Capitolo 10 – Something inequivocal
Anko Sakuragi
L’odore degli aerei è sempre lo stesso, in ogni parte del mondo. È un odore intenso, penetrante, pizzicante. Sarà l’odore delle poltrone in tessuto sintetico, quello dei vani bagagli, quello delle borse e delle valigie, non lo so. O l’odore delle persone, magari. Persone che partono, che se ne vanno, che dicono addio, che spezzano cuori. Questa è la prima categoria, poi c’è la seconda, quella delle persone che tornano, che arrivano a casa, che abbracciano di nuovo, che baciano ancora. Le persone che viaggiano sugli aerei si dividono strenuamente in queste due categorie, come le due parti di Berlino divise da un muro insormontabile, fino al ‘89. Forse sono davvero le persone ad odorare così stranamente. E in questo la tesi viene avvalorata dal fatto che non c’è differenza se un aereo lo prendi per partire o per tornare, anche se le persone sono diverse. Il dannato odore è sempre lo stesso, quindi forse devo escludere i passeggeri come causa di questo odore.
Che, tanto per intenderci, mi dà la nausea. O forse è solo mal d’aria, chissà. Ho la tendenza ad esagerare le cose.
L’odore è sempre lo stesso, anche se viaggi da sola o in compagnia. Perlomeno credo, perché io non faccio testo. Fino a quel momento, io di aerei ne avevo presi solo due. E sempre da sola. Avevo preso quello, ed un altro… l’altro… cinque anni prima. E l’odore era esattamente lo stesso.
Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.
Credo, perché sono io sempre dannatamente la stessa.
La sola differenza sostanziale era che allora io stavo
tornando, anni prima me ne stavo andando. Ma anche quella era una differenza
trascurabile. Perché? Semplicissima come risposta. Allora, cinque anni prima,
scappavo. Dal Giappone per New York. In quel momento, scappavo. Da New York al
Giappone. Sempre di scappare si tratta, no? Credo che, anche in queste cose e
non solo nei numeri, ci sia la proprietà commutativa.
Cambiando l’ordine, il risultato non cambia.
Mancava ancora un’ora al mio arrivo in Giappone, quando
iniziai quelle patetiche, ma consuete riflessioni. Cominciai a riflettere sul
colore delle poltrone, sul perché le facessero azzurre perché io, l’azzurro, lo
odio. Chiesi ad un’hostess bionda una coca cola, chiedendomi perché le hostess
fossero anch’esse tutte bionde, come delle bamboline fotocopia, come le Barbie,
mai una castana o dai capelli rossi come i miei, se magari fosse una voce sul
loro curriculum. Bionda naturale. Magari dava più possibilità di essere
assunta. Sorseggiai la mia bibita con lentezza, guardando fuori dal finestrino,
mentre la mia compagna di posto intimava alla figlia di non posare le scarpe
sul sedile. La guardai per qualche secondo quella bambina, i capelli ramati
legati da dei nastri rosa in due codini alti sul capo. Rosa anche il vestitino,
le scarpette ed una piccola borsetta. A me sarebbe venuto da vomitare al posto
suo. Mentre la bambina faceva la linguaccia alla mamma, beccandosi uno
schiaffo, mi chiesi perché, all’inizio della storia, avevano scelto il rosa per
le bambine e l’azzurro per i maschi.
Mio padre mi vestiva sempre di azzurro. E io l’odiavo.
Mia madre mi consigliava di vestirmi di rosa. E io
l’odiavo.
Verde, giallo, viola, bianco e nero. E rosso, insomma ce ne
sono di colori.
Perché, per forza, la scelta era sempre tra il rosa e
l’azzurro?
Perché, per forza, la mia scelta è sempre tra mia madre e
mio padre?
E, mentre quelle penose riflessioni, almeno riempitive
della mia testa, evaporavano, la verità venne a galla.
La verità mi perseguita sempre, mentre io voglio
disperatamente bugie. Sembra orribile? Molto probabilmente è così, ma
sinceramente non mi interessa. Chi dice “bugia”, pensa immediatamente a quella
bugia, detta da uno che si faceva la tua migliore amica e a te diceva che
andava a giocare a calcetto. O peggio a quella di un assassino, che negava con
spavalderia davanti ad un giudice, nonostante il quadro probatorio
completamente avverso, e che tanto ti aveva scioccato, guardandolo in
televisione.
Ma io non penso a queste cose.
Per me, a questi concetti si associa più facilmente la
verità. Perché, per me, le bugie sono fiabe.
Meravigliose. Colorate. Vivaci. E soprattutto indolori.
Quand’anche rivelassero la loro fatuità, non avrebbero
peso. Sono sempre aria, perché nella loro menzogna non sono mai esistite.
Invece, la vita è sempre una scomoda eccezione. Perché la vita,
inevitabilmente, è sempre verità. Una nauseabonda pozza di verità, condita da
qualche patetica e poco longeva bugia. La vedo nella mia mente e la immagino
nera, colma di onde altissime che vogliono solamente affogarmi. Onde che, come
se non bastasse, hanno la consistenza e la forza di valanghe di neve.
La verità, poi, ha sempre avuto una particolare
predilezione per la mia persona. Assolutamente non ricambiata e non richiesta.
Mi fiuta sempre, come un segugio dal naso nero. Mi stana e mi morde con i suoi
denti affilati, ed alla fine mi mette sotto gli occhi le vere domande. Con le
relative vere risposte. Nemmeno quelle mi risparmia, le risposte. Chi cazzo le
ha chieste? Le domande ancora ancora le tollero, ma le risposte… quelle non le
accetto. Perché non hanno minimamente a che vedere con il colore delle
poltrone, dei capelli di una hostess e dei nastri di una bambina.
La vera domanda è una sola. Anch’essa è sempre stata la
stessa, anch’essa è sempre uguale.
Perché la mia vita è sempre una scelta tra mia madre e mio
padre?
Sospiro, d’accordo, l’ho capita l’antifona. Devo pensarci
per forza, no? Non c’è modo per uscirne, vero? Perlomeno ho la consolazione di
essere io l’artefice del mio suicidio. Una sorta di eutanasia, diciamo così.
Discerno tutta la situazione con la freddezza di un chirurgo, cieca al sangue e
cieca al dolore, anche fisico.
Per Hanamichi, è sempre stato diverso. Forse perché è
sempre stato lui diverso. Io sono sempre la stessa.
Hanamichi non ci pensava mai a nostra madre, nemmeno quando eravamo bambini. Diceva che non gli interessava. Si metteva a giocare ai videogiochi, a calcio, a guardie e ladri, e non ci pensava. Mai.
Era una grandissima stronzata.
Ci pensava, eccome, a nostra madre. Ma a quella scelta, a
quella domanda, lui aveva risposto nel giorno stesso in cui era nato, in cui
entrambi eravamo nati.
Aveva scelto nostro padre. Subito, senza pensare. Aveva
scelto il genitore che gli comprava il nuovo videogioco, che lo faceva
arrampicare sulle sue spalle per prendere il pallone sull’albero, che faceva
sempre la parte del poliziotto imbranato. Semplicemente, aveva scelto il
genitore che c’era. Non che fosse stata una scelta difficile, in fondo. Era la
scelta ovvia, quella che tutti avremmo fatto.
Hanamichi assomiglia molto a nostro padre. O, si dice,
assomigliava? Insomma, Hanamichi è il soggetto della frase, no? Ed Hanamichi
c’è sempre, quindi… invece mio padre… serrai forte gli occhi, trattenendo il
respiro e stringendo i pugni. La mia vicina di posto dovette pensare che avessi
un attacco di panico, chissà… pallido palliativo al senso di colpa ed al
rimorso, urlai nel mio cervello il verbo nella forma presente.
Hanamichi assomiglia molto a mio padre.
Non esteticamente, intendiamoci. I capelli rossi sono di
nostra madre, uguali ai miei. La figura, l’altezza, molti gesti sono sempre di
nostra madre. Solo gli occhi, gli occhi di Hanamichi, erano di nostro padre.
Scuri come erano quelli di mio padre. Mi morsi il labbro inferiore
freneticamente, senza volere avevo usato il passato.
Erano di nostro padre, ora sono solo di Hanamichi. Perché
mio padre non c’è più.
La verità mi perseguita sempre, mentre io voglio
disperatamente bugie.
I miei occhi sono sempre stati diversi. Verdi, assurdamente
e stranamente verdi. Assurdi e strani per una bambina che si guarda allo
specchio accanto al padre e al fratello gemello. Perfettamente normali per una
che, invece, si guarda accanto alla madre. Sono una fotocopia di mia madre. In
tutto e per tutto. Forse, per questo, i miei occhi non hanno mai visto le
stesse cose che vedevano loro.
Da piccola, non capivo, non ci arrivavo. Era un’
impressione vaga e impalpabile, una nebbiolina sui pensieri, un oscurarsi dei
ricordi, un offuscarsi delle sensazioni. Era come avere una cosa sotto agli
occhi con qualcuno che ti spinge a guardarla bene, e comunque non vederla, non volerla
vedere. Nello stesso momento in cui davvero l’avrei vista, tutto
inevitabilmente avrebbe preso forme e colori completamenti diversi da quelli
che conoscevo, piccole venature di rosa in un infinito oceano di azzurro.
Magari era di questo che avevo paura, magari era questo a separarmi da loro
due, al di là degli occhi.
Mi nascondevo sotto il tavolo della cucina, abbracciando le
ginocchia, la polvere che mi irritava il naso. Diventavo io stessa polvere,
cenere di una cosa bruciata tempo prima ed abbandonata lì con assoluta
noncuranza ed indifferenza. Fingevo che non ci fossi. Che fossi altrove o che
non fossi mai esistita, a seconda dei casi e delle giornate. Hanamichi e mio
padre tornavano a casa, ridevano e scherzavano, entrambi coperti di fango dalla
testa ai piedi. Sporcavano il pavimento con enormi chiazze scure. Mio padre
aiutava Hanamichi a pulirsi e si congratulava per il tiro perfetto che aveva
fatto. Hanamichi gonfiava il petto e diceva che era stata una bazzecola per
lui, lui che era un genio, un maestro, il campione per eccellenza di ogni cosa.
Io ero sempre lì, sotto il tavolo, e loro non mi vedevano. Mi dicevo che forse
era perché io non ero un genio, un maestro, il campione per eccellenza di ogni
cosa. Mi stringevo più forte le ginocchia, poggiavo la fronte su di esse e
facevo ancora finta di non esserci. Facevo finta, sì; perché comunque io lo stesso
c’ero, lo stesso esistevo ancora. Chi non c’è, chi non è mai esistito, chi è
morto, non sente nulla. Io invece ancora ascoltavo le loro parole. Arrivavano a
parlare di bambine, di adolescenti, di ragazze. Mio padre rideva ancora ed
Hanamichi si arrabbiava, nomi su nomi di persone che diceva di amare alla
follia. Ogni giorno, il nome cambiava.
Poi arrivavano al mio di nome.
“Dov’è Anko?” diceva mio padre, guardandosi attorno per la
casa.
E io sgattaiolavo via, gattonando da sotto il tavolo,
all’improvviso troppo piccolo per nascondermi. Spuntavo davanti alla porta
della cucina, fingendo che ero sempre rimasta in camera mia. Mi scrollavo
silenziosamente la polvere di dosso, riassumendo un aspetto perfetto. Tingevo i
miei occhi verdi di colori simili a loro, accesi di stelle vivaci e di pensieri
felici, indossavo cieli azzurri per sentirmi a casa, nascondendo sotto la mia
anima quelle piccole sfumature rosa, che mi facevano sentire un’estranea. Così
mi sedevo accanto a loro, ridevo, scherzavo anche io, prendevo in giro
Hanamichi per la sua cotta per Makoto, scoprendo però che invece si trattava di
Yoko.
Chiudevo gli occhi, ridendo, e non vedevo. Non volevo
vedere che già i loro visi erano cambiati. Impercettibilmente cambiati e
diversi. Non peggiori, non migliori. Solo diversi. E tutto perché c’ero
anch’io.
Non è da fraintendere la situazione, certo per molto tempo
l’ho fatto, ma ora non è più così. Mio padre mi amava, tanto. Ed anche mio
fratello, anche se certamente a suo modo. Questo l’ho capito molto dopo, in
America, da sola, senza di loro. In una calda mattina di sole, mentre camminavo
a Central Park tra decine di persone. Non nascosta sotto un tavolo a riempirmi
di polvere. L’ho capito, uscendo da quel tavolo, che loro mi amavano con tutto
il cuore. L’ho capito quando c’era già un oceano a dividerci, un oceano di
acqua azzurra. Ed era già tardi.
Perché prima avevo capito un’altra cosa. Era stato il
giorno del mio onomastico, quasi tre anni prima… Hanamichi aveva scartato un
regalo per me, mi ero arrabbiata con lui, perché i regali erano miei, era il
mio di onomastico, cavolo! Ma quello niente, figurarsi se mi aveva ascoltato.
Aveva scartato il regalo di una mia prozia rimbambita. Aveva infatti pensato
che fosse la festa di Hanamichi e non la mia, ed aveva spedito un
complicatissimo aereo da guerra. Hanamichi chiaramente se ne era impossessato,
dicendo che era una cosa da maschi, non da femmine. Mi ero ribellata, dicendo
che comunque era un mio regalo, ma mio padre, ridendo, gli aveva dato ragione.
Ed era stato allora che avevo capito il perché di tutto
quello che succedeva da quando ero bambina. Il perché di quella nebbia sul mio
rapportarmi a loro due. Il perché del loro stare così bene assieme. La cosa che
non volevo o non potevo vedere.
Era così perché erano padre e figlio, accomunati dallo
stesso sesso.
Io ero diversa, semplicemente perché ero una ragazza. Insomma, la risposta era semplice, eppure mi era sempre sfuggita. Semplice, perché era sempre stata lì, ma mi era sempre sfuggita perché non avevo mai avuto un mezzo di paragone. Ero cresciuta con mio padre, con mio fratello, e fuori di lì c’era solo un’altra persona, e non era un mezzo di paragone, essendo un ragazzo anche lui. È strano che non mi voglia ricordare nemmeno il suo nome per paura che mi faccia ancora male…
Non c’era un mezzo di paragone, perché al suo posto c’era
invece un’assenza, pesante come un macigno, una voragine che succhia la
felicità e la tristezza, rendendole uguali, senza alcuna differenza. Non ero
mai felice e nemmeno propriamente triste.
Tutto solamente per una ragione, la ragione.
La mia mamma. Mia madre, insomma. Quella persona non c’era
mai stata. Era… altrove… lei, la donna della mia famiglia. Lei, quella che mi
avrebbe capito più di chiunque altro. Che grandissima puttanata, ero veramente
un’idiota… non posso assolvermi dal giudizio su me stessa, dicendo che era per
questa ragione che lasciai il Giappone.anche se è questa la verità. Ma ho avuto
modo di illustrare in che rapporto sono con quella vecchia bastarda. Le verità
non devono essere necessariamente giuste e corrette. Le mie non lo sono mai
state.
Mi convinsi che mio padre preferiva Hanamichi. Mi dicevo
che doveva odiare mia madre e, se io non ero uguale a lui, era perché lo ero
rispetto a mia madre. Ergo, lui vedeva mia madre in me. Quindi, odiava anche
me.
Palle, grosse bugie gigantesche. Le uniche che davvero mi
hanno fatto male.
Mio padre non odiava mia madre. L’amava ancora. Quindi,
amava anche me.
E, poi, mia madre non ha niente di me. Lei non sarebbe mai
tornata indietro, come infatti non aveva mai pensato di fare. E io, stupida,
non me lo ricordai, quando arrivò quella maledetta. Mi sono sempre chiesta,
perché avesse chiamato me, e non Hanamichi. Lei diceva di averlo fatto, ma che
Hanamichi le aveva fatto gentilmente sapere che non ne voleva sapere niente di
lei. Una cazzata, anche questa.
Chiamò me, perché le servivo. E forse perché già sapeva che
avrei abboccato, come una povera stupida.
In fondo, è vero che mi conosce meglio di chiunque altro. Mi
capisce, perché sono come lei. Ho l’anima intessuta di bugie.
Toccai distrattamente la mia guancia, piangevo. Mi
sarebbero rimasti gli occhi rossi, ma Hanamichi non avrebbe detto mezza parola,
ne ero perfettamente consapevole.
Perché, nel suo profondo del cuore, mi augurava ogni
lacrima che cadesse dai miei occhi.
E non potevo dargli torto.
Non avrebbe nemmeno riconosciuto una sorella nei miei
occhi.
Perché sono verdi. E non sono quelli di papà. E, per sua
fortuna, Hanamichi ha sempre visto solo quelli di papà.
Mai quelli della mamma.
Trascinai pigramente la mia valigia, cercando di evitare
quella stessa bambina dell’aereo con i nastri rosa nei capelli. La madre la
chiamava a gran voce, si chiamava Noijiiko. Mentre mi sorpassava, correndo, la
trattenni per il piccolo braccio, facendola fermare. La piccola si dimenò per
un po’, intanto la madre ci raggiunse entrambe, sospirando di sollievo.
“Grazie” mi disse trafelata “E’ una vera peste, non posso
mai perderla di vista!”. Le sorrisi, riconsegnandole la sua pargoletta. La
bambina mi guardò imbronciata, sicuramente mi odiava per averle impedito lo
scatto di libertà che agognava da quando era seduta sull’aereo. Sorrisi anche a
lei, non dicendole che cosa avessi pensato. Ma, come avevo già avuto modo di chiarire,
il pensiero comunque raggiunse me. Fin quando hai una madre che ti chiama,
impedendoti di andartene, goditela. Credimi, non è una cosa così scontata come
pensi, NoiJiiko. E poi avrai sempre tempo per scappare da lei.
Salutai la donna con la bambina, ed iniziai a camminare
svogliatamente per l’aeroporto. L’aereo era stato perfettamente puntuale,
quindi Hanamichi doveva essere già arrivato. Che bello, non stavo più nella
pelle all’idea di rivederlo. Ovviamente ero ironica. Stanca di camminare come una
deficiente, priva di una qualsiasi meta, lasciai la valigia per terra,
sedendomi sopra. Poggiai i gomiti sulle ginocchia e la testa sul palmo aperto,
guardando ancora davanti a me, priva di un reale interesse. Davo le spalle
all’ingresso, la gente che mi passava accanto, evitandomi distrattamente oppure
sfiorandomi con i bagagli. Sbuffai annoiata, sarebbe stato decisamente meglio
prendere un taxi ed andarmene in un maledetto albergo, altro che avvisare
Hanamichi. Prima di tutto, se era rimasto come era, sarebbe arrivato un’ora
dopo l’atterraggio. Ma la cosa più importante era che Hanamichi sicuramente non
mi avrebbe guardato nemmeno in faccia, avrebbe preso le mie valigie in completo
silenzio e avrebbe preso a camminare davanti a me, costringendomi a seguirmi.
Cazzo, adesso che ci penso non sono nemmeno tornata per la morte di papà. Mi
faccio schifo da sola. Lo chiamai, questo sì, e lui mi chiuse il telefono in
faccia, non appena seppe che non sarei tornata. Potrei dare anche di questo la
colpa a mia madre, forse sarebbe anche vero. Rose me lo diceva sempre. Diceva
che non dovevo farmi controllare da lei. Diceva che anche se quella donna era
mia madre, non era detto che la dovessi ascoltare, qualunque cosa dicesse.
Rose aveva sempre ragione. Specialmente perché a sua volta
era madre, madre della mia.
Mia nonna.
Hanamichi non ha nemmeno conosciuto lei, Rose. Era morta un
anno prima.
Siamo quasi pari, lui non ha visto morire nostra nonna e io
nostro padre.
Che stronza, pretendo anche di giustificarmi in questa
subdola maniera.
Era solo, Hanamichi, non c’ero con lui. Deve aver sofferto
le pene dell’inferno. E io ero dall’altra parte del mondo.
Mi correggo, se mai arriverà, per prima cosa Hanamichi mi
guarderà in faccia. Solo per prendere la mira e sputarmi addosso. Come cazzo mi
è saltato in mente di chiamarlo? Di pretendere che mi venisse anche a prendere?
Ma che cazzo di persona sono diventata? O forse sono sempre stata? Mia madre
non c’entra niente, sono sempre stata così. Odiare mio padre, perché andava più
d’accordo con Hanamichi; odiare mio fratello, perché mio padre aveva un
rapporto preferenziale con lui; lasciarli per andarmene in America da quella
donna… questo l’ho fatto prima di conoscere mia mamma. Sono proprio io che sono
così.
Mi alzai di scatto dalla valigia, come se scottasse, e la
presi a trascinare nella direzione opposta all’ingresso. Me ne dovevo andare,
immediatamente. Prima che arrivasse Hanamichi, non avrei sopportato di vederlo.
La valigia mi intralciava troppo nel camminare velocemente, fui tentata di
lasciarla lì e prendere a correre come una pazza, prendere il prossimo aereo,
non importa dove mi avrebbe portato.
Ma non feci in tempo.
Questa volta, mi fu impedito di scappare un’altra volta.
Una ragazza bionda mi urtò, mentre veniva dalla direzione
opposta. Non le feci caso, sembrava occidentale e non avevo nessuna persona
occidentale da evitare, perlomeno in quel continente. Lei, invece, mi squadrò
dalla testa ai piedi, aggrottando le sopracciglia. Lo so, capita spesso, sia
perché sono una bella ragazza, sia perché i capelli rossi in America sembrano
strani, in Giappone poi... insomma, non detti peso allo sguardo azzurro della
ragazza su di me. Poi, mi sentii afferrare per la vita e fermarmi. Fu allora
che invece meditai di prendere la tipa in questione e di darle un calcio, che
ne so, poteva essere una lesbica in calore. Ed invece no.
Era solamente la fidanzata di mio fratello.
“Sei Anko, per caso?” mi chiese, sbattendo le ciglia.
Annuii con poca convinzione. Non mi sembrava di conoscerla,
il che avvalorava la mia tesi della pazza maniaca.
Lei sorrise quasi con sollievo, dicendo: “Meno male…
credevo di essere arrivata in ritardo!”.
“Ma ci conosciamo?” chiesi a mia volta, guardandola di
sbieco.
Lei si sbatté una mano sulla fronte con foga, fu forse in
quel momento che intuii chi poteva essere. E in cui decisi che mi sarebbe stata
simpatica. Chissà per quale motivo… solo per una stupida pacca sulla fronte…
certo che le sensazioni e le prime impressioni sono veramente strane…
“Perdonami, devo averti dato l’aria di una svitata…”
rispose con calore. Ribadisco, mi stava proprio simpatica.
Sorrisi, dimostrando che il piccolo incidente era
dimenticato.
“Mi chiamo Kaname Koishikawa… ma tu puoi chiamarmi Kana…”
mi disse, porgendomi la mano che strinsi con la mia. Forse vedendo il mio volto
non illuminarsi di comprensione, soggiunse con una punta di sottile amarezza:
“Sono la fidanzata di Hanamichi… tuo fratello…”.
Mi colpii il suo viso, si era come oscurato. D’un tratto,
compresi. Evidentemente doveva essere rimasta delusa dal fatto che Hanamichi
non mi avesse parlato di lei. Ovvio, tra fratelli ci si dice certe cose. Certo,
tra fratelli… ma non tra me ed Hanamichi. Poteva anche essere sua moglie e mia
cognata, e non mi avrebbe detto lo stesso niente.
Come una pugnalata, mi accorsi che non sapevo niente della
vita di mio fratello di questi anni.
Che aveva fatto? Chi aveva conosciuto? Andava ancora a
scuola? Amava questa ragazza?
Ne era uscito dalla morte di nostro padre?
Sorrisi, simulando un’espressione stanca di comprensione.
Sono la maestra delle bugie, non l’ho forse già detto?
Le bugie hanno anche il pregevole dono di non fare male, ma
addirittura di arrecare piacere.
Si può dire lo stesso della verità?
“Hanamichi mi ha parlato di te…” sorrisi ancora “Perdonami,
ma non ti avevo mai visto. Per questo, non ti ho riconosciuta…”. Kana sorrise a
sua volta, evidentemente sollevata che l’unica parente del suo fidanzato che
avesse mai visto, avesse sentito parlare di lei. So che era anch’essa una
bugia, che io sia l’unica sua parente ancora in vita, ma in fondo Hanamichi non
ha mai considerato nostra madre una sua parente. quindi, effettivamente gli
rimango solamente io. E, comunque, allo stadio attuale delle cose, credo di
condividere il suo pensiero. Mi rimane solo lui.
“Mi ha detto di venirti a prendere…” mi disse Kana,
incamminandosi verso l’uscita, poi sollevò gli occhi al cielo e sospirò con
espressione affranta: “Si stava ingozzando come un maiale al bar
dell’aeroporto… ovviamente ha perso troppo tempo e quindi alla fine sono
entrata solamente io…”.
Le sorrisi, raccogliendo la mia valigia. Guardando la
valigia ai miei piedi, ripensai al mio tentativo di fuga di poco prima. Era
troppo tardi ormai.
Non sarei mai dovuta tornare.
Invece, io dovevo tornare. Da sempre. Perché quella era casa mia.
Ma non solo perché lì c’era il mio passato. Ci sarebbe
stato anche il mio futuro, benché questo ancora non lo sapessi. Il mio futuro…
un futuro che avrebbe avuto la faccia segnata dal dolore, esattamente come la
mia.
“Che cavolo di fine ha fatto, quel decelebrato?!!” urlò
Kana, schermandosi con la mano gli occhi dal sole che picchiava forte sulle
nostre teste nel parcheggio dell’aeroporto, pieno di autovetture che partivano,
colme di bagagli e valigie. Mi ero seduta di nuovo sulla mia valigia,
sospirando, gli occhi nascosti dietro le lenti da sole scure. Avevo lo sguardo
fisso su una pozza d’acqua lontana, sicuramente un miraggio del caldo. Faceva
caldo quell’estate a Tokyo, me ne ero scordata quella temperatura. Non che in
America facesse freddo, anzi… ma mia madre odiava il caldo con tutta sé stessa
e quindi, ai primi mesi di giugno, faceva le valigie e obbligava me e Rose a
trasferirci in Canada, a Vancouver, dove la temperatura era decisamente più fresca.
Credo che lo facesse per far stancare Rose e farla morire, non c’è altra
spiegazione. Insomma, di estati americane non ne ho vista nemmeno una, forse
quella stessa, poco prima di partire. Ma era ancora giugno, quindi non faceva
ancora il caldo soffocante che i telegiornali descrivevano convulsamente,
mentre io sorseggiavo cioccolata calda nel nostro chalet di montagna canadese.
Sospirai ancora, Kana continuava ad imprecare da sola, in realtà aveva
pressoché parlato da sola per tutto il tempo. Certo, forse lei aveva pensato di
stare parlando anche con me, ma io non la stavo assolutamente ascoltando, persa
com’ero sui fatti miei. Anche perché, pure se ci mettevo attenzione, che cavolo
avrei potuto capire? Niente, ecco cosa. Lei cianciava su un torneo nazionale,
su qualcosa che aveva a che vedere con il basket, e non ci capivo che cazzo
c’entrasse con me. Sembrava esagitata… avevo annuito con il capo per tutto il
tempo, inserendo qualche “mm…” e “ma certo” di tanto in tanto, per darle
perlomeno l’impressione che la stessi ascoltando. Guardai l’orologio
distrattamente, le undici e mezzo. Ero atterrata sul suolo giapponese da tre
quarti d’ora.
“Ascolta Kana… se vuoi, vado a chiamarmi un taxi e me ne
vado da sola… non c’è problema…” le dissi, guardandola dal basso verso l’alto.
“Non se ne parla neanche!” inveì lei, facendomi ritrarre
quasi spaventata “Se non arriva tra mezzo secondo netto, gli farò fare
dodicimila giri di campo! So che sei stanca, ma è una questione di principio! E
poi non hai voglia di rivedere tuo fratello?”.
“Da morire…” sibilai a denti stretti, facendo ridere Kana.
Se avesse saputo che non stavo per niente scherzando… all’improvviso, vidi
avvicinarsi tre persone. Una aveva i capelli rossi, cortissimi sul capo,
rasati… Hanamichi… non so che diamine mi prese in quel momento, avevo
programmato quel momento nella mia testa da così tanto tempo, che credevo di
essere perfettamente pronta. Credevo che la cosa sarebbe andata come io volevo
e che sarei stata calma, tranquilla e serena. D’accordo, erano anni che non ci
vedevamo e il nostro saluto non aveva avuto esattamente un coro di violini e
musica struggente in sottofondo, ma lo stesso avevo avuto modo di smaltire la
cosa, di metterla nella giusta prospettiva, così da essere preparata. Chiamare Hanamichi,
o meglio mandargli una mail e dirgli del mio arrivo, aspettare la sua risposta,
sapere che poteva ospitarmi lui o che sarebbe venuto a prendermi, era stato
enormemente facile. Non avevo sentito la sua voce, non l’avevo visto, avevo
solamente letto poche e scarne righe elettroniche, illudendomi che fosse una
cosa normale. E non lo era, per niente. Ma allora era molto più difficile
pensare di allontanarmi da mia madre, quindi tornare da Hanamichi mi sembrava
facile come bere un bicchiere d’acqua. Ma adesso che c’ero, mi sentivo crollare
la terra sotto ai piedi. Come avevo
potuto pensare che avremmo potuto fare finta che non fosse successo niente?
Come potevo tornare a farmi raccontare le storielle sulle sue mille risse? Come
potevo pensare che tutto sarebbe andato a posto, così, semplicemente senza fare
niente?
Come potevamo essere ancora fratello e sorella?
Sentivo alitarmi sul collo come un animale malvagio ed
affamato lo spettro del tradimento che gli avevo riservato. Lo avevo tradito
sì, in tutto. Lo avevo lasciato solo, dopo la morte di papà. Senza nessuno.
Senza la sua famiglia. Aveva i suoi amici, ne ero certa. Aveva avuto anche
Kana, poi. Ma la sua famiglia, quella no. Ed era quella la cosa più importante,
la più vitale e necessaria. Pensateci. Ogni volta che aprite la porta di casa,
che la sbattete, che ve la chiudete alle spalle. Avete sempre una porta da
aprire, da sbattere, da chiudere. Camminerete per le strade, per chissà che
città sconosciuta, ed avrete terrore, paura, spavento. O ne sarete affascinati,
colpiti, meravigliati, persino commossi ed innamorati. Salterete nel vuoto dei
vostri giorni con la matematica certezza che quella porta è sempre alle vostre
spalle. Magari non vorreste aprirla più, rimpiangerete di non averla sbattuta,
vi pentirete di averla chiusa. Ma quella, intanto, c’è sempre, continuerà ad
esistere, come una cintura di sicurezza per le volte in cui vorrete tornare
indietro. Tornerete indietro? Forse sì, forse no. Alle volte, lo farete,
pentendovene. Altre volte, non lo farete, pentendovene ugualmente. La porta
comunque ci sarà sempre. Con la sua intrinseca scelta. Tornare o no?
Pensate se quella porta, con la sua scelta a voi concessa,
non ci fosse più.
Avreste la stessa forza di andarvene, con la paura che
comunque non si potrebbe tornare indietro?
La forza nell’andare avanti, sarebbe la stessa, se ci fosse
l’eterna coscienza che dietro non c’è più niente?
Andreste avanti solo perché non potreste tornare indietro.
Ed andare avanti solo per questo, non porta mai da nessuna
parte.
In America, andavo avanti perché sapevo che non potevo
tornare da Hanamichi.
In Giappone, Hanamichi andava avanti perché sapeva di non
poter tornare indietro da nessuno della sua famiglia.
Alla fine, fratellino, qualcuno dei due è arrivato a qualcosa? Io no. Sono tornata, forse solo per avere la forza di andarmene di nuovo.
E tu, invece?
L’hai trovato un posto dove tornare?
Kana parlava, stava effettivamente dicendo qualcosa, ma io
non la sentivo, non riuscivo a sentirla. Avevo nelle orecchie come un
fischio indistinto che non mi permetteva di distinguere nessuna delle sue
parole. Iniziai a torcermi freneticamente le mani in grembo, come il mio
stomaco che si contorceva su sé stesso a ritmi sempre più forsennati man mano
che lui si avvicinava. Non riuscivo nemmeno a respirare, come era possibile?
Detti la colpa al caldo, all’afa, alla stanchezza, alla lunga attesa sotto il
sole cocente. Che razza di raccontaballe… mio fratello si avvicinava e io avrei
preferito morire per un qualsiasi tipo di causa inspiegabile, pur di non
trovarmi lì davanti a lui. Era così alto mio fratello, prima? No, certo che no.
L’ultima volta che ci siamo visti, avevamo dodici anni. Era alto sì, perlomeno
per la sua età e in raffronto a me, ma non così tanto. Sembrava schiacciarmi
con la sua altezza, comprimermi con la faccia premuta a terra. O ero solo io a
sentirmi così? Era cambiato, indubbiamente, aveva un passo più sicuro e deciso,
meno cadenzato e disordinato. Sembrava in forma, come uno abituato a fare
sempre attività fisica. Non prima che fosse fuori esercizio, ma adesso era
difficile non accorgersene. Aveva continuato a prendere a cazzotti chiunque gli
desse fastidio? E perché si era tagliato i capelli? Stava bene prima… poi mi
accorsi di quanto era stupido al pari di tutto il resto, farmi tutte quelle
domande. Hanamichi doveva essere cambiato. Era più importante di ogni legge
fisica, di ogni principio, di ogni teorema. Le cose, per non distruggersi,
dovevano trasformarsi.
Hanamichi, per sopravvivere, doveva essere cambiato.
All’improvviso, semplicemente troppo vicino a me.
Arrivò davanti al mio viso ed al mio sguardo in maniera
troppo rapida e repentina. Scanzonato come sempre Hanamichi, il fratello che mi
faceva morire dalle risate, raccontandomi delle sue infinite avventure e
storielle assurde. Capitavano sempre tutte a lui, chissà com’era possibile…
ridevo e lui fingeva di offendersi, quando in realtà credo che ridesse lui
stesso delle scemenze che raccontava. Ma erano le nostre scemenze, il nostro
piccolo mondo, quello che gli altri avrebbero liquidato come un qualcosa di
infinitamente sciocco ed infantile. Ora vorrei avere tra le mani una sola di
quelle cose sciocche ed infantili, poterne ancora parlare con lui, riderne
magari. Perché, invece, adesso il nostro silenzio è pieno di cose enormi ed
illimitate, cose da adulti.
Ci uccideranno, come farfalle schiacciate da lastre di
marmo freddo. E ne moriremo.
E il peggio è che non ci posso fare nulla. Ma, se c’è
qualcosa di anche peggiore, è che non ci voglio fare nulla.
“Anko…”, anche la sua voce era diversa, era una voce da
uomo. Era un uomo ormai. Lo guardai per qualche secondo, cercando di imprimere
nella mia retina l’immagine di quell’estraneo che sarebbe dovuto essere mio
fratello. Kana gli disse qualcosa in tono inquisitorio e lui mi lasciò
immediatamente perdere per dedicare tutta la sua attenzione a lei. Adesso
c’è qualcuno di più importante, no? Parlava
con lei di qualcosa che io non potevo minimamente sapere, o anche immaginare.
Sembravano parlare di allenamenti o cose simili, ma non ci prestai molta
attenzione. Che mi importava? Capire di che cosa stavano parlando, sarebbe
stato sempre troppo poco rispetto a quello che ancora non sapevo. Volevo
solamente andarmene ed ancora mi chiesi chi cavolo me l’aveva fatta fare a
chiamare proprio lui, sarei potuta tornare e non dirgli niente, oppure
andarmene dall’altra parte del mondo, senza che lui lo venisse mai a sapere.
Sarebbe stata la scelta più logica. Ed invece, idiota come sono, lo avevo
chiamato. Che grandissima demente.
“Allora, Anko, com’è stato il viaggio?” la sua voce mi
sorprese come non mai. Ma stava davvero parlando con me?
“Che cosa?” chiesi scioccamente.
“Il viaggio… com’è andato…” ripeté lui con pazienza. Il suo
sguardo era opaco, sorrideva amabilmente, e so per certo che Hanamichi non
conosce sorrisi amabili. Quelli che si fanno solo per educazione. Lui conosce
le risate sguaiate, gli accessi di allegria che ti gettano a terra, gli
starnazzi dei momenti sommamente divertenti. Ma certo… Kana non sa nulla di
me e di te. Sta fingendo per lei… la ama molto, allora… tranquillo,
Hanamichi, in fondo siamo stati fratelli per dodici anni…
“Da schifo…” la mia voce suonò troppo acuta, quindi cercai di restringere il tiro, incrociando le braccia e sbuffando: “E poi sei stato dodici ore per arrivare… più del tempo del volo…”. Lo guardai di sottecchi, sperando di non avere esagerato in questo eccesso di confidenza. Ma lo vidi sorridere piano, lo sguardo che si rasserenava un po’. Sorrisi tra me e me, avevo colto perfettamente l’antifona…
“Non erano assolutamente dodici ore… hai una nozione tutta
sballata del tempo…” replicò lui, offeso.
“Hai ragione… erano quattordici ore…” gli risposi
per le rime, ridendo. Volevo solo mettermi a gridare, ma continuai a ridere
come una povera cretina. L’avevo capito che, finché ci fosse stata Kana,
avremmo fatto finta che tutto fosse a posto. Come mettermi davanti agli occhi
un’enorme torta sapendo che sono affamata, ma dirmi che non la posso mangiare.
Era esattamente la stessa cosa. Farmi vedere come sarebbe stata se quel giorno
non me ne fossi andata, ma con l’aggravante che non era per niente vero e che
non lo stava certamente facendo per me.
Per la prima volta nella mia vita, odiai una bugia più
della verità.
Avrei preferito che non mi parlasse piuttosto che godermi
questa patetica scenetta.
Il prezzo della normalità non poteva essere null’altro che
vivere in una bugia assurda e senza senso. Ed, in effetti, come avrebbe potuto
essere altrimenti?
Ridevo ancora, quando mi voltai senza accorgermene. Il
cuore mi balzò in petto. Non poteva essere vero… anche questo… fantastico, era
davvero la mia giornata fortunata… sentivo la pelle del mio viso farsi gelida
e, ci scommettevo, anche bianca, creando un contrasto strano con il colore dei
miei capelli. Come potevo sperare che non venisse anche lui? Chiusi gli occhi,
maledicendo la mia stupidità ancora una volta. Era lui il vero fratello di
Hanamichi, non io. Il sangue non c’entrava niente. Chi cazzo se ne frega di un
liquido che scorre dentro di te e che vedi solo se stai particolarmente male?
Non è mai importato nulla. A tutti e tre. Era un fratello anche per me… che
enorme cazzata… un fratello, sì come no. Era… tutto, tranne che un
fratello. E ho tradito anche lui.
“Quindi, sei tornata davvero…”.
Accolsi l’ultima parola con un sospiro, come se mi ferisse
dentro e concedessi a me stessa solamente quel respiro un po’ più intenso. E
già volevo di nuovo la bugia di Hanamichi, fingere come due provetti attori,
piuttosto che vomitarci addosso la verità dietro parole innocuamente buttate a
caso, ma in realtà scelte con il sadismo di un killer. Sono veramente
incontentabile… sollevai lo sguardo timidamente, ritrovandomi a guardarlo dopo
tutti questi anni. Era cambiato anche lui, ovviamente, ma non fu quello a
colpirmi. Sgranai gli occhi, sentendo qualcosa premermi sotto le palpebre.
Abbassai gli occhi, spaventata.
Lacrime.
Ecco cos’era.
Stavo per… piangere… impossibile, stavo per piangere…
Non per mio fratello, ma per… lui… sbirciai con la
coda dell’occhio le loro mani unite, scoprendo che mi faceva male più di quanto
credevo possibile. Non ci avevo mai pensato in questi anni, ed anche questo era
stato enormemente facile. Sapevo che poteva succedere, eppure non mi
preoccupava. Per nulla. Quando sarei tornata, anche questo sarebbe andato a
posto. In fondo, era di lui che
stavamo parlando. Mi avrebbe capito, sicuramente.
Se non rispondeva alle chiamate, era perché aveva da fare.
Se non rispondeva alle lettere, era perché non gli piaceva
scrivere.
Se non si faceva sentire, era perché era ancora arrabbiato
con me.
Ma gli sarebbe passata… ovviamente…
Come cazzo ho fatto a pensarla per quattro anni così?
Ci mancava solamente che pensassi che m’avrebbe potato un regalo e che mi avrebbe portato al luna park, come facevamo da bambini. Che grandissima idiota… alla fine, era ovvio il contrario. E’ andato tutto a puttane anche con lui…
Sollevai gli occhi, ringraziando le lenti scure che mi
celavano ancora alla vista di tutti. I miei occhi sono sempre stati più sinceri
di me, mi hanno sempre smascherata, ma, se sono coperti, sono più tranquilla.
Non si vide che erano umidi, non si vide che guardavano ossessivamente quelle
due mani teneramente intrecciate, non fecero indovinare i miei pensieri su dove
cazzo finisse la sua ed iniziasse l’altra. Queste cose, magari, un giorno di
tanti anni prima, lui le avrebbe capite semplicemente, sentendo la mia voce. Ma
adesso non era più così… trattenni ancora le lacrime, cercando di controllarmi
con tutte le mie forze. Ci mancava solamente che scoppiassi a piangere come una
cretina.
“Certo che sono tornata… “ dissi piano, senza rabbia,
volevo perlomeno cercare di non tradire il tacito accordo di tranquillità con
Hanamichi “Le promesse le mantengo, io…”.
Era stato uno sfogo represso, valevole solo per la mia
persona. Me lo sarei fatto bastare in quelle serate, in cui quel ricordo si
sarebbe affacciato prepotentemente nella mia mente, colorandosi ogni volta di
particolari diversi ed assolutamente inediti. Solo per le mie orecchie, la
parola promesse si era vestita di un tono nostalgico, aveva indossato
con rabbia e foga il dolore di questi anni, aveva assunto le sembianze di
tradimenti consumati e ricambiati. Nella mia sola ed unica parola, c’era tutto
quello che ci sarebbe dovuto essere sempre. Era una parola persa nel vento, una
parola che sarebbe vibrata a vuoto, ma almeno c’era. Almeno l’avevo detta.
Almeno, paradossalmente a dirsi per me, in quella sola parola ero stata
sincera.
Avevo accentuato a vuoto anche l’io, sapendo che non
se ne sarebbe accorto. Ma poco importava, importava poco anche di questo. Era
solo una mia stupida ed irriflessiva vendetta… my love is a vengeance,
that’s never free… la prima canzone
che avevo nell’I-Pod, ricordavo solo quel verso adesso. L’avevo messa solamente
perché era la canzone che c’era alla radio il giorno che seppi della morte di
mio padre. Era stato un caso. Ed invece già conteneva un implicito messaggio. Il
mio amore è una vendetta che non sarà mai libera.
Certe volte, le cose sono da sempre in attesa di succedere.
Aspettano solamente il momento in cui fregarti.
E quello era il momento.
“Ci sono promesse… e promesse… e, per alcune, è
chiaro che non saranno rispettate… non lo sai, Anko?”.
Yohei… dissi solamente nella mia mente, incapace di
parlare, la bocca impastata. In un secondo, si riempì la mancanza di quel nome,
da anni mai pronunciato nei miei pensieri per paura che mi facesse male. Come
sempre, ha capito tutto.
Sorrisi, volgendo lo sguardo altrove. La presenza di una
canzone, messa apposta per farmi nascondere dietro di essa. Il vuoto nella
mente, messo apposta per farmi nascondere dietro di esso. E adesso questa
parola ripetuta, messa apposta per farci nascondere dietro di essa.
Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.
Credo, perché sono io sempre dannatamente la stessa.
Se chiudo gli
occhi, non ci sei
In fondo
a tutti i miei vorrei.
Almeno tu
lasciassi scia,
saprei
come lavarti via.
Se chiudo
gli occhi, dove sei,
davanti a
tutti i dubbi miei.
Almeno tu
lasciassi scia,
saprei
come mandarti via.
Yohei Mito
Quando quella mattina mi ero alzato dal letto, per un solo
secondo non mi ero ricordato che cazzo di giorno era. Quella informazione mi
era giunta subdola, mentre mi facevo la doccia e l’acqua mi scorreva lentamente
gelida sul viso, impregnando progressivamente i miei capelli. Suonavano lente
le ultime parole di una canzone di poco tempo prima dei Limp Bizkit, gruppo che
mi piaceva parecchio; avevo alzato parecchio il volume, riconoscendo l’accordo
iniziale di Behind blue eyes, ed avevo aperto il rubinetto dell’acqua.
Canticchiavo l’unico verso che sapevo, dato che l’inglese non c’era mai stato
verso di impararlo, né a scuola né altrove. Quell’unico verso me l’aveva
scritto Haruko sul diario di scuola il giorno dopo il famoso bacio, e mesi
dopo, le avevo chiesto il nome della canzone. Scaricatola da internet, mi era
piaciuta e quindi, sebbene con me e con lei non c’entrasse niente, era
diventata una specie di nostra canzone. No one knows what’s like to feel these feelings, like
I do. Questo
diceva. Quella mattina, quella fottuta canzone era messa apposta lì per farmi
distrarre la mente e poi darmi un colpo in testa. Era finita, quando il dj
diceva che Kyoko Kyozawa aveva vinto i biglietti per il concerto dei Fall out
boys per la settimana prossima. Disse la data del concerto, ricordandomi
automaticamente che giorno era. E io da perfetto coglione me ne ero
completamente scordato. Come un imbecille, uscii fuori dalla doccia, raggiungendo
camera mia e controllai il piccolo calendario sulla scrivania tra pile di libri
ormai dimenticati. Cazzo, allora era vero. Era proprio il giorno che diceva
quello alla radio.
Era il giorno che tornava Anko.
Mi accasciai sul letto, gettando per terra l’accappatoio, e
rimasi qualche secondo, fermo a guardare il soffitto bianco della mia camera.
Cercavo di tenere a bada il cumulo di pensieri che la mia mente automaticamente
stava formulando, ma, come era prevedibile, non ci riuscivo per niente. Cazzo,
Anko stava per tornare. E non un stava per tornare dilatato nel tempo,
ma… adesso, tra poche ore. Ero stato una settimana a dirmi che mancava ancora
un sacco di tempo, finché i giorni si erano progressivamente ed inesorabilmente
fatti ore. E sicuramente tutto questo era avvenuto troppo in fretta per i mie
gusti. Decisamente, troppo in fretta.
“Yohei, telefono!” la voce urlata di una delle mie sorelle
mi fece alzare bruscamente dal letto. Mi infilai le prime cose che avevo sotto
gli occhi e scesi al piano di sotto. Reika se ne stava ferma in attesa con la
cornetta in mano, sbuffando scocciata, mentre nella stanza accanto Sakura e
Yukari gridavano come delle ossesse su chi avesse rovinato con un’enorme
macchia di cioccolato una camicia azzurra. Come era prevedibile, erano appena
arrivate a gettarsi contro ogni cosa che avessero a tiro. Dove fossero i miei
in questo spargimento di sangue? Semplice. Mia madre stava in cucina a farsi i
cavoli suoi, dicendo che stava cucinando, e mio padre guardava la televisione,
cercando di capire come si praticasse correttamente la pesca d’altura. Speriamo
che non mi metta in mezzo… la pensione ai genitori gioca decisamente brutti
scherzi. Credo che, adesso, si sia reso conto con compiutezza che viviamo tutti
e due in un inferno femminile e cerchi di scappare ogni momento, trascinandomi
dietro. Cazzo, ci doveva pensare prima di mettere al mondo tre figlie femmine,
prima di arrivare al sospirato erede maschio. Così te la vai proprio a cercare,
d’accordo io non sarei mai nato, ma queste tre, anzi quattro se aggiungiamo mia
madre, sono difficili da sopportare anche nei momenti migliori. E c’hanno pure
Reika ventitre anni e le gemelle diciannove, quando cazzo si sposano e se ne
vanno di casa?
“Vi chiudete quella fogna di bocca?!” urlai, la mano
premuta sulla cornetta del telefono. Il fracasso ovviamente continuò, aggravato
dalle urla di mia madre, mio padre ed anche di Reika. La casa degli orrori,
ecco cos’è…
Sospirai, tanto non mi avrebbero mai sentito, e cercai di
allontanarmi il più possibile, perlomeno per quanto me lo concedesse la
lunghezza del filo del telefono. Se ne spendono di soldi, maledizione, ma un
cordless no, eh!
“Chi è? Cioè pronto…”.
“Cazzo, oggi c’è più casino del solito…”.
“Che hai detto?!” urlai nella cornetta, non riuscendo a
distinguere nessuna parola.
“HO DETTO CHE OGGI C’E’ PIU’ CASINO DEL SOLITO!!!”.
“Come se io non me ne ero accorto, sei un genio
Hanamichi!”.
“Modestamente lo so…”.
Rotai gli occhi alla sua esplosione di sghignazzi
presuntuosi, e gridai ancora, cercando di sovrastare le voci delle galline:
“Che cazzo vuoi?!”.
“Lo sai che giorno è oggi?!” la sua voce si era fatta più
bassa ed incerta, ma distinsi ugualmente ogni sillaba.
Certo che lo so, maledizione… sono quattro anni che lo aspetto sto fottuto giorno…
“Il giorno che faccio richiesta di essere adottato?” dissi
nervosamente, facendo passare il fremito nella mia intonazione come conseguenza
del casino che ero costretto a subire da diciassette anni. Era credibile in
fondo, no? Ma era una bugia bella e buona… ed Hanamichi poteva anche capirlo.
In fondo, è quel fratello che la mia vera famiglia non è stata in grado di
darmi. Quindi, sa perfettamente che, come chi dice con eccessivi scatti nervosi
di odiare la propria famiglia, in realtà la ama molto, lo stesso vale per me.
Lo adoro sto casino, non potrei viverci senza, lo odierei il silenzio che c’è a
casa sua, per esempio, adesso parzialmente rotto solo dalle voci mie, di Kana e
di Haruko. Cazzo, ma lo odierei lo stesso. Lo odierei come odierei la sua causa,
la mia famiglia assente. Come la odia lui, mentre ci ride eccessivamente sopra.
Ognuno di noi due è sempre il contrario dell’altro.
“Non chiedere di essere adottato dalla famiglia Sakuragi,
allora…” ci rise sopra Hanamichi, come volevasi dimostrare “Avresti un culo
allucinante… e con i Callaway, non ti va meglio…”.
“Escludere Sakuragi e Callaway… perfetto…” annotai “Anche
perché chi ce la farebbe a diventare tuo parente?!”.
“Vuoi che ti spacchi la testa?!”.
“Quando vuoi, sempre che non te la rompa prima io quella
testa di ca…”.
“Yohei!” la voce scandalizzata di mia madre mi richiamò
bruscamente all’ordine. Ma che stava origliando?!
“Scusami mamma…” dissi, abbassando il capo in segno di
pentimento, mentre quel bastardo se la rideva dall’altra parte del telefono,
scimmiottando la mia voce: “~ ~Scusami
mammina!! ~ ~”.
“Quando ci vediamo, ti prendo a calci, razza di
mentecatto…” lo minacciai, sibilando silenziosamente nel telefono.
“Sì, sì come no… allora, passi da casa mia tra mezz’ora?
L’aereo dovrebbe atterrare tra due ore al massimo…” aggiunse allora Hanamichi,
il tono ridiventato nuovamente serio. Certo, abbiamo fatto finta fino ad
adesso che sia tutto normale… Hanamichi non voleva pensarci nemmeno lui. Al
fatto che Anko stava tornando, intendo. Se faceva sclerare me, figuriamoci lui…
doveva essere sbarellato di brutto. In fondo, che facessimo finta tutti e due,
lo sapevamo che c’era qualcosa di diverso in quella giornata. Che io finga di
essere arrabbiato per la mia caotica famiglia o che lui scherzi come sempre,
non cambia nulla. Alla fine, sempre lì andiamo a sbattere la testa. Anko sta
per tornare. Punto e basta. E nessuno dei due è pronto alla cosa. Né lui, né
tantomeno io. Prenderci per il culo serve a dirci che perlomeno questo resterà
uguale, ma se fingiamo davvero di non ricordarcelo che cosa accade oggi… bè,
saremmo due emeriti coglioni. Lo sappiamo da tutta la vita che cosa accade
oggi.
“Va bene…” risposi, senza ulteriori false amnesie “Andiamo
assieme a prendere Haruko e Kana?”.
“Kana è già qui…” mi rispose allegro, mentre sentivo un
saluto provenire dalle sue spalle e diretto a me.
“Ah, allora Kana è già lì… e ci sta da molto tempo?” chiesi
sornione e malizioso, capendo perfettamente in che circostanza Kana si era
trovata ad essere già lì.
“Ciao Yohei!” urlò Hanamichi nel telefono, non dopo aver
aggiunto, spaccone: “Poi ti racconto tutto!”. Peccato che anche Kana avesse
sentito tutto… prima del suono del telefono riagganciato, udii chiaramente il
clangore di una padella che lo colpiva sulla testa. Speriamo che non l’abbia
ucciso… quella ragazza certe volte è veramente troppo violenta…
Appoggiai nuovamente la cornetta sul telefono, poi mi
sporsi in salotto per comunicare i miei programmi per la giornata.
“E così Anko torna a casa…” commentò piattamente Reika,
guardandomi di sbieco. Sollevai gli occhi noncurante, fingendo disinteresse.
Cazzo, raccontala una volta una cosa ad una ragazza e quella non se la scorda
mai, specialmente se si tratta di tua sorella maggiore. Quel maledetto giorno
di quattro anni fa, è vero che avevo quasi tredici anni, ma come cazzo mi venne
di dire tutto a Reika? Sono davvero un grandissimo coglione…
“Immagino che Hanamichi sia contento…” mi disse Sakura,
mentre cercava inutilmente di smacchiare la sua camicia azzurra.
“Come no…” sibilò Reika, socchiudendo gli occhi.
“Contentissimo…” cercai di correggere il tiro di quella
boccaccia larga di mia sorella, considerando che le altre due e i miei invece
non sanno niente.
“Quindi, l’andrai a prendere all’aeroporto?” mi chiese mia
madre e mi limitai ad annuire, prima di dire che dovevo uscire tra qualche
minuto e quindi mi dovevo vestire. Stavo per salire di sopra, quando Reika mi
fermò per un braccio e mi trascinò in bagno. Ma che cazzo di fine hanno fatto
le ragazze di una volta tutte zucchero e miele?! O meglio… sono mai esistite?!
“Che c’è?!” chiesi a mia sorella, che mi guardava con gli
occhi fiammeggianti e le braccia conserte.
“Non dirmi che vuoi andare veramente a prendere… quella
lì… all’aeroporto?!”.
Sospirai, ecco che cosa si guadagnava ad essere aperti e
sinceri con le proprie sorelle…
Annuii di nuovo, già ne avevo una voglia pazzesca, a
ribadirlo ulteriormente mi venivano i nervi.
“Ma come cavolo fai, eh?! Non ti ricordi che ha fatto ad
Hanamichi?! E adesso se ne torna bella bella come se niente fosse?!” inveì
Reika contro di me, scuotendomi per il braccio “Che c’è, ha finito i soldi?!”.
“Non lo faccio per lei…” fui costretto a mormorare
“Figurati che cazzo me ne sbatte di lei… uno, alla fine, le cose le impara, Rei…
tardi, ma le impara… no, non è per lei… è per Hanamichi… non credo che Kaname
sappia niente… insomma, non voglio che…”.
“… stia da solo…” completò lei per me, venendomi incontro.
Annuii con il capo, mentre lei sorrideva leggermente.
“Fai bene…” mi rispose conciliante “Anche se secondo me,
nemmeno lui dovrebbe andare a prenderla, come se niente fosse…”.
“Lo penso anch’io…” le dissi sinceramente “Ma conosci
Hanamichi… se decide una cosa, nella maggior parte delle volte la motivazione
se la tiene per sé… non so nemmeno perché Anko abbia deciso di tornare… non me
l’ha detto…”.
“Quindi non sai nemmeno perché ritorna?!” mi chiese
sconcertata Reika.
Negai con il capo, era veramente una situazione strana a
guardarla in quella maniera. Non che a viverla fosse una cosa diversa, mi
sentivo strano anche in quello. Non avevo la minima idea di che cosa stessi
facendo. E soprattutto del perché lo stessi facendo.
“Va bene…” approvò alla fine lei “Ma mi raccomando Yohei…
non farti illusioni… le persone restano sempre le stesse, sempre dannatamente
le stesse. E nonostante tu ci speri che cambino, quelle rimangono sempre
uguali. Non credere o sperare per un solo secondo che lei sia cambiata…”.
Le risposi male.
Dissi che non ci credevo, né tantomeno ci speravo affatto.
In realtà, era proprio nel contrario che speravo, che lei
non fosse cambiata.
Ritrovando la persona che mi aveva fatto così male quattro
anni prima, me ne sarebbe fregato di tutto. E l’avrei gettata fuori a calci
dalla mia vita.
Ne avessi trovata un’altra, nuova, o fosse anche quell’Anko
che io avevo sempre conosciuto… bè, le cose sarebbero andate decisamente a
puttane.
Perché sarebbero state sempre le stesse. Sempre
dannatamente le stesse.
E così anch’io dimostrerei di essere sempre lo stesso.
Ero rimasto dieci minuti buoni davanti al cancello di casa
di Hanamichi, incapace di fare un maledetto passo e nemmeno di suonare il
campanello. Ma in quella strana giornata, non sembrava una novità fermarmi
immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Ero rimasto tre ore davanti allo
specchio, apparentemente incerto tra una camicia bianca ed una maglia rossa. In
realtà, me ne fregavo assolutamente, ma era sempre una scusa per perdere un po’
di tempo. Tempo perso anche per decidere se andare a piedi o in bici. Tempo perso
anche per decidere se farsi un’aranciata o meno. Tempo perso anche per decidere
se passare a prendere prima Haruko o meno. Ed ancora tempo perso per decidere
se suonare il campanello o… suonare il campanello tra un altro po’. Appoggiai
la testa al muretto che circondava la casa, chiudendo gli occhi, cercando di
calmarmi, dicendomi che non mi sarei mai dovuto comportare in quella maniera
penosa. Va bene, era pur sempre Anko, era sempre di lei che stavo parlando, ma
cazzo! non era da me farmi prendere dalle menate in quel modo. Adesso ero
cambiato, no? Adesso stavo bene, no? Adesso stavo con Haruko, no? Quindi, Anko
ormai non c’entrava più niente con me. Basta, mi dovevo preoccupare solamente
per Hanamichi. E pure questo, solo se era assolutamente necessario…
Allegre come sempre, le voci di Hanamichi e Kaname
raggiunsero le mie orecchie, appena in tempo. Mi staccai dal muro, raggiungendo
la porta del cancello, come se lo stessi aprendo proprio in quell’istante.
“Venti minuti di ritardo, complimenti!” mi minacciò
Hanamichi, ancora alla fine del vialetto. Calciò con un piede una vecchia corda
attorcigliata su sé stessa. Da quando è morto il padre, lascia sempre tutto in
mezzo, anche quella… la corda che usavamo con Anko per arrampicarci
sull’acacia… se buttasse qualcosa, non farebbe male. Ma se glielo
suggerisco, quello sicuramente lo fa fare a me.
“E’ meglio che ti stai zitto… ti ricordo che già al
telefono avevo promesso di prenderti a calci…” risposi noncurante.
“Perché, che ho fatto?!” fece lui scioccato. Oddio, perde
anche la memoria a breve termine…
“Lasciamo perdere…” risposi, agitando la mano “Per questa
volta, te la faccio passare…”. Strano, quel giorno non avevo nemmeno voglia di
una sana scazzottata con lui, quelle che di solito mi riappacificano con il
mondo, ed Hanamichi sembrò accorgersene, dato che non insisté oltre.
Credo che, mai come in quel momento, ci fosse un sottobosco
di pensieri e di parole non dette, molto più importanti e sincere delle mille
che ci potevamo scambiare, attribuendoli di volta in volta un significato ed
una motivazione diversa.
“Dobbiamo andare a prendere Haruko?” mi chiese Kana,
stringendo il braccio di Hanamichi. Sembrava più serena e tranquilla del solito
quella mattina, lei sola tra tutti e tre. Mi azzardai anche a pensare che era
persino più carina del solito; i casi erano due: o Hanamichi li aveva
raccontato tutto della sua famiglia e di Anko, ma in quel caso dubito che
avrebbe avuto una faccia contenta, anche se investita della somma fiducia del
suo ragazzo. Oppure… sorrisi tra me e me… è rimasta con lui stanotte,
Hanamichi voleva raccontarmi qualcosa e lei non voleva… quindi ci sono arrivati
anche loro…
Automaticamente, mi venne a pensare a me e ad Haruko.
Stavamo assieme dallo stesso momento in cui stavano assieme anche Hanamichi e
Kana. Eppure, tra me e lei non era ancora successo niente del genere. Non so
come, ma la vedevo sempre troppo piccola per… insomma, certo che lo
volessi, il pensiero mi lasciava sveglio di notte. Ma Haruko non era solamente
quello, cazzo lei… era Haruko. La mia prima vera ragazza. È una
cosa demente, ma non volevo che lei un giorno se ne pentisse. Lo doveva volere
con tutta sé stessa. Doveva vedere la sua prima volta necessariamente con me,
non come un’eventualità che poteva nel caso accadere, dato il nostro stare
assieme al momento.
Per me, era diverso. Sommamente diverso.
Non avevo una favola a cui credere, ma solo una bella storia dorata da regalare. A lei, ad Haruko.
Volevo che la sua prima volta fosse perfetta. Cazzo, era
inquietante pensare che lo volessi così tanto più per lei che per me, ma era
così. E non ci potevo fare niente. Non volevo una fiaba, non ce l’avevo, né
tantomeno la desideravo. La mia favola sarebbe stata la sua. Il ricordo magari
di un giorno lontano, in cui lei era stata felice, lei il mio primo amore. E
basta. Sarà poco, ma era esattamente questo. Volere di più era inutile,
superfluo. Già vedere lei in quel momento volere solamente me, sarebbe stata la
cosa più bella del mondo. Ci impazzivo nell’attesa, ma avere prima quello che
non era ancora per me, era come… che ne so… rubare… sì, rubare, solo per
non avere avuto la forza di aspettare un po’ di più ed avere così quella cosa
tutta per sé. So che cosa significa rubare qualcosa che non è proprio.
Strappare da dentro qualcosa che nessun altro potrà mai restituirti.
Esattamente come dicevo qualche giorno prima per Ayako… aver dato ogni giorno
un pezzo della propria anima a qualcuno, che non te la ridà più indietro. Alla
fine, la perdi del tutto, no? E quando trovi qualcuno che può darti qualcosa
non di tuo, ma di proprio, al posto di qualcosa che hai perso per sempre… vai a
cercare la fregatura nel pacchetto. Quel qualcuno ti dona gratuitamente un
qualcosa di così bello e luccicante, che quello che hai perso un giorno
lontano, sembra una cagata.
Prima che Haruko mi donasse il suo di cuore, credevo che il
mio non sarebbe mai stato tornato a posto.
O meglio, credo che ormai avessi perso il ricordo di che
cosa fosse un cuore, non che mai davvero l’avessi chiamato così.
La sua assenza l’avevo nascosta dietro la mancanza di
quello stesso nome.
La mancanza che Anko aveva portato… portandosi via, rubandosi…
il mio cuore.
Haruko se ne stava seduta sotto il portico di casa sua, un
gomito poggiato sul ginocchio e la mano aperta sotto il mento. Sorrisi nel
vederla da lontano, all’imbocco della strada di casa sua, praticamente davanti
a me. Vestiva di verde quel giorno, un vestitino di lino che le lasciava
scoperte le gambe già abbronzate. Ne seguii la linea sinuosa per qualche
secondo, concentrandomi poi sul suo viso, reso luminoso dalla luce del sole e
scoperto dai capelli legati sulla nuca. I suoi occhi seguivano pensieri tutti
suoi, chissà a che diamine pensava in quel momento, in cui la sua mente era
solamente sua e di nessun altro, nemmeno mia. Cercai di distinguere qualcosa
dei suoi pensieri dai suoi occhi lontani, ma dovevo essere un indovino per
capirlo. Poteva star pensando davvero di tutto in quel momento. Geloso quasi
dei suoi pensieri, la raggiunsi velocemente, sorpassando Kana ed Hanamichi che
tubavano tra loro dalla mattina. Non appena mi vide, sorrise e si affrettò ad
infilare velocemente qualcosa in tasca. La guardai sospettoso, socchiudendo gli
occhi, ma lei mi ricambiò lo sguardo, sorridendo ancora. Lei non potrà mai
avere pensieri da nascondere come i miei. Scossi la testa, decidendo di
lasciar perdere. La salutai, porgendole la mia mano, la strinse mentre salutava
Hanamichi e Kana.
Ci incamminammo lentamente, chiacchierando, verso la
stazione della metro, arrivandoci quasi quindici minuti dopo. Ogni tanto,
camminando, sentivo lo sguardo di Haruko addosso, ma quando mi voltavo per
guardarla, lei faceva finta di niente. Non riuscivo assolutamente a capire che
cosa avesse, ma evitai a me stesso di preoccuparmi anche di quello. Ad ogni
passo, inesorabilmente si avvicinava il momento in cui avrei rivisto Anko. E,
ad ogni passo, desideravo sempre di più che quella distanza si allungasse
sempre di più nel tempo e nello spazio, fino a diventare infinita ed eterna.
Invece, al contrario, quella si faceva sempre più vicina.
Eravamo già seduti nel treno, quando Haruko mi rivolse la
parola. Ero rimasto in silenzio da quando l’avevo salutata, e i cinguettii
continui di Kana ed Hanamichi non aiutavano di certo.
“Yohei…” mi chiamò leggermente.
Mugugnai qualcosa, sperando che lo interpretasse come il
segnale che la stavo ascoltando.
“Quando vanno in vacanza i tuoi?” mi chiese, la mano che
stringeva la mia che si era fatta improvvisamente fredda.
La guardai senza capire, sbattendo gli occhi, aveva il viso
rosso e gli occhi che scintillavano in maniera strana. Mi occorse qualche
secondo per rispondere, era l’ultima cosa a cui stavo pensando. Feci mente
locale, poi riuscii a ricordare una data abbastanza precisa.
“Quindi, non ci sono per la fine del mese?” mi chiese
ancora lei.
“No, penso proprio di no…”.
“E le tue sorelle?”.
“Le mie sorelle?” chiesi ancora senza capire. Non riuscivo a capire che razza di senso avesse quel
discorso, e poi proprio in quel momento. Era ovvio che Haruko non potesse
sapere che cosa mi passava per la testa, ma, cazzo, si capiva che non era
certamente una cosa a cui stavo pensando. Possibile che lei invece questo non
lo capisse? Quando si tratta di lei, mi basta guardare il suo viso ed
immediatamente riesco a rendermi conto che è una giornata no. Lei, invece,
possibile che non lo capisse per me? Scossi il capo, quanto prima finiva quella
giornata, meglio era… stavo arrivando anche a mettere in dubbio Haruko. Magari
se ne era accorta e stava cercando di farmi distrarre… sì, doveva essere così…
e poi non è mica un’indovina, come cazzo fa a sapere di me e di Anko?
“Reika se ne va la settimana prossima… ha un seminario di
ceramica o qualche stronzata del genere… le gemelle invece non so dove diamine
vanno… ma per la fine del mese sicuramente non ci sono…” risposi esauriente,
cercando di soddisfare interamente la sua curiosità.
Lei sorrise, stringendo più forte la mia mano ed
appoggiando la testa sulla mia spalla. Accolsi il dolce peso di lei su di me,
lo sguardo fisso sul panorama di cemento ed asfalto che passava fuori dal
finestrino. Quanto prima quella storia sarebbe finita, meglio sarebbe stato.
Decisamente. Per tutti.
Arrivammo all’aeroporto quasi un’ora prima
dell’atterraggio, che comunque si prevedeva in ritardo di una mezz’oretta. Ci
dirigemmo immediatamente ad un piccolo bar, dato che sia io che Hanamichi non
eravamo riusciti a fare colazione quella mattina. Ci sedemmo attorno ad un
tavolino circolare, Kana ed Haruko ordinarono due cappuccini, mentre come era
prevedibile, io ed Hanamichi due panini megaimbottiti. Quella mattina, non
avevo avuto molta fame, ma paradossalmente adesso il nervosismo si era
trasformato in una fame insaziabile. E la stessa cosa doveva essere per
Hanamichi, chiaramente. Mangiava troppo quel giorno, persino per uno come lui.
Dopo il panino, infatti, entrambi ordinammo due porzioni di patatine fritte a
testa, un altro panino ed un’insalata, dopo che Kana aveva iniziato a rompere,
perché Hanamichi non stava rispettando la tabella di marcia alimentare
pre-campionato, che lei gli aveva scrupolosamente preparato. Hanamichi
sollevava gli occhi al cielo, dicendo che non gli interessava, che aveva fame e
che lei lo teneva a stecchetto da tre settimane, ma gli sguardi in tralice verso
di me mi lasciavano tranquillamente presagire che il motivo era un altro.
Il mio stesso motivo.
Haruko si agitava divertita sulla sedia, ascoltando i
continui bisticci tra Hanamichi e Kana, poi quando si accorse che stavano
iniziando ad alzare la voce, pensò bene di cambiare discorso. Scegliendone uno
che era anche peggiore.
“Hanamichi, come mai tua sorella ha deciso di tornare a
casa?” chiese ingenuamente, sporgendosi oltre il tavolo.
Mi sentii il cranio gelare, mentre per qualche minuto non
avevo pensato ad Anko. Guardai Hanamichi con la coda dell’occhio, deglutendo
con forza il boccone che stavo ingoiando. Hanamichi ricambiò la mia occhiata,
facendomi capire che dovevo ascoltare anch’io il suo discorso. Non capivo
perché, ma poi intuii che doveva trattarsi del comportamento che voleva tenere
con Anko. In fondo, non avevamo parlato per niente di questo nei giorni
precedenti, rimandando l’inevitabile, e dalla mattina non eravamo rimasti mai
soli.
Poggiò sul piatto il panino che stava divorando, assumendo un’espressione più seria della precedente. Dubitavo che avrebbe detto il vero motivo dell’arrivo di Anko, non l’aveva detto nemmeno a me, figuriamoci a loro ed in quel momento. Per arrivare a quella risposta, pienamente sincera e veritiera, bisognava tornare indietro nel tempo nel racconto di almeno cinque anni. Ed ero sicuro che Hanamichi non l’avrebbe fatto. Ed, ammesso e non concesso che quel coglione l’avesse fatto, mi sarei alzato ed avrei finto un mal di stomaco cronico. Non l’avrei potuta sentire quella storia per l’ennesima volta; era già dalla mattina che mi si riproponeva nel cervello, proiettata a ciclo continuo come una videocassetta scassata.
“Ha litigato con nostra madre…” iniziò lui pacatamente, una
piccola smorfia sul viso che solo io riuscii a distinguere. Cazzo, bel passo in
avanti… nostra madre… si doveva essere violentato psicologicamente per
dirlo…
“Non so su cosa…” proseguì, la faccia che chiaramente
testimoniava il contrario “E poi Anko aveva bisogno di tornare a casa per un
po’ per rimettere le cose a posto nella sua testa…”, continuò ancora dopo una
breve pausa… breve pausa, quindi una riflessione. Sta preparando una scusa…
quindi, la prossima è una cazzata. “I ritmi di vita dell’America sono molto
più veloci di qui, ed era un po’esaurita, forse. Andava ad una scuola privata e
tutto il resto… poi, da quello che so, è morta anche nostra nonna poco tempo fa
e le si era affezionata…”, la voce più chiara e netta. L’ultima doveva
essere una cosa successa veramente. Hanamichi si fermò ancora, prendendo
tempo e chiedendomi di passargli un tovagliolo. Eccola, l’occhiata. Quindi, era
quello che anch’io dovevo sentire attentamente.
“Ha bisogno di cose normali…” la sua voce si
soffermò sull’ultima parola, calcandola di un accento forte e deciso. Forza e
decisione ovviamente rivolte tutte e due a me. Strinsi le mani a pugno sotto il
tavolo.
“Di cose normali?” ripetei nervosamente.
“Di cose normali…” ribadì Hanamichi, non guardandomi in
viso, mentre Kana ed Haruko cercavano di capire il sottotesto della nostra
conversazione.
La voce di Hanamichi non ammetteva repliche. La rabbia
iniziò a montarmi nervosamente addosso, aggravata dal silenzio a cui tutte le
mie domande erano sottoposte. Non potevo dire niente. Era pieno diritto di
Hanamichi di starsene zitto con loro o di dire quello che voleva, tralasciando
il resto. Aveva cercato di essere prudente nel parlare, facendo capire
solamente a me che cosa voleva davvero dire. Quando Anko sarebbe tornata, lui
avrebbe cercato di comportarsi nella maniera più normale possibile. Abbassai
gli occhi, soffermando il mio sguardo sul tavolino di metallo, i pugni chiusi
violentemente sotto il tavolo. Come cazzo faceva a chiedermi questo? Come cazzo
poteva pensare che le cose potessero andare a posto così, all’improvviso, dopo
tutto ciò che lei aveva fatto? Come si poteva? Non c’era niente di normale, non
c’era mai stato, e adesso dovevamo fare finta che invece fosse tutto bello e
tranquillo? Non poteva chiedermelo, non proprio a me. Poteva chiederlo a Kana,
poteva chiederlo anche ad Haruko, ma non a me. Cazzo, non a me. Dopo tutto
quello che tutti e due mi hanno fatto passare… ero lì, per lui, solamente per
aiutarlo, se mai ce ne fosse stato bisogno, per sostenerlo, e il coglione non
riusciva a capirlo. Per la prima volta, mi pentii di quella famosa giornata di
tanti anni prima che mi aveva portato lì, il giorno che avevo incontrato Anko.
Ed Hanamichi. Quanti anni avevo? Sembra incredibile, ma avevo solamente cinque
anni. Questa fottuta storia va avanti da dodici anni, non riesco nemmeno a
pensarlo. Sono in mezzo alle loro puttanate da dodici anni, e solamente allora
ne sentivo il peso con forza assurda su di me. Ne sentivo il peso nel giorno in
cui, per la prima volta, quelle cose mi appesantivano dentro, nel giorno in cui
si erano fatte talmente gravose ed insopportabili da non tollerarle più.
Hanamichi non poteva chiedermi di fare finta di niente. Non poteva chiedermelo
oggi. Non poteva chiedermelo mai più.
Stavano continuando a parlare di qualcosa, ma ormai non
sopportavo più niente. Mi alzai in piedi, facendo cadere la sedia alle mie
spalle, e le mani nelle tasche, mi allontanai lentamente, sordo anche ai
richiami di Haruko. Me ne fregavo anche di lei in quel momento. Manco lei stava
capendo un cazzo di quello che mi stava succedendo, pensava anche lei ai cazzi
suoi. Ed allora ero pienamente giustificato anche io se, per una maledetta
volta, pensavo solamente ai cazzi miei. Uscii dal bar, sbattendo la porta alle
mie spalle e spaventando una coppia di turisti irlandesi, che mi guardarono
male. Fanculo pure a voi… percorsi qualche passo, prima di intravedere in
lontananza il parcheggio dell’aeroporto. Mi diressi verso di esso senza motivo,
finché non scorsi in prossimità della rete metallica, che separava la parte civile
dell’aeroporto da quella militare, una piccola rientranza tra la rete stessa e
un’uscita d’emergenza dell’edificio principale dell’aeroporto. Invitanti, anche
perché seminascosti, erano due gradini che portavano alla porta stessa. Mi
sedetti scomposto su di essi, frugando con foga nelle tasche dei jeans.
Nervoso, estrassi un accendino ed una sigaretta, rimasta lì da tempi
lontanissimi in cui me ne facevo decine al giorno.
Avevo smesso per Haruko.
Avevo cominciato per Anko.
L’accesi con rabbia, aspirandone una grossa boccata. La
gola pizzicò un po’, inducendomi ad un mezzo colpo di tosse, subito represso,
non appena la faringe recuperò il ricordo del letale ma piacevole aroma. La
prima l’avevo fumata il giorno in cui Anko se ne era andata. Era un giorno di
pioggia, un giorno di novembre. Me lo ricordo come fosse ieri e non è tanto per
dire, non è come illudersi che una cosa lontanissima sia successa poco tempo
fa. No. È veramente così.
Credo che una parte della mia vita si sia fermata davvero
in quel momento. Latte e menta che si mescolavano letali l’uno all’altra,
essenze e sapori di mondi diversi che non dovevano esistere assieme.
Lei, per me, era stata latte e menta.
Era stata quella sensazione di pienezza quando senti che la
vita ti ha dato tutto quello che volevi, la sensazione di stagliarti contro
l’infinito con la forza di pochi anni di vita e dell’incoscienza di chi non ha
vissuto quasi per nulla. Latte e miele caldo nella mia gola a dissetarmi di
quello che non avevo mai cercato e che mi era capitato per caso, ma che adesso
non avrei mai lasciato alle spalle.
Era l’abitudine di giorni eterni e notti inesistenti, e poi
di giorni inesistenti e di notti eterne, quando lei se ne era andata.
Perché lei era anche menta. Anko era stata anche menta.
Fresca nei miei sensi come tramontana d’agosto, piacevole
nella mia bocca che respirava il suo sapore e al contempo pungente come solo un
primo amore può essere. Risi come un povero coglione… primo amore, che
enorme cazzata.
Era Haruko, il mio primo amore. Mi ero sbagliato nel
pensare.
Lei, Anko, poteva essere la menta di un’illusione, fugace
come una vita umana e bruciante come un incendio dentro. Ma sempre un’illusione
era. Perché, poi, se ne era andata. Anko se ne era andata. Andata, come se fosse
morta, e cazzo, sulla terra resta solo polvere.
Polvere alla polvere.
Polvere… e ricordo. Ricordo agli altri fottuti ricordi. Uno
sopra all’altro, come un castello di carte in equilibrio contro chi cerca di
buttarlo giù.
Me, per primo.
Alla fine, però, mi ero rassegnato a vederlo vacillare, ma
a vederlo sempre. Le sue carte menzognere… il colore dei suoi occhi, rossi
come il sole che affoga nel mare, quello dei suoi occhi, verdi come gli
abissi assassini del mare, il suo profumo, amaro come un’arancia colta
troppo presto… insomma, che anche cambiassi la mano con nuove carte… Haruko…
cazzo, avevo creato solo un altro fottuto castello.
Il primo era sempre là.
E mille altre carte su quelle, perché da grandissimo mentecatto ogni giorno ne sapevo ammassare di nuove sulle prime, anche se passavano ore, giorni, mesi ed anni.
Per questo, è come se fosse stato ieri quando è partita.
Probabilmente fino a ieri, ho aggiunto un altro dannato pezzo al quadretto.
E ora un altro ancora… l’urticare in gola della nicotina,
quando bramavo assetato latte e menta.
Come quel giorno di novembre sotto la pioggia, gocce di mercurio dal cielo.
Ed anche se ora era giugno, anche se erano passati cinque anni, anche se faceva un caldo boia… pestai la sigaretta sotto il piede, alzandomi dal gradino e tornando indietro, le mani che scavavano coraggio nelle tasche dei pantaloni.
Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le
stesse.
Credo perché sono io sempre dannatamente lo stesso.
Non feci in tempo a fare qualche passo che incontrai Hanamichi.
Doveva avermi seguito. Per forza, cazzo… Haruko e Kana dovevano essersi preoccupate, e la sua copertura rischiava di andarsene a fanculo.
Lo guardai distrattamente, con la freddezza di un killer che ignora chi non vuole nemmeno prendersi la briga di uccidere, e gli passai oltre.
Tre passi prima della sua voce.
“Che cazzo pensi di fare?” mi chiese, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.
“Dimmelo tu… com’era?” sibilai a denti stretti, il veleno delle mie parole che mi bruciava le labbra “Cose normali… cazzo, ne hai dette di puttanate, ma queste le batte tutte…”.
Mi afferrò per la spalla, voltandomi con violenza e affondando le dita nella carne. Lama di impotenza rabbiosa il suo sguardo.
“Che cazzo avrei dovuto fare, eh, razza di coglione?! Che cosa, eh?? È mia sorella, porca puttana!!” mi urlò contro.
Mi liberai con uno strattone della sua presa, riassettandomi i vestiti, poi lo guardai cinico, prima di dire: “Allora me ne sbatto di come la tratterai… è tua sorella, no? Quindi pensaci tu a darle cose normali…”, feci una pausa, respirando a fatica, mi mancava il fiato, maledizione… mi imposi di continuare, tornando a guardarlo con astio: “Ma non è mia sorella… quindi io farò che cazzo mi pare… non sono il tuo fottuto burattino, Hanamichi… e nemmeno il suo… non lo sono mai stato, né mai lo sarò… per me, quella che scende dall’aereo è solamente Anko… Anko, la stronza che se ne è andata cinque anni fa…”. Mi voltai, riprendendo a camminare.
Hanamichi alle mie spalle, lontano, dissi solo, ad alta voce perché lui mi udisse. “… e che non è mai tornata…”.
“Si può sapere che fine avevi fatto?”.
La voce di Haruko fu così acuta nella mia mente che mi sembrò essere quella di una sirena crudele e maliarda, che solo apparentemente affascinante, ti trascina all’inferno, se la ascolti un pochino meglio.
Scossi il capo con decisione, faceva caldo adesso e non era certamente la giornata più bella della mia vita. Quindi… normale che mi desse tutto fastidio… mi voltai verso di lei e le sorrisi, mentre lei mi guardava con la testa reclinata da un lato.
I suoi occhi sembravano… sconfinati… e mi persi per qualche istante in essi, la coscienza che qualsiasi oceano sarebbe stato buono per annegare. Qualsiasi oceano che non fossero occhi verdi… e, se poi si trattava di Haruko, allora annegare sarebbe stato ancora più dolce.
Anche se implicava morire…
“Hanamichi è venuto a cercarti… non l’hai incontrato?” soggiunse quasi preoccupata, aggrappandosi infantilmente alla manica della mia camicia.
Annuii con il capo, non aggiungendo nessuna parola, e il suo sguardo si spalancò ancora verso orizzonti neri di comprensione, a cui lei per fortuna sua… forse non mia… non arrivava. Sembrò soppesarmi ancora con lo sguardo, le iridi corone di luce che volevano illuminarmi, ma che stavolta non avevano il benché minimo effetto.
Sì, Haruko… non hai effetto su di me… e questo magari è
anche un bene, non lo so.. fino a ieri, me lo auguravo… sarebbe stato non darti
la giusta importanza che già, nel cuore, ti davo… oggi, invece, è toglierti
questa importanza. Di forza, di getto, con la stessa delicatezza che ci
metterebbe un orco a stuprare Biancaneve. Toglierti importanza… e gettarla nel
cesso… sì, perché la sto dando ad Anko questa importanza. Di nuovo.
E, per la prima volta, qualcuno, dopo me stesso, lo
elevo a più importante di te.
Scossi ancora violentemente il capo… cazzo, dovevo aver preso un’insolazione mica da ridere…
Cercando di scacciare i pensieri, mi guardai distrattamente attorno nella piazzola davanti al bar dell’aeroporto e poi sbirciando all’interno, non vedendo né Hanamichi ovviamente né Kaname ovviamente.
“E Kana? Dov’è andata?” chiese senza reale interesse.
L’espressione di Haruko sembrò tornare al presente. Aveva
deciso che, per il momento, non era il caso di indagare su di me e sulla mia
misteriosa fuga. Sempre la solita… quello che non capisci, lo lasci alle
spalle… incurante, distratta come sei… bella come sei… bella della tua purezza
distratta, non torni mai indietro… vai solo avanti… e nemmeno ti sembra
difficile… perché non sai fare altro…
E io, invece, passo la mia vita, camminando indietro
come un gambero rincoglionito…
“E’ andata al check-in… Anko sarà già atterrata ormai… ed Hanamichi non si trova…”.
E’ già qui…
Come cazzo fa caldo, il sudore mi bagna il collo della camicia e mi annebbia la vista… maledetta camicia a maniche lunghe…
Baluginare rosso nei miei occhi, baluginare incerto e sempre più distinto di lei. Lei che sta rientrando in me, come fuoco che brucia carta straccia.
La mia anima di carta.
Chiudo gli occhi e respiro ancora profondamente… non mi fai un cazzo stavolta Anko… niente, c’è Haruko adesso… cadesse il tuo aereo e morisse la terra tutta, bruciasse la città ed annegasse il mondo… tu non mi fai più un cazzo…
Afferro quasi con prepotenza la mano di Haruko, stringendola aggressivo nella mia, dammi la forza, ingiungendole di andare a raggiungere Kana.
Quando ti danno un solo minuto, prima di morire…l’ultimo
desiderio… riprenditelo, figlio di puttana…
Perché l’ultimo desiderio è solamente quello di dirsi
di aver deciso quando e come morire… e rendersi onnipotenti, bestemmiando Dio e
la vita…
Trascinai Haruko dietro di me, secondina del mio supplizio, e mi incamminai velocemente verso l’interno dell’aeroporto. I miei passi erano lunghi, Haruko non riusciva a starmi indietro, mi chiamò un paio di volte. Ma non sapevo ascoltarla. Non volevo ascoltarla.
Perché nemmeno lei sapeva ascoltare quello che le stavo
dicendo davvero.
Portami via da qui… portami via da questa strada che mi riporta da lei… da questo sentiero, dove sono stati già impressi al contrario i miei passi…
Ma lei non sapeva ascoltarmi. Forse non voleva nemmeno ascoltarmi.
Non scorgemmo nessuna testa rossa e nemmeno nessuna testa bionda. L’aereo risultava atterrato con straordinaria puntualità una mezz’ora fa. Non sapevo dove potessero essere e nemmeno mi veniva in mente. Poi immaginai che, considerata la folla presente nell’aeroporto in quella giornata, Kana doveva aver portato Anko nel parcheggio dell’aeroporto. Da lì, avevamo precedentemente deciso, avremmo chiamato un taxi per farci portare in centro. Poi, non sapevo più niente, intendo dove sarebbe stata Anko, ma presumevo ovviamente a casa di Hanamichi.
L’avremmo aiutata con i bagagli, io ed Haruko, poi
l’avremmo salutata, pronti a sistemare le ultime cose per la partenza per il
ritiro dello Shohoku. E tra le ultime cose, si intendeva anche un libro di
preghiere per scongiurare le risse giornaliere tra Rukawa e Sendo. E le crisi
di Ayako.
Aiutata… salutata… le sole cose che potevo fingere di fare…
All’entrata del parcheggio, vedemmo Hanamichi che, avendoci visti arrivare da lontano, si era fermato ad aspettarci. Non incrociai il suo sguardo e continuai a cercare di afferrare una sola delle mille parole che solcavano le labbra di Haruko, pronte a disperdersi nell’aria come fiocchi di neve sporca.
Tra queste parole vane, c’era anche un allegro e quasi entusiasta: “Allora Hanamichi, sei contento di vedere tua sorella dopo tanti anni? Chissà quante cose avrete da dirvi!”. Sorrideva Haruko e forse Hanamichi non se la sentì di essere sincero. O forse era la sua recita di normalità, notai con rabbia e disappunto. Rispose: “Non puoi immaginare quanta voglia abbia di vederla… dire che sono contento è dire poco…”.
Troppe parole. Nessuno sguardo a me e a lei. Occhi fissi davanti a sé.
Dire che è una cazzata è dire poco.
Pensò di rincarare la dose, simulando impazienza
improvvisa di rivedere la sua cara sorellina, coglione, e prese a
correre, cercando Kana ed Anko. Fui contento di procedere più lentamente, il
passo adesso cadenzato ed annoiato. Fremeva nella mia la mano di Haruko, forse
voleva correre anche lei a vedere il prodigio di una sorella di Hanamichi. Sta
tranquilla, che adesso la vedi… sta sempre là… dammi solo un altro minuto…
prima, non lo volevo? D’accordo, giusta obiezione, Vostro fottuto Onore. Ora ho
cambiato idea. Anche questo è un reato passabile delle pena di morte? Allora,
processate mezzo mondo. E l’altra metà sparatela a vista.
Ma i miei passi, prima o poi, mi portarono da lei, di nuovo.
Come era sempre avvenuto.
Non serviva litigare con Anko.
Il giorno dopo, ripercorrevo la strada all’indietro, il terrore di perdere nella gola quel sapore acerbo e vitale di latte e menta. Lei che era bellissima, e non lo sapeva ancora, lei che era potente come una regina negli occhi di me bambino, lei che aveva il potere di rendere tutto possibile… perché avrei fatto tutto il possibile per lei… tutto il possibile per vedere il sole dei suoi capelli sorgere, tutto il possibile per vedere gli abissi dei suoi occhi calmarsi, tutto il possibile per sentire l’arancia del suo profumo espandersi. E quindi anche il mio orgoglio rientrava nella categoria, quando litigavamo.
Non l’ho avuta, mai.
Mai, ho avuto Anko.
Non era farsela. Era averla in un altro senso. Ho Haruko, per esempio. Ho la certezza che faccio parte di lei, tocco i suoi pensieri, sfioro il suo cuore. Con Anko, non era così.
Lei si dava a te, ti prendeva un secondo e poi ti mollava. Ed in lei non lasciavi traccia. Andava avanti, sempre, con l’infinita coscienza e consapevolezza che era la sola cosa che poteva fare.
Haruko va avanti perché non sa fare altro. Non ha la forza di tornare indietro.
Semplicemente perché non potrebbe leggere il suo passato, troppo pieno di cose che non capisce e lascia indietro.
Anko andava avanti, perché non sapeva fare altro. Non aveva la forza di tornare indietro.
Semplicemente perché avrebbe potuto leggere il suo passato, troppo pieno di cose che avrebbe capito e voleva lasciare indietro.
Portava un enigma nel volto, piccola donna dalle forme di bambina, e questo sempre, quando giocava, quando parlava, quando rideva, quando piangeva, quando pregava, quando picchiava, quando comandava, quando dormiva.
Un Sacro Graal, fatto di carne e sangue incandescente. Cercare di afferrare il filo rosso della sua anima era tutto il senso della mia vita.
Piccola, Anko, piccola e grande assieme. Come Dio, immenso calore che sta nelle mani di un bambino.
Fragile come uno specchio dalle mille facce, perché piena di paure. Le nascondeva sotto l’abito svolazzante dei suoi colori accesi, le nascondeva come piaghe orribili sparse sul corpo.
E allora tu come lei, invulnerabile, perché non avrebbe tollerato in te altre paure che facessero ombra alla sua luce.
Argentea Anko, come mille campanelli quando rideva. L’eco delle porte del paradiso. Il miracolo di renderla contenta, e tu artista e messia. Ossessione ripetere il miracolo, nonostante sia un miracolo e non puoi chiederlo sempre. Fantasia di empireo immaginarla ridere nelle notti insonni in cui il sudore si attacca come una seconda pelle.
Piena di sogni e progetti, Anko. Sogni e progetti che erano solamente suoi, mai anche tuoi. Mai anche i tuoi.
Semplicemente non le interessava conoscerti. Se lo faceva, era solamente un caso. Desiderava solamente mille immagini riflesse della sua.
E, mentre il mondo le desiderava fare corona attorno, lei si ritirava in sé stessa sempre di più.
Espansiva, rideva e scherzava, ma era estremamente gelosa di lei stessa. Concedeva solamente qualche briciola della sua anima a me e ad Hanamichi, i servi privilegiati della sua multiforme corte.
Fino a quando, un giorno, tacque il più grande dei suoi
segreti.
Un segreto divenuto improvvisamente spaventoso, da affascinante
come era sempre stato.
Il segreto che era un’evidentissima verità, ma che nessuno
aveva mai guardato più attentamente.
La madre.
Quel segreto fu la madre di tutte le sue bugie. La madre
della sua fuga, alla vigilia della morte del padre.
La madre del suo tradimento. Del tradimento di tutti noi.
Ma se gli altri piansero mezza giornata, pronti ad
incoronare un’altra regina, io ed Hanamichi, i preferiti, piangemmo tutta la
vita.
Se muore un re, il buffone è il solo a piangere.
Abbiamo riempito il vuoto di lei, alla fine. Con gli amici. Con le risse. Con il fumare. Con il bere. Con il cazzeggiare.
Con Kaname.
Con Haruko.
Ma riempire un vuoto non è sanarlo.
È solamente dimenticarlo, giocando ad essere diversi.
Mentre siamo sempre gli stessi.
Sempre dannatamente gli stessi. Come questi passi che ritornano da lei. Solo un po’ più incerti di quelli di me bambino. Ma che ritornano sempre…
Indietro…
Indietro dalle cose che restano sempre dannatamente le stesse.
Delitto.
Non averla mai dimenticata.
Castigo.
Ritrovarla donna.
Bella, come non avrei mai pensato sarebbe stata.
Bella, come non avrei immaginato. Vedi l’alba. Puoi immaginare il tramonto, ma mai vederti davanti agli occhi il fulgore corallo di quel momento.
Bella come la speranza. Il verde della speranza che indossa con disinvoltura. La speranza che sia tutto uguale. O tutto diverso, non lo so.
Ritrovarla donna che mi parla di promesse di bambini.
Ritrovarla che ricorda di me.
Ritrovarla che, possessiva, parla di quando promettevo davanti al cielo qualsiasi cosa chiedessero le sue labbra.
Ritrovarla che rivendica il suo trono.
Ritrovarla che, dietro le lenti scure, cela ancora la sua anima. Di carta come la mia. Brucia in questo inferno che ci circonda adesso.
Ritrovarla con l’anima di carta scritta a caratteri neri nel mio cuore. Che sa ancora leggere quei caratteri.
Ritrovarla, la sua anima. Ritrovarla, quella promessa. Non
starò con nessuna, fin quando non tornerai tu.
E sentirmi fariseo.
Castigo.
Semplicemente… ritrovarla.
Espiazione.
“Ci sono promesse… e promesse… e, per alcune, è
chiaro che non saranno rispettate… non lo sai, Anko?”.
Se chiudo
gli occhi, forse sei
Tutti gli
errori, quelli miei.
Almeno tu
fossi poesia,
saprei
cantarti e così sia.
Chiudessi
gli occhi, affogherei.
E’ un
fiume in piena di vorrei,
se almeno
tu lasciassi scia,
saprei
seguirti e andare via.
(Negramaro-
Almeno una volta)
Premetto che questo capitolo doveva arrivare molto prima… e questo chiaramente penso che lo abbiate capito tutti. Ma questo capitolo doveva essere anche diverso, molto diverso… ci sarebbe dovuta essere anche Haruko, per questo parlavo di tre punti di vista. Ma poi ho preferito fare in questa maniera!!!! Che cosa posso dire in mia discolpa??? Una cosa semplicissima… mi sono innamorata. E quindi per mesi non riuscivo a seguire nessuna delle mie storie, perché ero troppo presa dalla mia vita in costante evoluzione. Ritengo di essere cambiata, di essere diversa, e non so se questo si capisca da quello che scrivo. Non riuscivo a scrivere, e questo per me era grave… ma poi alla fine ce l’ho fatta. Sarà stato egoista, considerando che questo racconto non è solamente mio, ma di tutte le persone che lo leggono e lo commentano, ma preferivo darvi qualcosa che fosse pienamente corrispondente a quello che volevo dirvi. Insomma, non sono una che si accontenta di scrivere quattro cose pur di andare avanti. Non so se seguirete ancora questa storia, considerando l’enorme ritardo, ma, se continuerete a farlo, vi ringrazio enormemente. Sono state le vostre recensioni a spingermi a continuare, non lo dico tanto per dire, probabilmente avrei smesso tanto di quel tempo fa se non avessi avuto voi!!!! Quindi grazie, grazie ancora… non vi nomino tutti, altrimenti probabilmente non ce la farei nemmeno oggi ad aggiornare!!! Ma prometto ringraziamenti più approfonditi nel prossimo capitolo!!!! Cassie !!!