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Autore: Malachia    08/08/2013    0 recensioni
Maa-heru, giusto di voce.
Secondo gli antichi egizi una persona "buona" e "meritevole di una vita nell'aldilà positiva" era una persona giusta di voce.
Ma come si fa a dirlo?
Chi, è in grado di giudicare le azioni di un'anima turbata dai demoni?
Chi, potrà insegnare ai dispersi delle isole più remote del pancreas e dei polmoni a uscire dal vortice di metano e scorie e ricominciare?
Un uomo dalla voce giusta, o semplicemente nessuno.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: Incompiuta
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E guardavi la pallida luna con gli occhi pieni di stelle, mentre t'ignettavi dolori psicadelici in vena.
"Mi porti lontano?" mi sussurravi, togliendoti il cuore per pulirlo dalla polvere, e lasciandolo cadere dentro alla  via 
lattea, nella vana speranza di impregnarlo dei sogni degli orfani di Budapest.
"Dove vorresti andare?" chiedevo, lasciando che la mia voce danzasse davanti al tuo sguardo disegnando le note della Yiruma, affascinandoti con il sangue dei padri uccisi sotto gli occhi delle mogli che urlano e piangono e disperano, e con i cuori che s'infrangono facendoti sentire meno sola.
Volevi scappare da te stessa, perchè ti odiavi a tal punto da amarti.
E ti spogliavi togliendoti gli occhi scuri, il biancore del volto, il rossore delle labbra, ti spogliavi della maglia verde troppo larga e intrisa di lacrime tossiche, dei pantaloni sgualciti a causa del sonno nascosto nelle tasche, delle scarpe che hanno camminato una vita percorrendo le nuvole rosse di Hiroshima, intente a  evitre i corpi grigi che vi dormivano 
eternamente sopra.
Restavi nuda a Chartres di fronte all'enorme donna di vetro che tanto disprezzavi, vedendola avvolta dalle fiamme insieme al 
figlio venerato dall'umanità, lasciandoli ardere nell'inferno e ridendo disperazione e rabbia; camminavi lungo la navata con 
gli occhi vitrei e i polsi che vomitavano rosso.
"Lascia che io viva" mi sussurravi, avvolta da un drappo bianco, mentre tenvo la tua testa tra le mani e ti accarezzavo i 
serpenti tra i capelli.
E rimanevo interte, con la follia nel sistema circolatorio e il metano nei polmoni.
Le tue mani tracciavano i lineamenti scarni delle mie ossa, evitando attentamente le cicatrici che la morte aveva lasciato 
nel tentativo di uccidermi.
Eri troppo fragile per spezzarti e troppo forte per andare avanti, così aprivi la tua cassa toracica, riempiendola col vuoto 
 che era abbastanza per colmarla; e aprivi gli occhi velati dalla speranza dei bambini ciechi delle baraccopoli di Bahia, 
cercando nel buio i fiori di vaniglia che spargevano un dolce odore, che veniva cullato nell'aria dai cadaveri decomposti 
che navigavano in rapide di vodka.
Lanciavi dalla finestra le pale dei ventilatori, decapitando i sogni delle figlie stuprate dalle forze di pace, mentre 
cercavi soltanto di portare via i dispiaceri, congelandoli e distruggendoli rabbiosamente.
Ti lasciai vivere, guardandoti mentre t'ignettavi in vena la solitudine, e ti lasciai morire, guardandoti mentre strappavi 
le vene dai polsi, e il cuore dal corpo, ti lasciai amare, guardandoti mentre ballavi scalza un valzer funebre al matrimonio 
di Stalin, calpestando cadaveri vivi.
  
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