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Autore: Mooshi    29/07/2013    3 recensioni
Arriva alla fine, poi potrai trarre le tue conclusioni sbagliate.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Non chiuderò occhio.
Gli incubi sotto il cuscino.
Tardo pomeriggio.
Giugno.
Brezza blanda.
Conserve di formaggio e di fragole.
Fiori di campo io vi portai.
Io ricordo.
Non posso esserne certo.
Funi.
Immensa disgrazia,
Non mi perdonerò.
Un'ombra nel giardino di rose.
Bellezza improbabile, rifletteva ogni mia singola imperfezione.
La vostra bambina.
Profonda adorazione.
Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
Non ci ero mai riuscito.
Nella mia testa.
Cenammo.
Sedette sul mio grembo e mi baciò.
Riverberò nei miei polmoni per tutta la serata.
Piantai le mie orbite sul sapore di crescere che trasudava da ogni poro, gli occhi piccoli e vispi illuminati dal luccichìo d'innocenza tipico d'ogni infante.
Molti scheletri nell'armadio.
Quanto avrei voluto che quelle luci mi avessero indicato la strada di casa.
Avrei voluto.
Non ho.
Ed è ciò che più mi si addice.
Non ho mai avuto niente.
Voi sembravate avere tutto.
Con la pretesa di portarla ad una festa, diceste che poteva andare.
Non ho mai avuto niente,
voi sembravate avere tutto.
Fede.
Fiducia in me,
costruita mattoncino dopo mattoncino.
Assidua frequentazione.
Secondo fine.
La portai nel posto che solo noi due conosciamo.
Non l'avreste rivista mai più.
Mai più.
La portai nel posto che solo noi due conosciamo.
Fuoripòrta.
Fuori città.
Nessuna pressione.
Premeditazione accurata.
Cura maniacale.
 
Mi chiese dove fossimo.
Più di una volta.
Non risposi.
Più di una volta.
Le tesi una mano.
Volevo che la stringesse.
 
Esitava, riluttante.
 
Afferrai la sua con violenza.
Non era così difficile.
Fiutavo la paura.
Non riuscivo a mettere a fuoco le cose,
mi perforava la mente,
infrangeva la memoria.
Forse ero stato troppo brusco.
 
Provvidi a chiudere la porta a chiave, una volta che le si fu chiusa alle spalle.
Fiutavo la paura.
 
Nessuno ci avrebbe disturbato, amore mio.
Un'ombra nel giardino di rose.
Io l'ho vista, credo.
Io ricordo.
Non posso esserne certo.
I "dove siamo?" si fecero sempre più insistenti.
Insistiti.
Perché eravamo lì?
Mi pressava.
Gironzolava per casa.
La mia casa. Perché era entrata?
Mi innervosii.
Cominciai a sudare.
Lei non capiva.
Lei non poteva,
trasudava sapore di crescere,
negli occhi vispi un riflesso d'innocenza.
Ancora per poco.
Insano.
 
"Ti amo", le dissi una prima volta.
Momento di debolezza.
Portami a casa.
Ti prego.
 
Non rispose.
Non capiva.
Non poteva.
 
 
 
Paralitico sogno che potesse amarmi.
 
Non capiva, non poteva, non voleva.
Lei.
 
Le afferrai un braccio con prepotenza, 
ripetei che l'amavo.
Privo di senso, udii un pianto.
Non ascoltarmi.
Un pianto lontano.
Stringevo qualcosa che provava a divincolarsi.
Qualcosa che mordeva.
Che urlava.
Scalciava.
Due iridi seminavano lacrime.
Mi tenne sveglio.
L'oculare e scarno frutto tanto bramato,
tanto desiderato
cominciò a rigarle una guancia.
Debolezza.
Mollai la presa.
La porta, la porta, la porta.
Chiusa.
Inutili tentativi.
Realizzò di non avere speranze.
Nella mia testa.
Un passo alla volta.
Mi osservò arrivare, paralizzata.
 
La paura aveva già vinto.
La invitai a fuggire,
ad andarsene,
a salvarsi.
Un passo alla volta.
Pianto lontano.
Groviglio d'incomprensioni.
Le chiesi di riaccompagnarmi a casa.
Non mi rispondeva.
Un passo alla volta.
Fui abbastanza vicino.
Mi chinai, le afferrai una gamba.
Continuava a piangere, 
biascicando che l'avrebbe detto alla mamma.
Le parole si mescolarono alle lacrime.
Umidi fonemi.
Groviglio d'incomprensioni.
Tutto a mezzavoce.
 
Le sfilai le scarpine, poi il vestitino.
Tutto.
Dolce, soave brutalità.
Cura maniacale.
Nessuna pressione,
ma molti scheletri nell'armadio.
 
Mi stropicciai gli occhi, papille visive in sollucchero.
Il suo corpicino nudo. Acerbo.
Proibito.
Lo fissai, avido.
Ogni singolo centimetro quadrato della sua essenza situato al posto giusto.
Mosaico d'improbabile bellezza, rifletteva ogni mia imperfezione.
La disgustavo.
Mi disgustavo.
Semplice istinto.
Non osavo ancora guardarla negli occhi.
Minuscoli accordi lacrimali.
Ommatidio. Non giudicarmi.
Un taglio netto riverberava nei miei polmoni.
Mentii,
le dissi che avrebbe potuto andarsene, 
che l'avrei lasciata andare.
Poggiai le mani sulle guance rigate.
Colsi il frutto scarno della paura.
Per un istante sembrò rinfrancata, smise di piangere e mi fissò.
Le chiesi di non chiudere gli occhi.
Non ancora.
Istinto, ventaglio di possibilità.
Alla mia mercé.
Alzai lo sguardo, non volevo guardare.
Voglio tornare a casa, non importa quanto ci vorrà.
Strinsi la presa sul suo flebile collo.
Urlò.
Arcaica melodia.
Monodica.
Stessa ora, tutti i giorni.
Soffocai il canto del cigno.
 
Un'ombra nel giardino di rose.
La pioggia si fa sempre più violenta, incessante.
Riverbera nei miei polmoni.
 
 
Le chiesi di cantare ancora.
Non rispondeva.
Smise di piangere,
di trasudare sapore di crescere.
Nessuna, nessuna innocenza nei suoi ora anonimi occhi privi di luce.
Rovinata.
Irrimediabilmente.
L'avevo.
 
Macchia indelebile.
Fissava il vuoto.
Riuscii a mettere le cose a fuoco, 
poi lasciai che le fiamme si propagassero,
crescendo alte.
Incubi al propano.
Pregai l'inamovibile.
Stessa ora, tutti i giorni.
Profonda adorazione.
Mi amava.
Paralitico sogno.
Natura corrotta.
Strane devozioni.
 
Rovinata.
Non lasciatemela toccare mai più.
Venitevela a riprendere.
Vi prego.
Venitevela a riprendere,
è nell'armadio al piano di sopra, con gli altri scheletri.
Ha vissuto un solo giorno.
Nelle mie mani.
Farfalle.
L'ho rovinata, non lasciatemela toccare mai più.
Riprendetevela.
Un solo giorno. 
Onde infrangono scogli. Ormeggio.
È solo il crepuscolo.
Salvatela, 
portatela a casa.
 
Salvatemi, 
riportatemi a casa.
Riapro
gli occhi
mai
chiusi.
Le dita ancora insanguinate nel rimorso.
   
 
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