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Autore: claws    01/08/2013    2 recensioni
La pioggia poteva fermare il lavoro di un contadino, poteva rimandare i giorni di festa; ma mai avrebbe potuto fermare le idee di un artista.
[≈5500 parole][Prima classificata al contest Le Lampade dei Valar, indetto da Silvar Tales sul forum di EFP.]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Leonardo da Vinci
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Occhio, Cuore, Cervello













L'uomo che vive artisticamente la sua vita

ha come cuore il cervello.











La pioggia poteva fermare il lavoro di un contadino, poteva rimandare i giorni di festa; ma mai avrebbe potuto fermare le idee di un artista.

Era una pioggia sottile, che batteva con le proprie infinite dita sul tetto della bottega, come a voler invitare Leonardo a uscire con lei, ad accompagnarlo fuori dal suo rifugio senza allontanarlo dai suoi pensieri; ma Leonardo si stava occupando di una pagina del Codice che Ezio gli aveva portato quella mattina, e neanche la pioggerella più fine avrebbe potuto distrarlo da quella pergamena di affascinante mistero.

Tradurre il vecchio diario di un Assassino era per lui stimolante, ma non avendo mai studiato né latino né altre lingue antiche, spesso risultava un vero e proprio problema. Leonardo era un grande procrastinatore, ma non era persona da lasciare a metà il lavoro se quello davvero gli interessava - e se era per un amico; ne erano prove chiare i progetti e gli schizzi che erano stati lasciati sul tavolo da lavoro, disegni che avevano acchiappato la sua attenzione solo per un momento, per lasciare spazio allo studio della pagina del Codice.

Benché Leonardo si ostinasse a ignorarla, la pioggia non cessò per altre ore, finché l'artista non ebbe terminato il proprio lavoro di traduzione.

Gli sarebbe piaciuto molto conoscere di persona un individuo come Altaïr. Più si occupava di quel Codice, più se ne convinceva. Altaïr era stato un uomo d'azione e di cultura, un tipo d'uomo che ormai era più argomento delle canzoni dei menestrelli che realtà.

A proposito di cantastorie, da qualche tempo Leonardo dedicava delle notti di lavoro al progetto di una macchina che potesse battere il tempo, magari per il passo di un corteo, o per la marcia di un esercito. Aveva cominciato ad abbozzare il progetto già da alcune settimane, ma aveva poi abbandonato i disegni per dedicarsi alle pagine del Codice di Altaïr che Ezio gli aveva portato.

L'idea di un tamburellatore meccanico lo aveva stuzzicato come lo studio dei flussi dell'acqua quando ancora abitava con i propri nonni, nella campagna toscana; ma dopo il brivido iniziale - quello che non lascia dormire sereni perché il lavoro è rimasto lì, nella testa, senza trovare risposte su un foglio di carta -, la sua attenzione si era spostata su altro. Primo tra tutti, sul gatto che lo visitava da alcuni giorni in cerca di cibo e coccole, che lo aveva guidato più di una volta fuori dalla bottega all'instancabile ricerca di uccellini da inseguire.

Ma Leonardo non era il tipo da arrampicarsi sui tetti delle case altrui, che fossero di Venezia, di Firenze o di qualsiasi altra città.

«L'arrampicatore qua non sono io, Icaro!» Aveva detto un giorno al micio, che l'aveva costretto ad uscire sul piazzale della bottega e che poi l'aveva guardato con l'aria perplessa di chi non riesce a spiegarsi perché Leonardo non fosse ancora salito sul tetto. Non sono forse stupidi tutti gli umani?

«Mi hai forse chiamato, Leonardo?»

L'artista guardò verso il cielo ancora scuro, quando un'ombra piombò al suo fianco e si rialzò dopo una capriola per attutire l'urto col terreno.

«Lieto di vederti, Ezio. Ho finito di tradurre la pagina che mi hai portato qualche giorno fa.»

Ezio gli sorrise lievemente, per ringraziarlo. Il micio miagolò - forse questa è la volta buona, la faccia di questo altro umano mi sembra più stupida e più affidabile -, ma si zittì immediatamente quando le voci di alcune guardie gli giunsero all'orecchio.

«Chiedo scusa per la fretta, ma mi vedo costretto a rimandare un incontro più lungo e piacevole con te a più tardi. Ho avuto qualche problema con delle guardie dalle parti della Basilica dei Frari, e--»

I soldati si stavano avvicinando con clamore d'armi e un po' di paura.

«Non preoccuparti, Icaro potrà aspettare fino a domani.» Rispose Leonardo, anche se il gatto non era esattamente d'accordo. Icaro pensò - giustamente - che quel maledetto umano che la sera gli dava il latte in una scodella fosse troppo furbo per essere uno di quei bipedi. Anzi, ora che ci pensava, sembrava più un gatto che un umano, e quel pensiero gli fece tremolare le orecchie e la coda.

«Bene. Allora a più tardi, Leonardo. Icaro!»

Ezio li salutò con un ampio, teatrale movimento del braccio, e sparì oltre il cancello del giardino che si trovava sul lato opposto della piazza. Probabilmente, a giudicare dall'improvvisa serie di improperi in veneziano che ne seguì, Ezio aveva calcolato male le distanze che separavano il muro di cinta del giardino dalle gondole vuote che di solito riposavano là, e doveva essere finito su una gondola già occupata. Chissà, magari da qualche bella madonna in visita nella città galleggiante!

Il problema di Leonardo, tuttavia, non aveva alcuna intenzione di essere risolto. Al progetto di quella macchina per battere il tempo mancavano i materiali con cui costruire l'armatura del cavaliere, e l'artista temeva che le corde di canapa non avrebbero sopportato a lungo l'attrito con i meccanismi delle braccia. Guardando Ezio arrampicarsi sul muro di cinta, poi, si rese conto che non sarebbe mai riuscito a costruire un uomo meccanico come avrebbe voluto: simile all'essere umano, con un solo unico fine, cioè battere il tempo su un tamburello.

«Ah, che diavolo!» Esclamò infine, spaventando il povero Icaro, che decise infine di andare a cercare cibo o coccole da un altro di quegli stupidi bipedi.

Leonardo rientrò nella bottega, e si sedette sullo sgabello accanto a una tela, arrabbiato un po' con se stesso e un po' con quella serpe di Venezia.

Venezia, città stabile e perfetta, forse, ma una subdola sirena la cui voce aveva raggiunto la bottega di Leonardo e che ora lo distraeva con un canto vecchio quanto i mari.

A Leonardo rimaneva solo da chiedersi se quella sirena di Venezia si fosse arenata sulla terraferma, o se avesse scelto la laguna come luogo dove nidificare; se Venezia avesse le ali, o la coda di un pesce.

In entrambi i casi, Leonardo era sempre stato affascinato dal volo degli uccelli e dal flusso delle correnti. Perciò forse avrebbe dovuto riflettere più a lungo sull'incarico che l'aveva portato lì: una volta arrivato sulla città delle gondole, avrebbe dovuto capire che Venezia l'aveva già incantato con i suoi sussurri, e che tutte le idee che gli sarebbero saltate in mente sarebbero svanite una volta lasciata la città.

«Devo finire questo progetto al più presto,» concluse quindi l'artista, «o non lo finirò mai.»

Fu solo un mormorio nella sua testa, come il mugghiare delle onde, ma Leonardo udì appena una voce che, cantando, gli disse di non perdervi tempo, perché quel progetto mai sarebbe stato portato a termine.

















Il labirinto di canaletti che attraversavano Venezia come fosse un campo arato erano un'arma a doppio taglio, per Ezio. Da un lato, le guardie non sembravano particolarmente felici o convinte di lanciarsi in acqua per catturare il demone bianco, per cui Ezio riusciva a scappare con un bagno nell'acqua veneziana; dall'altro, neanche a lui piaceva buttarsi in quell'acqua lurida di sudore e rifiuti e poi doversi asciugare stando appollaiato su uno di quegli appigli di legno sui campanili o le torri. Negli ultimi tempi, il suo passatempo preferito era rimanere in ginocchio là, sul legno del campanile di Santa Maria dei Frari, guardando il medico laggiù per strada con un brivido dietro la schiena - l'ultima volta quel maledetto vecchiaccio aveva tentato di fargli un salasso con una carnosa sanguisuga, e tutto perché era fissato, con quelle bestie! -, o il gruppo di cortigiane vicino all'entrata laterale della chiesa.

Ah, sì, la chiesa dei Frari proprio gli piaceva. Per quante guardie potessero esserci, Ezio trovava sempre il modo di evitarle - o di tirare fuori i propri coltelli da lancio prima del grido d'allarme, si intende -, e salendo là sopra si sentiva un po' più libero e un po' più legato al Credo.

Gli Assassini difendevano il libero arbitrio dell'uomo: per poterlo fare, però, erano legati a una fede che non era quella della domenica, e dedicavano spirito e corpo alla loro missione, con i mezzi che avevano.

Dopo il breve saluto a Leonardo - e Icaro, non dimentichiamolo -, Ezio aveva liquidato le guardie piuttosto in fretta; aveva superato il muro di cinta con un paio di salti, era finito per sbaglio sulla gondola vicino al marciapiede - meglio specificare: era finito per sbaglio sui piedi del gondoliere, che gli aveva tirato addosso gli insulti peggiori in veneziano -, e poi aveva ripreso a correre, verso San Giacomo di Rialto, fino a quando s'era buttato nel mucchio di fieno lì vicino alla chiesa, per poi confondersi tra la gente che ascoltava il banditore.

Diventato di nuovo solo un viso tra la folla, al tramonto, Ezio si trovava lassù, sul campanile della Basilica dei Frari, e guardava verso ovest, dove il sole stava per essere inghiottito dalle colline.

Con la sua fortuna, ebbe appena il tempo di ringraziare che il cielo avesse smesso di piovere quando la pioggia riprese a cadere.

Più che a un'aquila, sotto la pioggia Ezio assomigliava a un pulcino bianco, che per buona sorte non impiegò troppo a trovare un rifugio all'asciutto.

















Leonardo abbandonò il progetto della macchina per corteo poco dopo il tramonto. La sera gli aveva fatto venire in mente un'altra idea, così, mentre la pioggia serale batteva sulle pareti della bottega.

Che la vite di Archimede si potesse usare per evitare il problema dell'acqua alta lì, a Venezia? Forse, se avesse provato a costruirne una abbastanza grande e robusta...! O se fosse riuscito ad automatizzare il movimento della vite, avrebbe potuto creare una macchina che portava acqua corrente!

Ah, ancora non riusciva a capire se Venezia amasse Leonardo o meno. Quel luogo dava troppe idee a un solo uomo!

Fu allora che qualcuno bussò alla porta della sua bottega. Prima ancora che potesse raggiungere la porta, il misterioso sconosciuto lì fuori miagolò.

Che Icaro fosse improvvisamente impazzito e avesse preso a testate la porta, beh, Leonardo ne dubitava - certo, però, che sarebbe stato ottima materia di studio, con il totale disaccordo del gatto, ovviamente.

In effetti, Icaro c'era, e con lui Ezio - entrambi bagnati fradici.

«Due pulcini al prezzo di uno.» Disse Leonardo, scuotendo la testa.

Icaro miagolò il suo disappunto, e una volta entrato nella bottega si sistemò sullo sgabello più vicino al camino.

«E come i pulcini, Icaro ed io occuperemo poco spazio nella tua bottega.»

Leonardo sorrise, come un buon amico sorride quando è felice di vedere una persona cara, ed è triste perché una notte di lavoro sarà costantemente interrotta dai miagolii di uno o dal russare dell'altro.

«Vado a prenderti una coperta per asciugarti almeno i capelli.»

«Grazie, Leonardo.»

«Per cosa sono fatti gli amici, se non per costruire armi, tradurre pagine di un Codice, coprire le spalle a un assassino quando le guardie lo stanno cercando, e ospitare il suddetto assassino quando ce n'è bisogno?»

Ezio alzò le mani, in segno di colpa. «Mea culpa, però così sembro più uno sfruttatore che un amico.»

Leonardo scese le scale, stando attento a non inciampare nella coperta che aveva in mano. La porse ad Ezio, quindi si sedette al proprio tavolo da lavoro.

«Ho finito, con questa pagina del Codice.»

Ezio si stava togliendo gli spallacci per metterli poi ad asciugare vicino al camino acceso. «Che ci dice, stavolta?»

«Altaïr sapeva più di quanto si possa sperare,» disse Leonardo, «il problema è che la sua conoscenza non portava a risposte, ma solo ad altre più misteriose domande. In questa pagina parla di coloro che vennero prima, una sorta di...» Fece dei movimenti circolari con la mano, nel tentativo di spiegarsi a gesti. «Come dire, una razza di uomini, ma diversa dalla nostra.»

Ezio conosceva bene quel tono di voce e quel continuo gesticolare: Leonardo era stato catturato per l'ennesima volta da quel mondo di misteri del passato e del futuro.

«Cos'altro hai scoperto?» Gli chiese, pettinandosi i capelli ancora un po' umidi con le mani - Leonardo, ora come ora, era troppo occupato con la pagina del Codice per poter andare a prendergli un pettine. «Insomma, qualcosa riguardo i Frutti, o qualche altra informazione?»

Icaro stava ronfando beatamente, quando Leonardo battè una mano sul tavolo da lavoro, svegliando il micio di soprassalto. «Niente di niente! Sembra che questa specie di antenati sia completamente scomparsa. E anche Altaïr non conosceva il vero potere di quegli oggetti. Ci sono solo domande.»

Dopo aver sistemato almeno l'armatura in cuoio e il corpetto bianco e rosso accanto al caminetto, Ezio si sedette e lesse la traduzione della pagina, mentre Leonardo andò a prendergli un paio di calzoni e una camicia - non era assolutamente sano per i dipinti e i progetti in giro abitare insieme a un potenziale pericolo ambulante, e anche Icaro ringraziava.

Quando l'artista tornò, si trovò davanti un assassino dalla fronte corrugata. Appoggiò i vestiti sul tavolo, e gli si sedette accanto. «Ti ho forse contagiato con la mia curiosità, adesso?»

«No, no. O meglio, più che curiosità, credo che sia... be', è affascinante.»

«Una delle tante facce della curiosità, amico mio.»

Ezio non sembrava esattamente convinto, ma in ogni caso decise che ci avrebbe ragionato ancora un po' solo dopo essersi messo degli abiti asciutti. Quindi lasciò Leonardo ad analizzare la pagina del Codice, salendo le scale per andare a cambiarsi.

















Leonardo, d'altro canto, quando cominciava a lavorare seriamente su un progetto - dopo aver procrastinato per ore, o giorni, o anche per tempi ben più lunghi -, si isolava dal mondo ed entrava nel proprio regno, fatto di idee, colori, sensazioni, e riflessioni.

Il ragionamento era il suo modo per esprimere se stesso, dopotutto. Forse le persone non ci facevano caso - non lo trovavano importante, o neanche lo notavano -, ma nei quadri che eseguiva Leonardo mescolava le emozioni e i pensieri logici come se fossero i fili di un tappeto che lui intesseva con precisione e passione. Forse avrebbe lasciato inconclusi molti lavori durante tutta la propria vita, ma non lo faceva per indispettire i committenti, tutt'altro: il solo pensiero che qualcuno, dopo la sua morte, decidesse di riprendere in mano quei progetti incompiuti per farne qualcosa di grande e di incredibile gli solleticava l'animo.

Perciò, quando il suo stomaco gorgogliò un poco, non se ne accorse nemmeno. Aveva tirato fuori una copia della cartina del mondo - un'altra pagina del Codice di Altaïr -, con Ezio che scosse la testa, rassegnato all'idea di dover aspettare ancora un po' prima di potergli parlare.

Anche se, in fondo, guardare Leonardo mentre lavorava era piuttosto divertente: quel geniaccio gesticolava animatamente mentre ragionava sottovoce, e le sue smorfie, che espressioni impagabili!

E poi, chi ha voglia di uscire sotto la pioggia, quando il camino è acceso?

Un po' di riposo, dopo quell'esperienza con le avverse condizioni atmosferiche veneziane, non gli sarebbe stato negato; anche se, come previsto da Leonardo, Ezio cominciò a russare.



L'artista lanciò un'occhiata fuori dalla finestra, poi ravvivò un poco le fiamme nel camino. Era notte inoltrata, con nuvole grigie ma senza più pioggia, che ne se stavano andando trasportate dal vento. Quei due pulcini, là vicini al fuoco, stavano dormendo da ore.

Ah, ma a Leonardo la notte piaceva parecchio. Tutto ciò che di giorno non si vede perché sono cose luminosissime, di notte risplendono come tanti soli.

Quale momento della giornata - e quale condizione psichica - migliore per provare quel riflettore che aveva terminato di costruire la notte prima?

Era una scatola di legno, con un cerchio di vetro su una delle pareti. All'interno c'era una candela ancora intatta. Secondo i suoi calcoli, dal vetro la luce avrebbe illuminato ampiamente l'esterno, e quindi anche il tavolo da lavoro di Leonardo - dandogli così la possibilità di lavorare bene anche di notte. Con una pietra focaia accese il cero, e quando lo mise nella scatola e la chiuse, dal vetro uscì un cono di luce che illuminava un paio di metri attorno.

Soddisfatto del proprio lavoro, Leonardo pensò che gli uomini dovessero essere più trasparenti e appassionati, più curiosi e più attenti al mondo, perché potessero vivere davvero. In pace, equilibrio, nel bello dell'arte che la natura offre e che l'uomo può apprezzare, perché l'uomo guarda verso le stelle e le desidera, con un profondo senso di nostalgia - quando per aspera diventa più struggente di ad astra.

La notte, la notte, la ferita più dolce degli artisti che vivono con il cuore e il cervello fusi come l'inchiostro è fuso alla carta. Il foglio è necessario per scrivere ed esprimersi, ma il foglio soltanto, senza parole o disegni, non è più dell'uomo, non ha nulla di suo. L'anima della persona deve unire cuore e cervello, e arrivare alla prima consapevolezza che c'è un infinito, e che l'infinito è un'unione di tutto quello che c'è nel mondo e tra le stelle.

Che quindi c'è un infinito dove Leonardo e Venezia non furono in conflitto, dove la sirena condivise con il marinaio i diamanti e la polvere delle proprie canzoni.

«È ancora notte fonda, Leonardo?»

L'artista sobbalzò. Si girò, vide Ezio stropicciarsi gli occhi (doveva sentirsi proprio a casa, visto che aveva dormito un sonno pesante), Icaro coprirsi il muso con una zampina - Lasciatemi dormire, stupidi bipedi!, avrebbe detto.

Leonardo guardò fuori dalla finestra. «No, devono mancare un paio d'ore all'alba, Ezio. Hai deciso di alzarti presto per andare a strappare qualche manifesto?»

«In realtà, amico mio, quella scatola che illumina mi ha dato fastidio per qualche ora, finché non ha avuto la meglio sul mio sonno.» Ezio sorrise, alzandosi dalla poltrona in cui era un po' sprofondato.

«Mi spiace. Non mi sono premurato dei miei due inattesi ospiti, in effetti.»

«Eravamo solo due pulcini, no?»

«Piuttosto bagnati, ma sì, due pulcini.»

Ezio si avvicinò al camino e raccolse i pezzi dell'armatura, poi salì le scale per andare a cambiarsi. Nel frattempo Leonardo aveva spento la candela dentro la scatola e s'era seduto dove l'assassino aveva dormito - del calore doveva essersi impigliato nel tessuto, e d'inverno il tepore era sempre benvenuto.

«Forza, Leonardo, non vorrai perderti lo spettacolo!»

Cosa diavolo avrà visto fuori dalla finestra? «Non vorrai portarmi fuori al freddo, spero!»

«Come sei perspicace, vecchio mio, tieni fede al tuo nome! Ora alzati, che non so se tra dieci anni saremo ancora vivi o ancora qui a Venezia.»

Profezia dura, ma assolutamente possibile; solo che il tono con cui Ezio la pronunciò la fece suonare più serena, come se dopo la morte si sarebbero ritrovati tutti insieme davanti a un bicchiere di vin santo e qualche dolce secco.

Leonardo si alzò, non esattamente volentieri. Aveva il tremendo sospetto che Ezio l'avrebbe fatto salire sul tetto di qualche casa lì vicino e, per quanto sarebbe stato interessante guardare il mondo dall'alto, era un po' preoccupato dagli arcieri sempre in allerta. «Non costringermi a correre sui tetti mentre una guardia cerca di tirarci addosso tutte le frecce della faretra, Ezio, ricordatelo. O potrai scordarti ulteriori traduzioni del Codice.»

«So che ti incuriosiscono troppo perché tu possa lasciar perdere quelle pagine, ma prometto che non diventerai il bersaglio dei soldati.» Sorrise l'assassino.

Ancora non proprio convinto, Leonardo decise comunque di dargli una possibilità. «D'accordo. Qual è la nostra destinazione?»

«Un posto vicino San Giacomo di Rialto.»

Così almeno l'artista aveva eliminato il tetto della Basilica dei Frari tra le opzioni su cui si sarebbe potuto arrampicare. Seguì l'amico fuori dalla bottega, dando prima un'ultima occhiata a Icaro - Io me ne rimango qua, tranquillo, bipede, avrebbe potuto dire il micio.

Il freddo mordeva la gola e il vento raschiava le guance. Ezio sembrava non soffrire particolarmente, mentre Leonardo mal sopportava tutto quel gelo. Pensò che avrebbe trascorso tutto il giorno seguente davanti al camino, nel tentativo di liberare le proprie gambe dal gelido respiro dell'aria. In una città sul mare come Venezia ci sarebbe dovuto essere un clima più mite, più gradevole, eppure quel vento dannato proveniente da Nord congelava perfino i capelli.

Attraversarono il ponte senza fermarsi; lì, arrivati in città per la prima volta, avevano osservato il Palazzo della Seta, ora Gilda dei Ladri. Presto, a ben pensarci, sarebbero cominciate le celebrazioni per il Carnevale.

«Mi auguro almeno che non ci sia acqua alta quest'anno.»

«Come, Ezio?»

L'assassino scosse la testa. «Niente, niente, Leonardo.» Accennò alla chiesa davanti a loro. «Siamo quasi arrivati.»

L'orologio di San Giacomo di Rialto era come una seconda più spenta luna, perché rifletteva la scarsa luce delle lampade ad olio appese sulle soglie di qualche abitazione. In un paio d'ore il sole si sarebbe alzato in cielo, e allora il mercato si sarebbe riempito di grida e odore di pesce fresco.

«Aspettami qui.»

«Vuoi farmi morire di freddo, Ezio?»

«Puoi sempre metterti a correre in cerchio, vecchio mio.» Ezio ridacchiò, arrampicandosi agilmente sul muro della chiesa. Non che avesse davvero intenzione di far morire assiderato Leonardo, ma giusto per divertirsi un po'. O forse per non fargli vedere quale fosse il punto migliore, tra l'attaccatura del collo e la spalla, per uccidere con un solo coltello una guardia.

Leonardo rimase con il naso all'insù per un minuto. Quando Ezio si fece vedere, là sul tetto dell'edificio, l'artista capì di avere una sola possibilità per cui Ezio non si sarebbe offeso: cioè salire la scala che l'altro gli aveva indicato, proprio dietro la chiesa - in un vicolo poco raccomandabile, a dire il vero -, fino a quando non si ritrovò davanti un Ezio particolarmente contento.

A quel punto Leonardo constatò che esseri umani e gatti avevano davvero qualcosa in comune: l'espressione di Ezio era quella di un gatto soddisfatto per cibo e coccole.

«Ancora freddo?»

«Mi si gela il sangue al pensiero di trovarmi a dieci metri da terra, ma a parte questo sto meglio.»

«E io che avevo sempre pensato che, costruendo macchine volanti, volessi un giorno prendere il volo, Leonardo.»

 « Il che mi fa venire in mente... »

« Ehi, non provare a farti venire in mente un'idea geniale ora. Pensaci dopo. Se può servire, ora non pensare e basta, che ne dici? »

«Non garantisco nulla.» Disse Leonardo. «Comunque, hai preparato qualcosa di speciale qua sopra, oppure posso guardarmi attorno per conto mio?»

«È uno spettacolo aperto a tutti, ogni notte,» rispose Ezio. «La gente non vi presta molta attenzione, e in effetti, se qualche giorno fa non mi fossi ritrovato a correre in giro per colpa del freddo, non me ne sarei accorto nemmeno io.» Dando le spalle al Canal Grande, si inchinò davanti a Leonardo, in una sequenza di movimenti simile a quella di Alvise, quando aveva fatto loro da guida il primo giorno a Venezia. «Messer Leonardo, questo è il Canal Grande, e quelle là sono le ultime stelle della notte.»

Leonardo decise che, se proprio doveva congelare, l'avrebbe fatto godendo di un paesaggio e un'atmosfera magnifici, perciò si sedette sul bordo del tetto, guardando l'acqua del canale agitarsi un poco a causa della bora. Proprio il vento aveva soffiato via le nuvole di pioggia; allora non si vedeva la linea sottile dell'orizzonte, il cielo era blu come il mare scuro ed era come cucito con stelle più o meno luminose. Era una di quelle vedute che stringono il petto in una morsa. Una bellezza tale da far male al fisico, oltre che all'anima. Era l'infinito della natura e il finito dell'uomo, il cuore e il cervello del genio, filtrati dall'occhio e dagli altri sensi.

Ezio attese, in silenzio, alle spalle dell'amico. Aveva portato lì Leonardo proprio perché aveva capito che c'era qualcosa che nessun altro, nemmeno lui con il suo fiuto, poteva afferrare.

Solo dopo dei lunghi minuti al freddo, Leonardo si alzò, come se non soffrisse più la morsa gelida della bora. «Senza di voi mi sarei certamente perso, ser Ezio.» Disse, con un pizzico di ironia. «Ma dunque, vi sono altri posti ad alta quota che avete intenzione di mostrarmi?»

«Seguitemi, messer Leonardo.»









Se non altro, in quella notte Leonardo davvero capì perché Ezio pranzava vivacemente appena il suo lavoro glielo permetteva: fare l'assassino richiedeva talmente tante energie che mai, mai Leonardo si sarebbe abituato. Ezio faceva sembrar facile perfino saltare da un edificio a un altro adiacente, eppure era tutt'altro che un piccolo salto. O meglio, per quanto potesse essere corto, la paura di poter cadere e sfracellarsi per terra era tanta.

Ma se la curiosità uccide il gatto, la soddisfazione lo riporta in vita, diceva un proverbio; e Leonardo, da bravo felino bipede, non poteva resistere al proprio desiderio di conoscenza.

In qualche modo (che i più considererebbero privo di senno) raggiunsero l'imboccatura settentrionale del Canal Grande. Per amore di Leonardo, che ricordò a lungo il percorso preciso compiuto come sinonimo di paura costante, racconteremo con attenzione il loro piccolo viaggio.

Una volta saliti sul tetto della casa alle spalle della chiesa, la strada che Ezio aveva intenzione di seguire portava sul tetto di un'altra casa, distante un paio di metri dall'edificio su cui si trovavano. Leonardo accettò malvolentieri di saltare da un tetto all'altro, ma seguendo l'esempio di Ezio il primo balzo non comportò né morti né feriti. Da lì, avrebbero proseguito lungo tutta la superficie di mattoni fino al punto in cui l'edificio si univa a un'altra casa più bassa. Solo allora, tra il buio, il vento e la propria indisposizione, Leonardo decise che no, non si sarebbe avventurato più avanti ad un'altezza simile; l'assassino dovette rassegnarsi, e aiutare l'amico a scendere a terra.

«Mi chiedo soltanto perché non vuoi proseguire con me, lassù.»

«Non mi sembra molto salutare né per me né per te, Ezio. Dimmi dove incontrarci e farò in modo di trovarmi lì.»

«Allora facciamo una gara.»

Leonardo sospirò. «Sentiamo.»

«Troviamoci davanti all'entrata del Palazzo della Seta, dove si sono sistemati Antonio e gli altri. Il primo che arriva vince, ovviamente.»

Non che ci volesse molto per capire chi avrebbe vinto: tuttavia, in un paio di occasioni Ezio rischiò di tuffarsi nella gelida acqua invernale.

Il Palazzo che fu di Emilio Barbarigo era bianco come le mani di una matrona: senza il consueto chiacchierare dei ladri, pareva una fortezza inespugnabile. Leonardo lo aspettava ai piedi della scalinata, mentre si scaldava le mani col respiro.

Proseguirono coi piedi per terra, in silenzio. Uscirono dal ponte occidentale che collegava la fortezza bianca al resto del sestiere; al bivio decisero di svoltare a destra - da lì si poteva dare un primo sguardo alla laguna -, rimanendo rasenti il muro, come se nel buio questo potesse essere di conforto.

Il vicolo portava a una modesta piazza con al centro un pozzo, contro cui Leonardo, che probabilmente stava pensando a cosa avrebbe potuto sostituire le corde di canapa per il tamburellatore, quasi inciampò. Raggiunsero la piazzola su cui si apriva, di giorno, uno dei tanti buoni fabbri veneziani - anche se l'artista si permise di suggerire il metallo milanese come il migliore in Italia.

Superarono il rialzo dove il banditore aveva annunciato la presenza di Franco Dandolo a un evento mondano, e si avvicinarono al canale.

«Aspettami qui, recupero una scala.»

Ezio ne trovò presto una. L'odore di salsedine stava cominciando a farsi sempre più forte in bocca, come il freddo era più pungente sulle mani.

«E dove vorresti farmi andare con quella scala, di grazia?»

«Comincia a salire su quei barili e poi sull'impalcatura. Ti seguo.»

Camminare su quelle assi di legno era pericoloso tanto quanto saltare da un palazzo all'altro, soprattutto perché un bagno in mare in inverno portava presto alla morte. Giunto sul bordo dell'impalcatura, Leonardo attese che l'amico appoggiasse la scala tra la loro posizione e il lume che c'era poco più avanti. Di malavoglia proseguì, superando anche il lume successivo camminando sulla scala.

Scala che, ovviamente, con il freddo s'era indurita e s'era spaccata a metà quando Ezio vi pose sopra il suo piede leggero. Non che per lui fosse un problema saltare fino all'ultimo ponteggio: il guaio sarebbe stato dopo per Leonardo.

Intanto, comunque, avevano raggiunto la loro meta: da lì la vista sulla laguna era ottima, e magnifico era il soggetto. Se a Leonardo fosse rimasto un poco di fiato in gola per deglutire, in quel momento avrebbe saputo che sapore ha quella precisa sfumatura della libertà.

«E questa, messer Leonardo, è la laguna veneta di notte.»

L'artista guardò verso le navi ormeggiate, che ondeggiavano languidamente secondo il volere delle onde; al buio - e agli occhi di un bambino - sarebbero sembrate enormi mostri neri, con braccia lunghe e pance da riempire. La luna, che in poche notti sarebbe diventata piena, riluceva nell'acqua, e il suo riflesso era come chi si butta nel mare e comincia a tremolare per il freddo.

Le stelle, mosse dall'amore degli angeli, ricordavano ad Ezio i tortelli dello stemma di Lorenzo che portava sulla cappa e, di conseguenza, si ricordò della propria famiglia. Dopo un profondo respiro, decise di occuparsi di Leonardo, che stava beatamente osservando cielo e mare, acqua e aria, e chissà a quale diavoleria stava pensando.

Ezio credeva sempre più fermamente che gli esseri umani vivono con un muro che separa l'anima dalla mente - o, con termini più concreti, il cuore dal cervello: alcuni uomini, però, demoliscono quella parete nel corso della loro vita. E, per lui, Leonardo aveva abbattutto il muro da anni, e aveva avuto perfino il tempo di buttarne via le macerie.



Leonardo in quel momento si sentì vuoto, come se gli fosse mancato un sesto senso; solo poco dopo riuscì a riempire il proprio animo con la vista, l'udito e il tatto. Era strano, sentirsi svuotato di tutto e riempito di tutto nuovamente nel giro di un pensiero. Se avesse creduto nella magia, avrebbe certamente pensato che sulla linea che divide il mare dal cielo ci fosse un incantesimo.









«Piaciuta la visita, amico mio?»

Leonardo si alzò in piedi, e si coprì la bocca e il mento con la sciarpa. Indicò Venere, la stella del mattino, poi gli rispose. «Certamente! Ora però è il caso di rientrare, Ezio. A breve sorgerà il sole.»

Tornare alla bottega con la scala rotta fu più difficile, ma sono disavventure che'l tacere è bello, quando fuori spira la bora che porta un freddo del diavolo. La scala venne deposta dove Ezio l'aveva trovata, cioè sotto la volta che portava alla piazza adiacente, dove lavoravano il sarto e il medico. L'assassino rimase in silenzio un attimo, come a ricordare le nobili virtù del legno che aveva sostenuto il passo di Leonardo da Vinci nel corso di un'avventura.

Ad ogni modo, percorsero lo stesso cammino che avevano intrapreso solo mezz'ora prima: già si sentivano le grida dei commercianti al mercato vicino al Ponte di Rialto, e la gente uscire dalle case per andare a lavorare. Il fermento in città aumentava esponenzialmente con l'avvicinarsi del Carnevale.

Quando arrivarono nella piccola piazza  della bottega di Leonardo, Ezio sorrise, con l'aria furbetta di quando aveva diciassette anni e un futuro sia da banchiere che da assassino.

«Dunque, sono stato una guida migliore di Alvise, o no?»

Leonardo sospirò, alzando gli occhi al cielo. «Non cambi mai, eh, Ezio?»

«Sì o no?»

«La prossima volta cerca di non uccidere nessuna guardia.» Il tono con cui aveva parlato era di sincera disapprovazione, ed Ezio abbassò lo sguardo. Forse la volta successiva avrebbe ucciso altri soldati, ma almeno ci avrebbe riflettuto su. «Sei stato un'ottima guida, ma ho come l'impressione che ci fosse un secondo fine dietro tutto questo.»

«E sarebbe?»

«Come se volessi dirmi "Vecchio e sempre chiuso nella tua bottega come sei, dovresti fare esercizio per rimanere in salute"!»

«E-ehi! Non è vero!»

Ma Leonardo, ridendo, aveva già chiuso la porta della bottega e l'aveva lasciato fuori, alla mercè di chi, passando lì vicino, bisbigliava: «Certo che dire cose del genere a Leonardo da Vinci...!»













Ezio, molti anni dopo, vide il frutto di quella notte trascorsa sotto le sferzate della bora. Era un telo di stoffa comune, a cui erano legate delle corde spesse.

«Di che si tratta?»

«È un congegno per planare da qualunque altezza. Non è come la mia macchina per volare, lo puoi portare con te dovunque.»

Un attimo di silenzio.

«Mi è venuto in mente quella volta che mi hai fatto salire sul tetto di una casa, a Venezia, per guardare la laguna prima dell'alba.»

Uno strumento ben congegnato per tenere al sicuro le persone care, quel paracadute. Davvero in Leonardo cuore e cervello lavoravano insieme, come fossero una cosa sola.







Ah, e se Ezio avesse saputo che quell'aggeggio sarebbe diventato indispensabile per salvare il mondo, cinquecento anni dopo...!





























Note:

La citazione all'inizio della storia è di Oscar Wilde. Il titolo della storia viene dall'omonima canzone di Giorgio Gaber.

I camini erano il metodo per riscaldare gli ambienti che andava per la maggiore, al tempo. Nei palazzi dei ricchi e dei nobili c'era un camino per ogni stanza, per le case più modeste c'era solo in cucina. Ipotizzando che per la bottega di Leonardo non avessero badato a spese (e chi lo sa, forse gli sarebbe potuto servire per qualche strano congegno), mi sono presa una piccola licenza poetica e ho inserito un camino nella bottega - che, in quanto tale, suppongo abbia un piano superiore, cioè l'abitazione vera e propria dell'artista, come per ogni artigiano che si rispetti.

«Che 'l tacere è bello» è una citazione da Dante, Inferno, canto IV.

Per quanto riguarda il sesto senso di cui "parla" Leonardo verso la fine della storia: Giunone, in Brotherhood, dice che la Prima Civilizzazione aveva sei sensi, di cui il sesto era il sapere. In altri momenti sembra che Leonardo discenda - anche se molto alla lontana - da coloro che vennero prima (mi pare ci sia un momento in cui non venga colpito dagli effetti collaterali della Mela, ad esempio), per cui, non so, forse è solo una mia idea, ma mi attira un sacco.

La pagina del Codice tradotta da Leonardo è la quinta, si trova nel distretto di San Polo.

Tutti i rimandi alle invenzioni di Leonardo non sono frutto di invenzione. In gita a Firenze, sono andata a visitare il museo delle macchine di Leonardo e c'erano le riproduzioni di tutte le invenzioni qui citate. In una puntata di Superquark avevano poi affermato che Leonardo aveva costruito una sorta di stilografica, ma questo lo dico solo perché lo trovo estremamente affascinante.

L'ultima frase si riferisce a quando Desmond (in AC III) deve entrare in un grattacielo a Manhattan per recuperare una batteria indispensabile per entrare nel Tempio.





















Note Autrice:

Nessuna scala a pioli è stata maltrattata nel corso della stesura della storia, anche se sono state maltrattate nella storia. Leonardo in qualche modo doveva pur raggiungere le destinazioni previste.

Ezio e Leonardo non sono di mia proprietà, e nemmeno Icaro, perché nessuno possiede i gatti, neanche chi procura loro del cibo e si autoproclama loro padrone. Al massimo, siamo i loro compagni umani. C:

Questa storia partecipa al contest Le Lampade dei Valar indetto da Silvar Tales sul forum di EFP. (EDIT: prima classificata al contest. Sono ancora in pieno brodo di giuggiole (?)!)

Spero vi sia piaciuto questo esperimento in un nuovo fandom! C:

claws_Jo
  
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