Anime & Manga > Tengen Toppa Gurren Lagann
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Autore: Yellow Canadair    01/08/2013    2 recensioni
La Brigata Dai-Gurren sconfigge il Generale Supremo Adiane in una colossale battaglia in mare; Viral viene sbalzato lontano dal teatro di guerra assieme al suo Gunmen, e atterra su una spiaggia sabbiosa, dove a svegliarlo non sono ordini o rimproveri, ma lo sciabordio delle onde contro i relitti del suo Enki. Ferito e isolato dal mondo, l’uomo-bestia capisce quali siano state le sorti della battaglia e sfoga la sua rabbia urlando contro l’oceano turchese.
Il mattino dopo viene trovato esanime da una piccola donna di superficie che decide di salvarlo solo per non deturpare la sua splendida spiaggia con un cadavere in decomposizione, ma la convivenza non sarà né facile né pacifica.
La domanda “Che cosa sono gli esseri umani?” non è solo memore di scontri contro l’irriducibile Brigata, ma anche di una battaglia, molto più sottile, contro una piccola umana che ha deciso di vivere sola in superficie.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Viral
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti! Grazie per aver aperto la mia storia! Si tratta della mia prima FF su Gurren Lagann, spero di non aver creato troppi pasticci con la trama originale. Per favore lasciate un commento se vi è piaciuta (ma anche se vi ha fatto schifo!), le critiche sono molto ben accette! :) all'inizio di alcuni capitoli c'è un suggerimento per la canzone di sottofondo, non mia ma presa in prestito da You Tube.

buona lettura,
Yellow Canadair

 

Capitolo Primo: Lo schianto dell'Enki

*Mark Keali'i Ho'moalu - He Mele No Lilo*


Era mezzogiorno e il sole era alto. Scaldava la terra dopo un inverno gelido e una primavera tiepida, e ora splendeva impietoso, facendo crepitare l’aria e arroventando gli scogli. Il mare, sotto, luccicava e si muoveva piano lungo tutta la costa, da cobalto al largo diventava blu, poi turchese, poi verde vicino agli scogli e acquamarina quando le onde raggiungevano la spiaggia solitaria e si allungavano a danzare sulla sabbia umida. La sabbia chiara e fine era costellata da impronte di gabbiani e, sulle dune in fondo, da gigli di mare, fiori con sei lunghi petali bianchi, che crescevano lungo tutto il golfo e dando ristoro a nugoli di vespe e di api. Conchiglie e scheletri di crostacei formavano linee sinuose lì dove le onde del mare in tempesta le avevano trascinate diverse settimane prima, a un tiro di sasso dalla battigia ora tranquilla. Solo sabbia, su quel litorale. Sabbia, e un cumulo di scogli che sembravano messi lì per caso, caduti dalla mano di un dio nella notte dei tempi, che coprivano la vista della spiaggia per alcuni metri e che offrivano riparo ai gabbiani quando il mare volgeva al brutto. Potevano con facilità essere scalati però, e avventurandosi tra le pieghe rocciose si poteva scoprire che in realtà gli scogli erano due, o uno solo rotto nel mezzo, e che c’era una piccola grotta, scavata dal mare e profonda un paio di metri, dove potersi sedere tranquillamente e guardare il mare, se non si aveva troppa paura delle tonnellate e tonnellate di roccia che sovrastavano la testa dello spettatore.
Oltre la spiaggia si estendeva una foresta di poco fitta di lecci e di pini marittimi, e arbusti bassi dai fiori rosa e gialli adatti a sopportare quel clima secco.
Una figuretta schizzò di corsa fuori dalla foresta e si fermò a guardare il mare a pochi metri dall’acqua: era una ragazza, magra e abbronzata. I piedi erano piccoli, le caviglie sottili, le gambe avevano l’aria robusta ed erano sporche di polvere. Indossava un paio di pantaloncini corti, consumati e sfilacciati, e il seno piccolo era coperto da un costume che, nei suoi colori turchesi e rosa che facevano spiccare i kalakaua hawaiiani disegnati di bianco, contrastava stranamente con il pantaloncino liso. Anche le braccia erano muscolose, e quasi a sottolineare il deltoide, una lucertola era stata tatuata lì, e con la coda cingeva tutto il braccio. I capelli, corti e mossi dal vento e dal sale, le facevano una testa da gorgone. Il viso era minuto, le guance rosse per la corsa. Guardava il mare e sorrideva, con una fila di denti bianchissimi. Posizionò sugli occhi una maschera subacquea, si sfilò il pantaloncino che rimase lì riverso, rivelando anche il pezzo inferiore del bikini e si tuffò. Nuotò sott’acqua e riemerse ad alcuni metri dalla riva; prese fiato e si rituffò, nuotando verso nord-ovest.
Un cavallo grigio chiaro, senza sella ma con delle redini improvvisate, in corda, avanzò pigramente sulla spiaggia, sgranocchiando qualche arbusto che cresceva tra i gigli di mare. Invece di dirigersi, come suo solito, verso il pantaloncino abbandonato dalla padrona però, decise di fare una passeggiata dall’altra parte dello scoglio, per cercare qualche alga portata dal mare. Poi c’era un odore che non aveva mai sentito, da quella parte. Era curioso. Non si avvicinò però, a quegli strani oggetti chiari e voluminosi: non somigliavano a nulla che avesse mai visto nei suoi sette anni; anzi, c’erano oggetti chiari e voluminosi, e altri piccoli e scuri, sparsi senza ordine, e che non si muovevano. Non odoravano di vita. C’era un piccolo odore di vita, e un altro odore che conosceva bene, odore di sangue. C’era qualcosa che respirava tra quegli oggetti sconosciuti, e che poteva essere letale per lui; non ci teneva a porre fine a quei sette anni, parte dei quali trascorsi nutrito e curato da quella strana padrona che gli saltava addosso sì, ma lo sfamava senza che facesse altro, e poi quella corda che gli metteva in bocca e con la quale comunicava dove volesse essere spostata. No, no, non avrebbe finito. Trotterellò via, verso il pantaloncino che lo aspettava dall’altra parte degli scogli.
Nuotando, un po’ sott’acqua e un po’ no, la ragazza si stava stancando. Decise di allungarsi oltre i grandi scogli, poi sarebbe tornata a casa, perché aveva anche fame. Arrivata sul limite degli scogli, tornò in apnea. Conosceva bene quei fondali, quindi cos’erano tutti quei pezzi sulle rocce del fondo? Sembravano i poveri resti di un naufragio. C’erano eliche, pezzi di motore, ferraglia. Eppure il mare non era stato in tempesta, pensò. Riemerse per prendere aria e guardò verso la riva, sulla spiaggia dall’altra parte degli scogli invisibile dal luogo dove s’era immersa: c’erano i frantumi di un robot da combattimento, arenati come cetacei.
Rimase per un attimo impietrita nell’acqua: invasori. Qualcuno profanava la sua casa, la sua terra. Poteva essere un pericolo per lei. Ma ci ripensò: quello era un naufragio. Un invasore non si sarebbe certo schiantato, evitando tra l’altro per meno di un metro lo scoglio. L’aveva davvero evitato? E il pilota? Era riuscito a catapultarsi fuori dal suo arnese prima dell’impatto con l’acqua? O era ancora lì, nelle lamiere accartocciate? Ma mentre pensava queste cose, aveva già percorso i metri che la separavano dalla riva, facendo un largo giro come per circoscrivere quella nuova scoperta. Uscì dal mare e intravide una forma umana, immobile nell’acqua che andava e veniva. Si avvicinò con cautela, con il terrore di trovarsi di fronte un volto orrendamente deformato dalla morte e dall’acqua salmastra.
Era un uomo. Uno solo. Steso a pancia in giù. Alto, più di lei, molto magro, pallido, biondo. Aveva uno strano vestito rosso cupo, più da valletto che da pilota. Aveva problemi alla spalla sinistra, e alla testa, probabilmente aveva sbattuto nell’urto. Le vesti erano sporche di sangue, ma la sabbia attorno, pulita e ricambiata tante volte dal mare, no. Era vivo? Si avvicinò dal lato e gli diede qualche colpo leggero sotto le suole col suo piede nudo, ma non ottenne risposte.
-Ehi… sei vivo?- azzardò la ragazza. E se era morto? Come lo toglieva di lì? -No ti prego, non puoi essere morto.- lo supplicò la ragazza al pensiero di avere un cadavere in decomposizione sulla sua spiaggia. Quanto tempo ci metteva un cadavere a scomparire? Ma che schifo! Decise quindi di tastargli il polso per capire se era vivo: ma non erano mani normali, erano grosse, da animale, avevano le unghie lunghe e spesse. Troppo spesse, erano degli artigli! “Un uomo-bestia.” Pensò preoccupata. Non era gente di cui fidarsi. Gente del genere voleva che le persone vivessero sotto terra, dove erano rimasti i suoi amici e i suoi familiari, e lo volevano per amore o per forza, non in riva al mare, sotto il sole, dove era scappata lei. Ma era ferito. Aveva fatto naufragio. Non poteva lasciarlo lì, ammesso che non fosse morto. Lo girò a fatica sulla schiena e gli tolse i capelli dal volto: aveva sembianze umane. Non sapendo esattamente se al polso avrebbe sentito qualcosa, gli mise le mani sul collo: era tiepido, forse era vivo. Forse. Però non respirava. Corrucciò la fronte, tesa, non aveva mai fatto niente del genere, e aprì imbarazzata la tuta sul petto. Prese fiato due, tre volte, poi tappò il naso con due dita al tizio e serrò le sue labbra contro le sue, soffiando forte dentro.
-Uno, due, tre, quattro!- gridò premendo le mani sul suo petto, in un massaggio cardiaco. Poi serrò di nuovo il naso, soffiò. Soffiò. -Uno, due, tre, quattro!- Soffia. Soffia. -Uno, due, tre, quattro!- l’uomo ebbe uno spasmo, la ragazza saltò via spaventata, lui si girò su un fianco, cominciò a vomitare qualcosa, a sputare acqua, cadde sulla spalla ferita, guardò la ragazza, aveva gli occhi dorati e brillanti, e svenne. 

  
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