una camicetta nera senza maniche e le gambe erano fasciate in un paio di legging a fiori neri, ai piedi indossava degli anfibi neri.
La osservai e mi sembrò familiare, anche se non l’avevo mai vista.
«Che hai da guardare?» la sua voce era incredibilmente dolce, anche se cercava di emanare un tono serio e scontroso.
«Io? Oh, nulla, nulla.» mormorai abbassando il capo e scuotendolo, non ero abituato a parlare civilmente con le persone, per lo più erano loro che mi davano ordini.
La ragazza posò il libro sul tavolo e picchiettò le mani sulle ginocchia, poi tossì e mi guardò con un sorriso beffardo.
Fui costretto ad abbassare lo sguardo da quegli occhi neri, così profondi, sembrava vi fosse un mare in tempesta dentro quelle perle. Per non parlare delle labbra, così morbide e perfette, coperte da quel rossetto rosso, e in più quel piercing le dava un’aria così azzardata.
Infine le guance rosse, in netta contrapposizione con il resto del viso ch’era bianco cadaverico, come se fosse quello di un fantasma.
Quel viso era un viso d’angelo reso con quel trucco e quel piercing, un viso da diavolo.
Posò le braccia sulle ginocchia secche e mi fissò: «So quando qualcuno mi guarda. – Si batté le mani sulle ginocchia, gesto che mi dava particolarmente fastidio, – Comunque, sono nuova, come ti chiami?» domandò.
«Louis.» risposi osservandola per cercare di capire cosa volesse da me, anche se non trovavo nessuna risposta.
«E’ un peccato che non possa venire in questa scuola.» mormorò sorridendo e fissandomi, notai nei suoi occhi una scintilla di comprensione.
La guardai stranito, e allora che ci faceva lì?
«Ma questa è l’unica scuola della città.» risposi chiedendomi dove potesse andare.
Sorrise beffarda e si picchiettò un’altra volta le mani sulle ginocchia, poi rispose: «Oh, ai criminali non è concesso d’andare a scuola, Louis. – Mi fissò sorridente e poi scosse la testa, i boccoli le danzarono intorno al viso, – Posso rimanere qui?»
Non potei far altro che annuire, senza parole.
Mi riaccomodai dall’altro capo del tavolo, posando il libro e prima di continuare a leggere, la scrutai. Sembrava indifferente a tutto quello che aveva intorno, come se fosse spuntata fuori da un film con la differenza che lei era reale e interpretava se stessa.
Non potei non pensare che tralasciando la sua stranezza, fosse molto bella.
Sapevo anche che però, io, non potevo certo avere nessuna possibilità con lei, non ero mai stato preso in considerazione da nessuna ragazza, troppo strano per loro perché mi piaceva leggere e suonare il piano, cose troppo all’antica per le ragazze di oggi.
Scuotendo la testa ritornai a leggere, ma non riuscii a concentrarmi perché lei continuava a picchiettare le sue mani sulle ginocchia, in un ritmo che a me pareva assordante, all’inizio cercai di non farci caso, ma notai che era un tic che aveva.
Mi dava ai nervi quel suo tic, non c’era nient’altro che potesse fare?
E poi, come faceva a leggere e battere le mani insieme?
Poggiai il libro sul tavolo e chiesi gentilmente: «Potresti smetterla?»
Smise di leggere e m’incendiò con gli occhi neri: «Di far cosa?»
«Di picchiettare con le mani. – Risposi sorpreso, possibile che non si rendesse conto di quello che faceva? – Mi dai fastidio.»
Sorrise e rispose: «Allontanati, allora.»
Strabuzzai gli occhi, l’idea che m’ero fatto di lei d’un tratto crollò nella mia testa, portandomi a un sentimento di astio nei suoi confronti. Come poteva essere così maleducata? Le avevo offerto di rimanere lì e mi diceva di andarmene? Per di più, era una biblioteca, era regola che vigilasse il massimo silenzio.
«E’ una biblioteca, questa.»
Scoppiò in una risata sommessa, «Hai finito di rompermi? E’ una biblioteca, appunto. Luogo pubblico, può venirci chi vuole.»
Alzai le sopraciglia, ma non dissi nulla, sembrava talmente cocciuta che nemmeno un sasso lanciato in testa le avrebbe fatto cambiare idea, così appoggiai i gomiti al tavolo e mi serrai le orecchie con le dita, rendendo tutti i rumori più ovattati.
Riuscii a leggere nonostante alcune volte batteva troppo forte, finché non sentii più nulla, così alzai la testa e notai che stava rollando una sigaretta.
«Ma che fai?» esclamai sorpreso.
«Che ti urli? – Fu la sua risposta, cercai di tenere i nervi saldi e non dimostrarle il mio pensiero nei suoi confronti, – Non la fumo qua, stupido.»
Passò un minuto in cui rimasi lì in preda all’ansia pensando che la iniziasse a fumare, facendo suonare l’allarme anti-incendio, ma la campanella suonò prima che potesse prendere l’accendino.
La ragazza balzò in piedi e si diresse verso la finestra, dove s’arrampicò e uscì, la guardai sorpreso, pensando che avrebbe usato un’altra via, ma poi mi ricordai che m’aveva detto che era una criminale e non poteva stare in quella scuola, mi chiesi come aveva fatto a entrarci.
«Oh, e comunque. – La sua testa sbucò fuori dalla finestra, sorridendomi gentile, – Sono Seline.»
E prima che potessi ribattere, s’era già volatilizzata.
Strabuzzai gli occhi.
Non poteva essere vero.



Angolo autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera! 

E tadadaaaaan! Eccomi qui con una nuova FF c:
Penso che molte di voi mi conoscano per
 Onset (se volete dargli un'occhiata, cliccate sul nome) e altre FF che troverete nel mio account, ma questa è una storia molto differente dalle altre. 
Tanto per cominciare avrà un solo personaggio dei ragazzi, ossia Louis, e come avrete capito è scritto secondo il suo punto di vista (spero che riesca a immaginarmi bene nei pensieri di un maschio) e per di più, non è famoso.
Poi, poi ci sarà questa Seline, v'avverto che i capitoli dedicati a lei saranno scritti in terza persona, perché a me piaceva così. 
Ci sarà molto mistero in ogni capitolo, a partire da questo, chi è Seline? Perché Louis se la ricorda? E' davvero una criminale?
Si capirà tutto mano a mano, non preoccupatevi. 
Beh, questo è solo il primo capitolo, e penso che abbiate le idee abbastanza confuse, per questo, se avete qualche domanda o dubbio, non esitiate a chiedermelo. 
Infine, beh, spero d'avervi stupite! ((:
Ah, ultima cosa. Aggiornerò molto raramente, una volta ogni due settimane, credo. Questo perché siete in vacanza, e io devo scrivere i capitoli di questa FF e dell'altra, e voglio prima di tutto terminare Onset, per questo, mi dedicherò più a quella, senza trascurare questa, ovviamente. 

Spero recensiate in tante!

A presto,
Giada.

Crediti al banner per: hjsdjmples
  
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