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Autore: Ely79    29/07/2013    3 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 7
7

«Doppia da mezzo pollice» disse piano Boy, ogni parola sottolineata dal leggero tintinnio dei piercing.
Una mano callosa sfiorò la sua, più esile ma altrettanto ruvida, posandovi con cautela il pesante attrezzo. Reggere le undici libbre di quell’affare, con il braccio completamente allungato all’indietro, era un’impresa titanica. Non era ancora abituato a maneggiare con disinvoltura quegli utensili. Regolò i colli dei becchi contrapposti, estendendoli quanto bastava per agganciare entrambi i fermi. Controllò che le sicure fossero in posizione, rimediando nuovi tagli sulle dita, e si accinse a innestare la chiave a doppia torsione, ma un pensiero lo trattenne. Fece per appoggiare lo strumento ai bulloni, interrompendosi un altro paio di volte. Infine, tese la serratrice al maestro, senza voltarsi.
«Tre ottavi» corresse.
Ozone, poco indietro, sorrise compiaciuto. Il suo discepolo stava facendo enormi progressi. Quando alcuni mesi prima aveva espresso il desiderio di passare alla sezione motori della “Legendary”, abbandonando anche se solo in parte il suo status di apprendista generico, Clay non si era dimostrato molto ottimista. La sua smania di fare lo preoccupava e ne aveva parlato profusamente al meccanico:
Non possiamo rischiare di perdere tempo a insegnargli cose che non gli entrano in testa nemmeno a martellate, aveva detto. Se ti accorgi che non è il suo settore, lo sbatto a levare morchia dalle sottocoppe da mattina a sera.
Tuttavia, Ozone era stato colpito da alcune peculiarità del ragazzo, oltre che da un paio di pezzi di ricambio piovuti dagli scaffali mentre questi vi rovistava furiosamente su suo ordine. Era sveglio e assorbiva le nozioni come una spugna asciutta assorbiva l’acqua; messo nelle giuste condizioni, i suoi ragionamenti filavano lisci come l’olio, rapidi più delle pale d’una turbina turbocompressa; e soprattutto, capiva. Recepiva le sue indicazioni senza che aprisse bocca, attraverso una sorta di osmosi catartica, che finiva col rivelare le sue reali abilità. Un autentico colpo di fortuna, un dono senza pari, e Jessie neppure se ne rendeva conto.
«Okay, la pompa è sigillata. I collettori principali sono pronti per l’innesto, i secondari già avvitati e vanno solo stretti. Gli accumuli sono lì, con tutti i tubi per l’acqua in entrata e in uscita. Lì abbiamo le vasche di combustibile con i nastri di carico. Passo alla turbina?» domandò l’apprendista, sfregando le mani impaziente.
Ozone negò lentamente, invitandolo con lo sguardo acquoso a passare in rassegna i componenti una seconda volta. Boy obbedì, facendo tabula rasa del precedente conteggio.
«Pompa, collettori, fascette, accumuli, condotti, copiglie, estrattore uno e due, nastro di carico, serbatoio combustibile, serbatoio acqua, linea di adduz… cazzo» sospirò, battendo la mano sulla fronte e procurandosi una fitta terribile centrando ben tre piercing in un colpo. «La vaporiera».
Se fosse stato solo, con ogni probabilità avrebbe dimenticato di assemblarla. Era stato preso dalla realizzazione della pompa d’iniezione al punto tale d’aver scordato l’elemento fondamentale: la cella di produzione del vapore. Un breve battito di mani dichiarò la soddisfazione del maestro.
«Visto che lo sapevo? Sei un malfidato» rise altezzoso, ricevendo uno scappellotto sulla nuca e l’indicazione di dirigersi alle scale.
Boy impiegò qualche secondo per comprenderne il motivo.
«Dai, porca… fai finta di niente, vecchio! Mi servono» si lamentò.
Lo sguardo di bonario rimprovero che ricevette gli animò i nervi.
«Mi servono! Non voglio darglieli!» ribadì, schizzando nel magazzino.
Quando tornò, ansimando mentre trascinava la cesta con i pezzi per la vaporiera, trovò Ozone accoccolato sul suo trono, un vecchio sedile in canneté mezzo stracciato, appoggiato alla cesta degli scarti. A volte lo prendeva in giro, dicendogli che prima o poi l’avrebbe buttato in mezzo ai rottami perché non aveva notato la differenza.
Allineò sul banco quattro cilindri di ghisa e ottone dal diametro interno di due piedi, spessi tre quarti di pollice e alti mezza spanna ciascuno1; morsetti, tubi, guarnizioni e tutto l’occorrente per assemblare il nuovo cuore energetico della Fortion. Un calcetto lo fece dondolare in avanti. Jessie spiò da sopra la spalla e vide la matassa grigia dei capelli di Ozone muoversi un paio di volte.
«Ti ho detto che non me li taglio, mi piacciono così» replicò, deciso a mantenere la propria posizione.
Sapeva che non stava alludendo al lungo ciuffo di capelli bruni che gli ondeggiava davanti alla faccia nei momenti meno opportuni.
Altro calcetto, identico al precedente.
«Smettila, vecchio. Sto lavorando».
Terzo calcio, molto più forte e imperioso degli altri, al punto da stampargli la suola dello scarpone sui pantaloni. Il cacciavite saltò fuori dall’alloggiamento, lasciandogli l’ennesimo graffio sull’indice.
Ozone indicò col capo in direzione della scala, in un modo tanto perentorio che Boy sapeva non ammettere obiezioni. Lanciò l’attrezzo sul piano di lavoro quasi fosse una freccetta.
«Va bene, vado! Cos’è, ti piace quella gallina? Guarda che hai un’età, non dovrebbe tirarti più, lo sai?» ruggì, strizzandosi il cavallo dei pantaloni con entrambe le mani.
Cercò d’ignorare il risolino rasposo che proveniva dalla barba intrecciata e raggiunse a larghe falcate il Penitenziere. Prima sistemava quella seccatura e prima poteva tornare a dedicarsi al motore.
«Che bravo bambino sono. Faccio sempre i compiti» mugugnò sarcastico davanti al vaso che la mano fantasiosa di Hito aveva verniciato con un fondo nero su cui spiccavano il logo della “Legendary” e la beffarda scritta “donazioni volontarie”.
Frugò nelle tasche, mettendo insieme i due méit che lasciò cadere nel contenitore. Lo prese tra le mani e si accorse che era già piuttosto pesante. Facendolo ruotare si percepiva il lento scivolare dei tondi metallici gli uni sugli altri. Svitò il coperchio e guardò dentro: in una sola settimana, il fondo era stato ricoperto da uno strato di monete più spesso di un dito.
«Siamo dei santi» grugnì, riponendo il vaso.
Arretrò di qualche passo, osservandolo. Nella tasca, una manciata di monetine piroettava fra le sue dita. Fu la decisione di un attimo e una breve cascata di rintocchi metallici filtrò dal tappo.
«Sono un santo» precisò, aggiustando altezzoso il colletto della maglia da lavoro.
Stava per tornare alla vaporiera, quando sentì un fruscio sopra la testa. Levò lo sguardo sul ballatoio e vide Charlotte, appoggiata al parapetto di legno con la solita cartelletta fra le mani. A giudicare da come lo stava guardando, doveva aver assistito al lascito.
Ma si può sapere come fa a essere dappertutto? pensò irritato, conscio che il suo definirsi un “bravo bambino” non era passato inascoltato.
«Beh, che c’è? Mi pesavano in tasca» sbottò aspro.
La segretaria tamburellò con la penna sui documenti, pensierosa.
«Sarebbe bello se anche per gli altri fosse così, Jessie».
«Cioè?» domandò aggrottando le sopracciglia metalliche.
«I buoni esempi andrebbero seguiti» rispose sibillina.
L’apprendista rimase a guardare la tornure di pizzo sobbalzare ad ogni passo, fin quando non scomparve oltre la porta dell’ufficio. Si domandò se per caso non avesse frainteso.
«Mi ha detto che sono… bravo?» domandò perplesso grattandosi un orecchio e ficcando maldestramente un dito nella catenina che univa alcuni monili.
Tuonò alla postazione mordendosi le labbra per non imprecare, suscitando altre risatine di Ozone che, poteva starne certo, aveva visto - e forse anche sentito - tutto. Boy incassò la testa fra le spalle, dando calci all’aria. Si sentiva uno stupido, anche se doveva ammettere che nelle prese in giro del suo maestro non scorgeva mai neppure l’ombra della cattiveria.
Gli scappò una risatina a sua volta ma fu abilissimo nel ricacciarla in gola.
«Cosa ridi, vecchio? Smettila di star lì a grattartele e dammi una mano! Manca una settimana e questo coso l’abbiamo montato a metà! Dobbiamo ancora infilarlo là dentro e provare se funziona. Se non ci sbrighiamo, il capo se la prende con me e se succede puoi scordarti le tue stramaledette focacce!» brontolò.
Tanto non cambio idea. Te la facciamo pagare comunque, Chicky-Charly, promise tre sé.

***

Erano passate due settimane da quando la Fortion 8.20 era entrata alla “Legendary Customs” e quel giovedì il programma prevedeva il termine dei lavori principali per passare alle finiture. Del rottame rugginoso e lercio arrivato in officina non c’era più traccia: il profilo a goccia si era arricchito di nuovi elementi, non da ultimo il paraboloide ideato da Scorch, che dalle corte ali laterali saliva ad avvolgere la parte posteriore del mezzo. Segni colorati sui montanti e i traversi indicavano la posizione dei pannelli del rivestimento esterno. Tre coppie sovrapposte di fari all’acetilene diventavano le generatrici delle linee di tensione che dall’anteriore salivano a incontrare il bordo dell’abitacolo.
«Forza gente, entro stasera voglio vedere su il rivestimento, dev’essere pronta per il colore» annunciò Clay infilando nei pantaloni la logora canottiera con il Terrier, incurante della leggera pinguedine dei fianchi che sporgeva oltre la cinta. «Ozone, No Way, Boy. Quanto per il motore?»
«Il tempo che serve, capo. Lo stiamo testando» biascicò Jack, stropicciandosi un occhio.
«Lo voglio per ieri!» tuonò.
«Allora è già fatto» corresse prontamente Boy.
Clay si appoggiò di peso allo scheletro della Fortion, che non emise alcun suono né traballò.
«Non provare a prendermi per… i fondelli. Ci siamo capiti, ragazzino?» lo redarguì.
L’apprendista mimò l’atto di chiudere a chiave la bocca, scusandosi con un cenno della mano.
«Meglio se continui così, non abbiano tempo da perdere. La consegna è dietro l’angolo, ti voglio vedere lanciato a mille come stavi facendo in questi giorni» l’avvertì con un mezzo sorriso d’approvazione. «Odrin, quando puoi cominciare con il rivestimento interno?»
«La tela è tagliata, l’ho verificata sulle partiture e numerata. Montate due pannelli e comincio» rispose aggiustando il robusto collare cervicale di cuoio che indossava per quel tipo di operazioni.
«Ottimo. Gente, all’opera e dateci dentro o dirò a Maria Pilar di dare il vostro pranzo alla mensa dei poveri».
«Ehi, io sto già facendo beneficenza!» protestò seccato Choncho.
Iron e Patch si occuparono della fiancata destra, mentre Clay e Pancake procedettero sul lato opposto. Le pistole a vapore compresso presero a pulsare senza sosta, spingendo bulloni e rivetti nei rispettivi alloggiamenti, secondo ritmi geometrici precisi. Choncho, infilato sotto l’aeromobile, saldava i rivestimenti del pianale. Barlumi azzurri gettavano ombre sfrigolanti sul pavimento di cemento.
Odrin portò il primo carico di teleria interna e s’infilò nello scheletro d’acciaio, strisciando sotto la carrozzeria e arrivando alle spalle del vano motore. Al di sotto del rivestimento metallico cominciò a prendere forma la seconda pelle della muscle-ship, un bozzolo di tela Olona2 in canapa e seta impregnata di resina naturale idrorepellente e bordata di cuoio, che avrebbe isolato ingranaggi, tubi e interni da eventuali correnti d’aria, infiltrazioni di sporcizia e acqua.
Al contrario di un fiore, la Fortion si chiudeva nella propria corolla per mostrare la sua nuova magnificenza al mondo.

***

Il sole di fine aprile disegnava ombre grigie e violette sullo spiazzo dell’officina, velando i cassoni dei rifiuti e le sei airship in attesa di essere rielaborate. Hito sedeva in un angolo del cortile, approfittando della temperatura mite per provvedere alla pulizia degli strumenti per la verniciatura.
«Come procede l’opera?» domandò la voce impastata di Clay alle sue spalle.
«Tu che dici?» replicò senza scomporsi, la faccia nascosta dai lunghi capelli neri che ricadevano in avanti come una tenda.
«Non ho voglia d’indovinelli il lunedì mattina».
Il tono burbero costrinse l’artista a guardare il capo. Aveva gli occhi stretti in fessure cupe, la faccia di chi aveva un travaso di bile. Lo vide passare rabbiosamente le mani sulla faccia, segno inequivocabile che aveva preso sottogamba delle palesi avvisaglie di guai.
«Scorch non si è presentato» latrò. «Me lo sentivo che non sarebbe durata, era troppo allegro. E io che ci avevo sperato, cazzo» soggiunse amaro, calciando lontano un incolpevole sasso.
«Avevi bisogno di lui?»
Lomann soffiò furente dalle narici. Non era quello il problema, lo sapeva benissimo. Era vedere la sua fiducia calpestata per l’ennesima volta che lo mandava in bestia. Si sentiva un imbecille, lo scemo che continuava a cascare nell’identico raggiro.
«Che differenza fa? Non è qui» rispose infine, ma la verità era che ai suoi occhi faceva un’enorme differenza.
Hito riprese la pulizia dell’attrezzo con calma olimpica. Prese una siringa colma di liquido trasparente e lo iniettò nel tubicino d’aspirazione dell’aerografo. In capo ad alcuni minuti un ricciolo di sedimento scuro e gommoso si avvitò nell’aria, precipitando nel secchio, seguito da frammenti di vernice coagulata e solvente.
«Odio ripetermi, ma i tuoi slanci d’altruismo stanno diventando dei paraocchi. E tu, per quanto grosso, non mi sembri un cavallo» commentò Hito, mordicchiando il labbro sguarnito dell’abituale sigaretta.
«Non mi hai detto come stai procedendo. Sei nei tempi?» ringhiò indispettito Clay.
Il verniciatore decise fosse meglio stare al gioco, evitando di sollevare obiezioni. Sciacquò gli strumenti nel secchio e si diresse al Sancta Sanctorum del suo mondo, seguito da Clayton.
Clay aveva visto le lastre campione qualche giorno prima e aveva dato il suo assenso, più per fiducia nei confronti delle scelte dell’amico che per essere riuscito a figurarsi la resa finale dell’intervento. Hito era il migliore in quel campo, non aveva rivali. E di lui poteva veramente fidarsi a occhi chiusi.
Accanto alla cabina di verniciatura c’erano due stanze: la prima, adiacente la struttura, era stipata di tubi di gomma, bidoni di vernice variamente etichettati, valvole e manometri per il controllo della pressione del fluido nel suo tragitto verso gli spruzzatori. La seconda aveva l’aspetto lindo e diafano di una cella monastica. Sotto la finestra, realizzata con un’unica lastra di vetro affinché la luce l’attraversasse senza gettare ombre, era collocato un tavolo basso, molto lungo e stretto, sotto cui erano ordinatamente impilati campioni sigillati di vernici. Di fronte a questo, una semplice stuoia.
Hito s’inginocchiò con eleganza al desco. Prese due piccole latte di metallo, le dispose con gesti lenti e misurati sul piano e le scoperchiò.  
«Bright Sumomo, Midnight Sumomo» mormorò il giapponese, rimestando i liquidi con minuscoli mestoli da cui fece colare sul piano prima la tonalità più chiara, poi la scura, e le stese con movimenti circolari.
Le spiegazioni di Hito possedevano la calma solennità dei riti del suo paese d’origine.
Le chiazze si allargarono sulla superficie, dispiegandosi nella loro oleosa brillantezza. Due colori nuovi e unici, forse irripetibili, molto mascolini, come ci si poteva aspettare da Hito.
«Susina Splendente, Susina di Mezzanotte» gli rammentò, indovinando dall’espressione corrucciata la fatica che Clay stava facendo per ricordare la traduzione dei nomi.
«Quanto sei complicato. Viola scuro e viola più scuro non erano più facili?» rimbrottò, il malumore alleggerito di un tono.
«L’arte vuol essere chiamata col suo nome» rispose placido Hito, costringendo i capelli in una reticella.
«Non farla tanto lunga, samurai».
«Anche tu» ribatté, ma non stava parlando dei commenti al suo lavoro. «Il fondo e le due passate di Bright Sumomo sono asciutti. Adesso comincio a fare sul serio» e indicò gli stencil con cui si sarebbe aiutato nella realizzazione del decoro.

***

Odrin mise mano agli interni il martedì pomeriggio, quando la Fortion uscì dalla cabina di verniciatura avvolta in teli per proteggere la splendida opera di Hito. Infilarsi tra i vari circuiti, le tubazioni del motore e la struttura portante dello scafo per incastrare i pannelli degli interni e sigillare le ultime porzioni della teleria non era semplice né comodo. Inoltre, quel giorno non tirava un filo di vento e nonostante si fosse liberato della camicia, i benefici erano stati minimi: sudava al punto da essere costretto a lavorare con indosso i guanti per evitare di perdere la presa sugli aghi e sulla pistola per la colla a caldo.
«Ti puoi dare una mossa? Vorrei il mio posto» sbadigliò No Way, sistemando per l’ennesima volta il berretto che continuava a calargli sul naso.
Un fascio di cavi colorati gli penzolava dal collo a mo’ di sciarpa, ticchettando sulla piastra madre della plancia.
«Il tuo posto adesso è mio, montanaro» rispose l’Andull dai recessi dell’airship.
«Valligiano, casomai. E comunque, Charlotte non è lì dentro» malignò.
Jack aveva un sesto senso per certe cose: pur non avendo mai fatto parola con lui del suo interesse per la segretaria, alcuni atteggiamenti di Odrin erano stati rivelatori.
«Ehi, guarda che le fantasie con quella prendono tempo» lo rimproverò Patch, fermandosi un istante per bere un po’ d’acqua.
Odrin scivolò fuori dal vano con movenze serpentine, sedendo lì dove avrebbe incastrato il sedile del conducente.
«Cosa vorresti dire?» domandò, slacciando il collare che si staccò a fatica dalla pelle, tanto era intriso di sudore.
«Semplice: è così fredda che fai fatica a sbloccarla persino con l’immaginazione!»
«Guarda che lo dico a tua moglie che fantastichi su di lei» minacciò, usando la camicia per tamponarsi la faccia e la parte liscia e tatuata del cranio.
«Oh, buongiorno, Charlotte! Serve qualcosa? Vuoi vedere il nostro Andull mezzo nudo che si fa le seghe pensando a te mentre lavora? Ma non dirmi! Vuoi dargli una mano? La tua? Ah, vuoi vedere se ce l’ha tatuato! Mi sembra una buona domanda, però non credo abbiano usato molto colore, c’era poca roba da pitturare, sai?»
«Patch, piantala di fare il cretino e passami l’N-12».
Anche se i bordi dell’abitacolo lo sovrastavano, era fin troppo evidente che lo stesse prendendo in giro: non avrebbe mai osato parlare a quel modo in presenza della Regina dei Divieti.
«Guarda che è qui per davvero. Diglielo, No Way!» insisté, dando uno scossone all’altro.
«Eh? Chi è qui?» sbadigliò, riscuotendosi di colpo da un mezzo sonnellino.
«Jack, come spalla non vali un cazzo» brontolò spazientito.
«Quattro méit per Patch!» ciancicò Pancake da un angolo imprecisato dell’officina.
Il richiamo costrinse il meccanico ad allontanarsi grugnendo sillabe incomprensibili.
«Come lo vedi Boy?» chiese l’Andull, rivolgendosi a No Way.
Il collaudatore stava per lanciarsi in una stupida battuta, ma il tono serio del collega lo trattenne.
«Il solito rompicoglioni. Perché?» rispose depositando all’interno del mezzo il pannello che aveva chiesto.
Odrin si massaggiò la nuca, per poi tornare ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia.
«Prima di entrare, stamattina, sono andato sul tetto».
No Way strabuzzò gli occhi, quasi si fosse svegliato di soprassalto.
«Non dirmi che…» iniziò sconvolto, ma l’artigiano lo interruppe subito.
«Sì, mi ha seguito un’altra volta» ammise, facendo tintinnare la fibbia del collare come un sonaglio. «E quando l’ho sgridata, se l’è svignata lassù».
«Se Charlotte scopre che è qui, ti usa per rivestire la sua poltrona. Almeno l’hai fatta scendere?» bisbigliò allarmato, scrutando in direzione del soppalco.
«Sì. Adesso starà facendo un sonnellino sul trike e spero ci resti. Però non è di lei che volevo parlare. Ti ricordi quella roba che abbiamo visto l’autunno scorso nel sottotetto?»
«Quando siamo andati a controllare la scossalina che si era staccata? Sì. C’erano un materasso, coperte e una borsa da viaggio mi pare; sembrava roba per un rifugio di fortuna. Io lì non ci dormirei, è pieno di spifferi e schifezze. A meno che fosse il nido d’amore dei tempi andati di Clay e Sandy» sghignazzò, convinto che non potesse essere quella la realtà dei fatti.
«Beh, è ancora lì e aveva l’aria di essere stata usata da poco. Stanotte direi. Boy è arrivato prestissimo oggi, - Clay l’ha saputo da Ozone - e se lo guardi vedrai che continua a toccarsi la spalla e il fianco».
Subito Jack lanciò uno sguardo al ragazzo, che in quel momento era inginocchiato accanto alla bancata del motore, preso dal montaggio del carter. Nonostante la faccia da allegro invasato e le dita che danzavano fra gli ingranaggi, la sua postura era rigida ed evitava di piegarsi a destra.
«Pensi che il patrigno l’abbia picchiato di nuovo e che si sia fatto una stanzetta là?»
«Possibile» sospirò.
Era l’ipotesi più verosimile che gli venisse in mente, eppure qualcosa in quella faccenda non convinceva del tutto l’Andull. Boy aveva diciannove anni e un fisico abbastanza forte da permettersi di stare a spasso tutta la notte per scaricare i nervi e presentarsi al lavoro senza mostrare stanchezza. Ed era talmente esagitato che si sarebbe fatto sfuggire da tempo di quel suo angolo. Soprattutto però, avrebbe cercato aiuto o almeno un consiglio dai colleghi: anche se lo sgridavano e lo prendevano in giro di continuo, era un membro effettivo della squadra, sapeva di potersi fidare di loro, che l’orgoglio personale non era una valida giustificazione al silenzio e ai lividi.
«Teniamolo d’occhio, non si sa mai. Anche se non è più un bambino, gli può servire una mano» suggerì, indossando nuovamente il sostegno cervicale.
«E gli amici non si abbandonano, per quanto ti facciano girare le palle» concordò No Way aggiustando la coppola sui ricci castani.
«Quattro per No Way!» annunciò la voce di Pancake, impastata dalle cibarie.
«Vaffanculo, Bidone!» urlarono in coro.
«Sei per Jack No Way e due per Odrin!» cantilenò allegro.



1 due piedi, spessi tre quarti di pollice e alti un palmo: nel sistema metrico anglosassone il piede equivale a circa trenta centimetri, il palmo a circa dieci ed il pollice a due centimetri e mezzo. Quindi il diametro è pari a circa sessanta centimetri, lo spessore un centimetro e ventisette millimetri e l’altezza dieci centimetri.
2 tela Olona: tessuto grezzo, pesante e molto resistente, con cui si realizzavano anticamente le vele.

   
 
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